JŪGUN IANFU: LA SCHIAVITÙ SESSUALE NEL GIAPPONE IMPERIALE

di Renzo Paternoster -

L’oggettificazione è un dramma antico nella storia delle donne, tanto in ambito domestico quanto nella società e nella politica. E in occasione di guerre la violenza sulle donne è purtroppo un fenomeno molto diffuso. Il caso nipponico durante l’ultimo conflitto mondiale si distingue per ampiezza e brutalità.

 

L’occupazione giapponese del sudest asiatico fu caratterizzata da una ferrea politica di sfruttamento coloniale: se gli uomini sono impiegati nel lavoro schiavo, le donne venivano adoperate per la servitù sessuale attraverso un complesso sistema di luoghi di prostituzione forzata.
Sebbene i bordelli militari esistessero nell’esercito giapponese dal 1932, essi si espansero dopo il 1937 in seguito al cosiddetto “stupro di Nanchino”.
La vicenda di Nanchino turbò non poco l’imperatore Hirohito, preoccupato per l’immagine del Giappone sul piano interno e internazionale. Così le gerarchie militari pensarono di estendere le già esistenti “stazioni di conforto” militari sia per prevenire nuove atrocità sia per ridurre le malattie sessualmente trasmissibili.
L’intersezione di potere coloniale, razzismo e genere condusse così nel sudest asiatico a una estesa e pianificata schiavitù sessuale chiamata Jūgun ianfu (Chonggun wianbu in coreano e wèi’ān fù in mandarino), un eufemismo tradotto con “donne di conforto”, ma che in realtà fu una immensa oppressione di circa duecentomila donne costrette a diventare risorse militari attraverso l’oggettificazione sessuale.
I luoghi di prostituzione forzata furono parte integrante della politica militare nipponica. Il sistema di schiavitù sessuale, come riferito, fu creato sia per migliorare il “benessere” e l’”umore” dei soldati nipponici, per aumentare così il loro rendimento militare, sia per ridurre la pratica degli stupri sia ancora per ridurre l’incidenza delle malattie veneree e le conseguenti ed eccessive spese mediche. Per questo nel 1942 vennero anche distribuiti circa 32,1 milioni preservativi ai soldati. I vertici militari credevano anche che, diminuendo gli stupri, si riducesse l’ostilità degli abitanti dei territori occupati nei confronti dei giapponesi. Inoltre, tenendo in isolamento le donne, i vertici militari pensavano anche di poter scongiurare l’infiltrazione di spie nemiche.

Le prime donne a essere “arruolate” furono prostitute giapponesi maggiorenni, reclutate (boshū) su base volontaria attraverso annunci ingannevoli. A queste donne nessuno aveva ovviamente riferito che quella che avrebbero praticato sarebbe stata una vera e propria schiavitù sessuale.
Con l’intensificarsi del conflitto sul continente, aumentò anche la richiesta di donne per i numerosi ianjo, i bordelli militari. Tuttavia, l’idea di utilizzare donne giapponesi da reclutare con la forza era inconciliabile con l’archetipo nipponico della ryōsai kenbo, la “brava moglie e madre” del Giappone. Così, per rifornire i bordelli militari di nuovi oggetti sessuali, i giapponesi rivolsero la propria attenzione sulle donne dei territori occupati, considerate razzialmente inferiori. Queste vennero arruolate attraverso l’inganno o peggio la loro requisizione (chōyō). Questa operazione fu chiamata dai giapponesi chōben, che grosso modo significa “approvvigionare scorte militari per la guerra”: la donna diveniva un oggetto utile per la campagna militare, come le munizioni e le provviste. Tuttavia, nonostante la messa a disposizione di donne da parte dei vertici militari, gli stupri non cessarono.
I giapponesi approfittarono della povertà dilagante nei territori occupati, promettendo alle donne lavori ben retribuiti come infermiere, domestiche o impiegate. In realtà l’ingaggio era per un altro lavoro, quello sessuale appunto. In altri casi le donne furono “affittate” ai militari direttamente dalle loro famiglie povere con un contratto di sei mesi o un anno.
Così è descritto il reclutamento in un rapporto statunitense: «All’inizio di maggio del 1942, agenti giapponesi arrivarono in Corea per arruolare ragazze coreane per un “servizio di conforto” nei territori giapponesi appena conquistati del Sudest asiatico. La natura di questo “servizio” non era specificata, ma si presumeva che fosse un lavoro legato alla visita dei feriti negli ospedali, alla fasciatura delle bende e, in generale, alla felicità dei soldati. L’incentivo utilizzato da questi agenti era un sacco di soldi, un’opportunità per pagare i debiti familiari, un lavoro facile e la prospettiva di una nuova vita in una nuova terra, Singapore. Sulla base di queste false rappresentazioni molte ragazze si arruolarono per il servizio all’estero e furono ricompensate con un anticipo di qualche centinaio di yen. La maggior parte delle ragazze erano ignoranti e non istruite, anche se alcune di loro erano già state legate alla “professione più antica della terra”. Il contratto che firmarono le legava alle regole dell’esercito e alla guerra per il “padrone di casa” per un periodo che andava da sei mesi a un anno, a seconda del debito familiare per il quale erano stati anticipati [...]» (US Office of War Information, Psychological Warfare Team Attached to U.S. Army Forces India-Burma Theater, APO 689, Report No. 49: Japanese Prisoners of War Interrogation on Prostitution, Date of Report: October 1, 1944, By: T/3 Alex Yorichi).
In altri casi ancora le modalità erano più semplici: sequestrare direttamente le ragazze con la forza; oppure prelevare le donne dai luoghi di prigionia; oppure ancora rivolgersi a un mediatore privato, ingaggiato per l’occasione, il quale con minacce procurava le giovani vittime.

Donne "di conforto" con un ufficiale giapponese

Donne “di conforto” con un ufficiale giapponese

Nell’esercito delle prostitute imperiali, oltre alle poche giapponesi, vi erano in maggioranza coreane e cinesi, ma anche taiwanesi, filippine, tailandesi, vietnamite, malesi, indonesiane, birmane e finanche trentacinque donne olandesi prelevate da luoghi di prigionia. Queste ultime vennero inviate in quattro centri di prostituzione diversi di Semarang, città portuale dell’isola di Java: il club degli ufficiali, il club di Semarang, quello di Hinomaru e di Seiun.
Ognuna di queste donne subì una iniziale indagine medica, a cui fecero poi seguito periodicamente altri controlli per attestare l’assenza di infezioni sessualmente trasmissibili.
A tutte venne imposto un nome giapponese.
Una parte di queste “donne di conforto” aveva diritto a una misera paga, ma questa veniva decurtata sia da una quota dell’anticipo sia dalle spese per i cosmetici e altre necessità personali. Inoltre per evitare fughe, il pagamento veniva spesso posticipato.
Il sistema prevedeva comfort stations stanziali e mobili: le prime erano quelle permanenti, le seconde quelle che si muovevano con l’esercito.
Ogni luogo di sfruttamento sessuale aveva prezzi, da versare al responsabile della stazione, e orari di ricevimento, entrambi prestabiliti in base al rango militare. Il sistema più comune può essere riassunto così: «Soldati semplici dalle 10 alle 17, con un ticket di 1.50 yen 30 minuti, 2 yen mezz’ora; Sottufficiali e addetti non militari dalle 17 alle 21, con un ticket 3.00 yen 30/40 minuti; Ufficiali dalle 21 alle 24, con un ticket 3-5.00 yen 30/60 minuti. Gli ufficiali potevano pernottare per 15-20 yen». (Report No. 49: Japanese Prisoners of War Interrogation on Prostitution).
In un’ottica razziale, per contraddistinguere le giapponesi da tutte le altre, le prime indossavano abiti tipici del Giappone, mentre tutte le altre vestivano uniformi. In molti casi non indossavano alcun vestito per il susseguirsi frenetico delle prestazioni sessuali. I “clienti”, infatti, spesso si susseguivano uno dopo l’altro, determinando un alto numero di prestazioni sessuali da subire.
Calcolando un numero minimo di 5 “clienti” a giorno per 6 giorni a settimana si ottiene la cifra spaventosa di oltre 1500 rapporti sessuali indesiderati a cui una singola donna era costretta a subire in un anno. Anche una prostituta che aveva accettato volontariamente non poteva comprensibilmente reggere questi ritmi. Questo determinava disturbi psico-fisici che ognuna delle sopravvissute si sarebbe portata dietro per sempre. Inoltre, sulle donne che riuscivano a sopravvivere a questo inferno, si abbatteva il disagio della vergogna e lo stigma sociale dopo il ritorno nei loro Paesi d’origine alla fine della guerra.

Una comfort station a Shanghai

Una comfort station a Shanghai

A seguito della disfatta giapponese, su questo criminale sistema di prostituzione calò il silenzio, rafforzato dalla distruzione della maggior parte dei documenti.
Tra i circa cinquanta processi per crimini di guerra istituiti tra il 1945 e il 1951 in Asia, solo il tribunale di Batavia (oggi Jakarta) emise sentenza di condanna nei confronti di militari giapponesi per prostituzione forzata. Poiché la causa che si svolse in questo tribunale era sotto l’egida olandese, le condanne riguardarono lo sfruttamento sessuale delle sole trentacinque donne olandesi.
Nel 1991, in occasione del 50° anniversario dell’attacco a Pearl Harbour, tre donne coreane resero pubblica la propria storia di oppressione sessuale. Intentando una causa legale contro il governo giapponese, le tre ex schiave sessuali dei ianjo chiesero un risarcimento per violazione dei diritti umani.
Il governo giapponese ammise pubblicamente per la prima volta l’esistenza delle “stazioni di conforto” durante la guerra, tuttavia, respinse ogni addebito, negando ogni legame diretto sulla responsabilità dell’organizzazione tra il loro esercito e la schiavitù sessuale.
Nel 1992 lo storico Yoshimi Yoshiaki ritrovò alcuni documenti che avvaloravano la responsabilità del governo e dei quadri di comando superiori nella pianificazione e organizzazione di questo sistema di sfruttamento sessuale.
Se in un rapporto stilato nel 1938 dal Consolato generale giapponese a Shanghai venivano citate le donne come mezzo per “assicurare momenti di ricreazione” ai soldati, un documento dello stesso anno riportava l’intenzione del governo di porsi a capo dell’opera¬zione, poiché contrario al metodo del rapimento utilizzato per reclutare le donne, che rischiava di distruggere la fiducia dei popoli sottomessi nei confronti dei giapponesi.
Nel 1992 il segretario capo di gabinetto nipponico Katō Koichi, pur non facendo assumere la responsabilità politica diretta al Giappone, espresse «le nostre scuse e [la nostra] contrizione”.
Il 4 agosto 1993 vennne pronunciato lo storico discorso conosciuto come “Kono Statement”, dal nome dell’allora Segretario di Governo, Yohei Kono: «Il governo del Giappone sta conducendo dal dicembre 1991 uno studio sulla questione delle “donne di conforto” in tempo di guerra. Desidero annunciare i risultati. Come risultato dello studio che indica che le stazioni di comfort sono state gestite in aree estese per lunghi periodi, è evidente che esisteva un gran numero di donne di conforto. Le stazioni di conforto sono state gestite in risposta alla richiesta delle autorità militari. L’allora autorità militare giapponese era, direttamente o indirettamente, coinvolto nell’istituzione e nella gestione delle stazioni di conforto e nel trasferimento delle donne di conforto. Il reclutamento delle donne di conforto è stato condotto principalmente da reclutatori privati che hanno agito in risposta alla richiesta dei militari. Dallo studio del Governo è emerso che in molti casi venivano reclutati contro la propria volontà, mediante lusinghe, coercizione, ecc., e che, a volte, alle assunzioni partecipava direttamente personale amministrativo/militare. Per quanto riguarda l’origine di quelle donne di conforto che furono trasferite nelle zone di guerra, escluse quelle dal Giappone, quelle della penisola coreana rappresentavano una buona parte. La penisola coreana era a quei tempi sotto il dominio giapponese e il loro reclutamento, trasferimento, controllo, ecc., erano generalmente condotti contro la loro volontà, attraverso lusinghe, coercizione, ecc. Innegabilmente si tratta di un atto, con il coinvolgimento delle autorità militari dell’epoca, che ha gravemente leso l’onore e la dignità di molte donne. Il governo del Giappone desidera cogliere questa opportunità ancora una volta per estendere le sue sincere scuse e il suo rimorso a tutte quelle donne, indipendentemente dal luogo di origine, che hanno sofferto incommensurabili sofferenze e ferite fisiche e psicologiche incurabili come donne di conforto. Spetta a noi, il governo del Giappone, continuare a considerare seriamente, ascoltando le opinioni dei circoli dotti, come possiamo esprimere al meglio questo sentimento. Affronteremo direttamente i fatti storici come descritto sopra, invece di eluderli, e li prenderemo a cuore come lezioni di storia. Con la presente ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai lo stesso errore incidendo per sempre tali questioni nella nostra memoria attraverso lo studio e l’insegnamento della storia. Poiché le azioni sono state portate in tribunale in Giappone e gli interessi in questa questione sono stati mostrati al di fuori del Giappone, il governo del Giappone continuerà a prestare piena attenzione a questa questione, comprese le ricerche private ad essa correlate.» [Statement by the Chief Cabinet Secretary, «Ministry of Foreign Affairs of Japan», August 4, 1993]
Per la prima volta un rappresentante dello Stato giapponese riconosceva ufficialmente e almeno in parte le responsabilità del suo Paese nel sistema di schiavitù sessuale in Asia.
Nel 1995 il governo Murayama, esprimendo il suo profondo rammarico per il colonialismo, la politica di aggressione in Asia e il terribile trattamento riservato alle donne nel sistema di schiavitù sessuale, istituì l’Asian Women’s Fund per cercare di non alimentare il fuoco della vergogna, prevedendo compensazioni monetarie e supporto sanitario e di welfare alle vittime ancora in vita, ormai donne anziane. Poiché l’Asian Women’s Fund era un’organizzazione non governativa, sostenuto maggiormente da donazioni di privati cittadini, le numerose ex schiave sessuali si sottoposero alla sua esistenza. Il fondo cessò di operare nel 2007.
Nel 2014, il governo di Tokyo, pur ritornando a non assumersi la responsabilità politica del sistema di prostituzione, annunciò lo stanziamento di 1 miliardo di yen per un fondo, amministrato da Seoul, che avrebbe garantito il “maggior benessere possibile” alle sopravvissute.
Solo nel 2015 giunsero le scuse ufficiali di Shinzō Abe, primo ministro del Giappone, per “le esperienze incommensurabili e dolorose” delle donne, senza però riconoscere il coinvolgimento dei vertici militari giapponesi nel programma di reclutamento delle donne, poiché era ritenuto organizzato da privati.
Nel 2021 giunse finalmente una sentenza che rendeva giustizia alle donne sopravvissute al vergognoso sistema delle Jūgun ianfu: il tribunale distrettuale di Seul stabilì che il governo giapponese avrebbe dovuto risarcire dodici donne coreane che prima e durante la Seconda guerra mondiale erano state ridotte alla schiavitù sessuale dall’esercito nipponico. La sentenza, pronunciata l’8 gennaio, impose il pagamento di circa 78mila dollari per ciascuna querelante.

Il sistema giapponese della prostituzione forzata fu un criminale abuso basato sul non riconoscimento del diritto di ognuna di quelle donne al dominio sul proprio corpo; una deumanizzazione che produsse una oggettificazione del corpo femminile divenuto merce di consumo per fini militari. Un crimine, dunque, in termini di violenza collettiva sulle donne in generale e violenza individuale su ciascuna di quelle donne. Per questo, il sistema di schiavitù sessuale creato dai giapponesi è un delitto che meritava di essere punito con severità da un Tribunale internazionale, come crimine di guerra, come violazione del diritto internazionale, come oltraggio a ogni singola persona e, soprattutto, come crimine contro l’umanità.

Per saperne di più
US Office of War Information, Psychological Warfare Team Attached to U.S. Army Forces India-Burma Theater, APO 689, Report No. 49: Japanese Prisoners of War Interrogation on Prostitution, Date of Report: October 1, 1944, By: T/3 Alex Yorichi, in «Exordio», http://www.exordio.com/1939-1945/codex/Documentos/report-49-USA-orig.html.
Statement by the Chief Cabinet Secretary, «Ministry of Foreign Affairs of Japan», August 4, 1993, https://www.mofa.go.jp/a_o/rp/page25e_000343.html.
Y. TANAKA, Hidden Horrors. Japanese War Crimes in World War II, Westview Press, Boulder 1996.
Y. YOSHIMI, Comfort Women. Sexual Slavery in the Japanese Military During World War II, Columbia University Press, New York 2002.
Y. TANAKA, Japan’s Comfort Women. Sexual slavery and prostitution during World War II and the US occupation, Routledge, New York 2002.
M.A. ODETTI, Jugun ianfu (Comfort women). La schiavitù sessuale nel sud-est asiatico durante la Seconda guerra mondiale e la memoria femminile, in «DEP. Deportate, esuli, profughe», n. 4, 2006, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/do cumenti/DEP/numeri/n4/Dep004.pdf.
Ministry of Foreign Affairs of Japan, Measures Taken by the Government of Japan on the Issue known as “Comfort Women”, 14 ottobre 2014, https://www.mofa.go.jp/ policy/women/fund/policy.html.
J.-J. Lee, How We Disappeared, Oneworld Publications – Hanover Square Press, London – New York 2019, trad. it. Storia della nostra scomparsa, Fazi, Roma 2020.
R. Paternoster, Il vizio dello stupro. L’uso politico delle violenze sulle donne, Tralerighe, Lucca 2021.