JÉRÔME PÉTION, IL PREZZO DELLA VANITÀ

di Giancarlo Ferraris –

Girondino, sindaco di Parigi e presidente della Convenzione Nazionale, ambiva a diventare l’uomo politico più importante della Francia e della Rivoluzione. Ma il contrasto con Robespierre gli fu fatale.

Una bella ascesa politica

        La Rivoluzione francese, lo abbiamo già detto, permise a molta gente di umili natali, di modesta o comunque di non eccelsa estrazione sociale di diventare qualcuno, di fare carriera, insomma di affermarsi nella vita pagandone però, talvolta, anche un prezzo elevato se non elevatissimo. Non ci soffermeremo questa volta sui soliti Robespierre, Danton e Marat, tanto per fare qualche nome più che celebre, ma su un piccolo protagonista della Rivoluzione, oggi forse o sicuramente dimenticato, ma in quegli anni all’apice della sua popolarità: Jérôme Pétion de Villeneuve. Nato a Chartres, una cittadina della regione della Loira nella Francia del Nord, il 3 gennaio 1756, apparteneva a una famiglia della piccola borghesia il cui padre era avvocato e giudice. Ricevette la sua educazione nel collegio di Vendôme gestito dai padri oratoriani, dove si nutrì di ideali classici e anche illuministici, prediligendo la lettura di Plutarco e, segretamente, anche quella di Jean-Jacques Rousseau: dal primo mutuò il valore delle virtù individuali, familiari e sociali come il coraggio, la prudenza, l’onestà, la temperanza; dal secondo il concetto che la natura ha creato l’uomo buono mentre l’avvento della società lo ha corrotto e l’idea che il contratto sociale è la forma migliore per garantire la libertà individuale e l’uguaglianza sociale. Successivamente studiò giurisprudenza diventando dapprima procuratore a Parigi, poi avvocato nella sua città natale. Ben deciso ad affermarsi nel campo della letteratura partecipò a numeri premi scrivendo nello stesso tempo alcuni trattati di diritto tra cui Moyens proposés pour prévenir l’infanticide (1781), Les Lois civiles et l’Administration de la justice (1782) e l’Essai sur le mariage considéré sous des rapports naturels, moraux et politiques (1785). La stesura di queste opere gli valsero l’ingresso nell’Assemblea dei Notabili di Chartres, un organismo di consulenza giuridica che, prima dello scoppio della Rivoluzione, veniva interpellato dal sovrano.
Nel 1789, ottenendo ben 164 preferenze su 190 votanti, Pétion venne eletto primo deputato del Terzo Stato di Chartres all’assemblea degli Stati Generali convocata in quell’anno dal re Luigi XVI per far fronte alla grave crisi in cui versava la Francia dell’Ancien Régime. Risale a quello stesso anno un altro suo scritto, Avis aux François sur le salut de la Patrie, in cui egli sottolineò con toni anche drammatici la necessità di rinnovare le strutture dello Stato per il bene di tutti i francesi. L’elezione agli Stati Generali permise a Pétion, insieme ad altri due deputati del Terzo Stato quali François Buzot e Maximilien Robespierre, di entrare a far parte dell’Assemblea Nazionale Costituente, che era stata creata dai rappresentanti del Terzo Stato e da quelli del basso clero per dare alla Francia un nuovo ordinamento costituzionale poiché la monarchia, la nobiltà e l’alto clero avevano manifestato, più o meno chiaramente, la volontà di non attuare nessuna riforma dello Stato francese.
All’Assemblea Nazionale Costituente Jérôme Pétion si fece subito largo per la sua bellezza virile, la voce chiara e forte, la parola facile, le idee chiare e aliene da ogni forma di compromesso al punto da essere soprannominato l’Inflessibile e da costituire una sorta di complemento e insieme di contraltare a Maximilien Robespierre a sua volta soprannominato, com’è ben noto, l’Incorruttibile. Fin da subito Pétion si batté da un lato contro il diritto di veto, che permetteva al sovrano di bloccare le decisioni dell’Assemblea e dall’altro lato a favore del suffragio censitario in virtù del quale a tutti i cittadini francesi titolari di un reddito veniva riconosciuto il diritto di voto e quindi di partecipazione alla vita politica del loro paese. Dopo essere entrato a far parte del Club dei Giacobini, nel settembre 1790 fu eletto presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente.
Nonostante il fatto che si fosse schierato dalla parte dei rivoluzionari più estremisti, Pétion era favorevole alla creazione in Francia di una monarchia costituzionale. Provò quindi un senso di smarrimento, oltre a coglierne subito le inevitabili e gravi conseguenze sul piano politico a cui sarebbe andata incontro la monarchia, quando nel giugno 1791 venne informato che Luigi XVI insieme alla famiglia reale aveva tentato di fuggire dalla Francia ed era stato riconosciuto e fermato dai rivoluzionari nella cittadina di Varennes. E toccò proprio a lui insieme ad Antoine Barnave, un altro deputato della Costituente, e a Charles de la Tour-Maubourg, un nobile passato dalla parte del Terzo Stato, occuparsi del trasferimento sotto scorta armata del sovrano e dei membri della sua famiglia a Parigi. Di questo episodio Pétion lasciò anche una curiosa e divertente memoria nella quale scrisse che Elisabetta di Borbone-Francia, la minore delle sorelle di Luigi XVI che aveva seguito il fratello sovrano nel suo tentativo di fuga, se fossero stati soli si sarebbe di certo abbandonata dolcemente nelle sue braccia.

Sindaco di Parigi

Pétion nel 1791

Pétion nel 1791

        Il 14 novembre 1791 Jérôme Pétion de Villeneuve divenne sindaco di Parigi ottenendo 6.708 voti su 10.632 votanti. Pensò di essere diventato l’uomo politico più importante della Francia e della Rivoluzione e iniziò ad agire senza più l’accortezza e il rigore precedenti. E la vanità, secondo alcuni storici, fu la sua rovina. Pur essendo giacobino e amico di Robespierre iniziò a simpatizzare per i girondini, la fazione moderata dello schieramento rivoluzionario, di estrazione borghese, vicina alla monarchia e favorevole alla guerra contro l’Europa. Eppure ancora nell’aprile 1792 Robespierre così si esprimeva a proposito di Pétion: «Colui tra tutti gli uomini che ho amato e stimato di più dall’Assemblea Nazionale Costituente in poi». I successivi avvenimenti della Rivoluzione gli furono poco alla volta fatali.
Il 20 giugno 1792 a Parigi si svolse una manifestazione per commemorare il tentativo di fuga del re che divenne rapidamente una vera e propria sommossa. La folla invase il palazzo delle Tuileries costringendo il sovrano a indossare il cappello frigio simbolo della Rivoluzione e a bere alla salute della nazione francese. Pétion commise l’errore di voler procedere all’arresto di tutti coloro i quali avevano preso parte all’evento, suscitando così la reazione degli altri rivoluzionari i quali domandarono all’Assemblea Nazionale Legislativa, l’organo parlamentare subentrato all’Assemblea Costituente, di sospenderlo dalla sua carica, richiesta che fu accolta e confermata, per ovvi interessi politici, anche dal sovrano. Tuttavia la grande popolarità di cui godeva lo salvò da questo provvedimento al punto che alcuni giorni dopo ricevette anche un’ovazione della folla parigina radunata in Campo di Marte.        Sentendosi sempre molto forte, anzi forse più di prima dato il sostegno tributatogli dal popolo di Parigi, Pétion il 3 agosto, nonostante la sua vicinanza ai girondini, che come abbiamo detto sostenevano la monarchia, domandò all’Assemblea Nazionale Legislativa di dichiarare decaduto il re. La sua richiesta venne però freddamente esaminata dai deputati della Legislativa e respinta. Questo fatto lo convinse che l’Assemblea gli fosse nemica a causa della sua popolarità e nello stesso tempo lo indusse a lasciare spazio a un’azione di forza che proprio in quei giorni si stava profilando nella capitale e che egli reputava come una preziosa occasione per accrescere il suo prestigio e porre in cattiva luce l’Assemblea. Essendo sindaco di Parigi, Pétion si trovò così coinvolto in due episodi tra i più cruenti della Rivoluzione prima del Terrore giacobino: l’assalto, il 10 agosto, al palazzo delle Tuileries, dove risiedeva la famiglia reale, da parte di una folla di sanculotti e di altra gente del popolo guidata dai rivoluzionari più radicali, i quali avevano addirittura creato una Comune Insurrezionale al posto della normale municipalità parigina, quest’ultima peraltro guidata dallo stesso Pétion; i successivi, terrificanti massacri del settembre 1792 che videro l’uccisione di 1.500 prigionieri sempre da parte delle frange più radicali dei rivoluzionari. In occasione dell’assalto alle Tuileries Pétion non fece nessuna opposizione agli estremisti, anzi gli lasciò via libera; dinanzi ai massacri di settembre rimase poi del tutto indifferente, adottando una tattica attendista che avrebbe dovuto tenerlo a galla nella tempesta fino al momento in cui non sarebbe emerso un vincitore dalla cui parte egli, ovviamente, si sarebbe schierato.

L’irreversibile declino

La morte di Pétion e Buzot in un dipinto di Dupain

La morte di Pétion e Buzot in un dipinto di Edmond Louis Dupain

        In un primo momento i fatti sembrarono dare ragione a Pétion. Il 21 settembre la Convenzione Nazionale, un nuovo organismo parlamentare costituitosi nelle settimane immediatamente precedenti, sostituì l’Assemblea Nazionale Legislativa. Pétion ne fece parte dapprima come deputato della Loira, eletto con 274 voti su 354 votanti, poi addirittura come presidente. Fu però un trionfo molto breve. Dopo poche settimane Pétion entrò infatti in dissidio con Robespierre che lo accusò di aver accumulato due cariche estremamente importanti e delicate – sindaco di Parigi e presidente della Convenzione Nazionale – e lo costrinse a dare le dimissioni da entrambe isolandolo così politicamente. Per tutta risposta Pétion si schierò apertamente con i girondini tanto che nel gennaio 1793 votò l’appello al popolo proposto, invano, dagli stessi girondini per salvare in qualche modo Luigi XVI dalla pena capitale. Oltre a questo iniziò a sostenere Buzot, il quale denunciava continuamente le pressioni esercitate dalla Comune Insurrezionale di Parigi sulla Convenzione Nazionale e sosteneva altresì la necessità di sciogliere il Club dei Giacobini. Il contrasto con Robespierre si acuì quindi sempre di più tanto che nell’aprile del ’93 Pétion così si esprimeva a proposito dell’Incorruttibile: «È necessario che Robespierre sia marchiato con il ferro destinato ai calunniatori».
L’ultimo atto dell’avventura politica di Jérôme Pétion de Villeneuve si consumò nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793, quando i girondini vennero spazzati via dal movimento rivoluzionario popolare parigino attraverso quello che fu in realtà un vero e proprio colpo di Stato mascherato da insurrezione popolare e pilotato dai giacobini di Maximilien Robespierre. Pétion riuscì a fuggire, evitando così l’arresto a cui andarono incontro gli altri girondini e a raggiungere Caen dove cercò, inutilmente, di sollevare la Normandia contro la Convenzione Nazionale. Non sentendosi sicurò, scappò dapprima in Bretagna poi nella Gironda, il cui centro principale, Bordeaux, si era nel frattempo ribellato al governo rivoluzionario, trovando rifugio nel paese di Saint-Èmilion. Qui, insieme a Buzot e a Charles Barbaroux, un altro girondino sfuggito all’arresto, visse nascosto per poco più di un anno. Il 18 giugno 1794 vennero tutti e tre scoperti dalle truppe della Convenzione. Barbaroux tentò invano il suicidio, ma venne catturato e ghigliottinato mentre Pétion e Buzot si addentrarono in un campo di grano dove si uccisero sparandosi un colpo di pistola. I loro corpi, orrendamente dilaniati da lupi, furono ritrovati dai sanculotti alcuni giorni dopo.

Per saperne di più
A. Aulard, Les orateurs de l’Assemblée Constituante, Parigi 1905
P. Casselle, L’Anti-Robespierre Jérôme Pétion ou la révolution pacifique, Paris, 2016
M. Dorigny, “Pétion, Jérôme, dit de Villeneuve” in Dictionnaire historique de la Révolution française, Paris, 2005
F. Furet – D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. it., Bari, 1974