ISTITUZIONI E TENDENZE DELLA POLITICA INTERNAZIONALE IN EUROPA TRA 1492 E 1559

di Eduard Fueter -

 

Il predominio sull’Italia assillò le potenze europee per quasi sessant’anni dopo la scoperta delle Americhe e il progressivo spostamento dei traffici al di fuori del Mediterraneo. Lo storico svizzero Eduard Fueter, in questo saggio pubblicato oltre un secolo fa (1919), offre un efficace sguardo d’insieme su quel complesso periodo storico.

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Il problema centrale della politica internazionale

Il problema – In nessun altro periodo del sistema degli Stati europei è possibile raggruppare così facilmente, attorno a un piccolo problema, le lotte tra le grandi potenze per il predominio, come nel periodo che stiamo per trattare. Un’unica meta stette quasi senza interruzioni innanzi agli occhi degli Stati e delle dinastie, che verso la fine del XV secolo, grazie all’esterna espansione e al consolidamento interno, cominciarono a distaccarsi dalla massa dei piccoli e medi Stati, essendo considerata il compito più importante della loro politica estera: il predominio sull’Italia. I primi anni del periodo danno al problema, con la spedizione francese a Napoli, una forma acuta; gli ultimi, portano alla definitiva decisione in favore degli Asburgo. È vero che questa lotta viene interrotta più volte per brevi intervalli di tempo, nei quali sembra che prevalga la lotta degli Stati cristiani con la potenza degli Ottomani, allargantesi verso Occidente. Ma perfino questo conflitto, per quanto riguarda la politica internazionale, doveva cedere a quello italiano. Questa concezione ha dominato la politica estera delle grandi potenze d’allora, e lo storico non ha nessuna ragione di professare un’altra opinione.
Egli deve procedere così, sebbene sappia che altri avvenimenti del tempo, almeno per la storia ulteriore del sistema degli Stati europei, hanno avuto più importanza che la lotta per il predominio sull’Italia. La scoperta della nuova via marittima verso l’Oriente asiatico, le conquiste spagnole in America, e perfino la nuova politica commerciale del governo inglese, hanno verosimilmente influenzato lo sviluppo delle potenze europee più che l’egemonia della dinastia degli Asburgo sull’Italia. Ma non dovrebbe essere compito della storiografia scientifica orientare l’esposizione di precedenti periodi secondo le labili visuali che vengono offerte da tempi posteriori, oppure dal tempo presente. Qualunque sia, ora, dopo quattro secoli, il significato di quella lotta per il predominio sull’Italia, per la politica delle grandi potenze europee d’allora questo conflitto era un problema centrale, e a questo fatto anche lo storico dovrà arrendersi.

Le cause del problema - Il problema non era una necessità, quand’anche vi si voglia intendere soltanto la relativa necessità, della quale si può parlare nella storia degli Stati.
Sarebbe errato vedervi la risultante dello sviluppo politico del secolo XV. Anche ammettendo che la politica di espansione francese, terminata la lotta con l’Inghilterra, si sarebbe rivolta nel modo più naturale verso l’Italia, vi sarebbe in fondo a questa concezione una premessa che non aveva nessuna necessità di realizzarsi, ché la guerra tra l’Inghilterra e la Francia cessò realmente solo per il fatto che la politica estera inglese prese consapevolmente un nuovo orientamento, abbandonando definitivamente i suoi piani tradizionali contro la Francia. Nessuno però potrebbe dimostrare che il regime dei Tudor, il quale iniziò questa politica, rappresenti l’inevitabile risultato finale delle lotte della nobiltà nel secolo XV. Eppure senza questo mutamento anche la politica francese verso l’Italia sarebbe stata impossibile. Ma non si può definire neanche questa una vera necessità politica.
Qui perciò non si può trattare che di chiarire le condizioni che resero spiegabile la lotta per il predominio sull’Italia, seppur non necessaria.
Due considerazioni inducevano i governi delle grandi potenze ad aspirare all’egemonia sull’Italia: una riguardava la diversità dei mezzi esistenti tra gli Stati italiani e i grandi Stati consolidatisi nel corso del secolo XV; l’altra riguardava i vantaggi (anzitutto economici, e perciò anche militari) che il dominio sull’Italia e l’esclusione della potenza rivale da questo, comportavano.
Per quanto riguarda il primo punto – la differenza dei mezzi sarebbe assolutamente erroneo intendere questa differenza alla stregua della morale, sia pure solo nel senso che i grandi Stati aggressori fossero organismi statali politicamente più elevati o più razionalmente organizzati. In Italia vi era di certo, al principio dell’epoca, almeno uno Stato che nella sua organizzazione era rimasto dietro ai grandi Stati recentemente consolidati (lo Stato pontificio, e poi anche Napoli). Ma stati come Venezia, Milano e Firenze, non possono dirsi affatto arretrati rispetto alla Francia e alla Spagna, e anche chi volesse riconoscere un sintomo di superiorità politica nella relativa compattezza nazionale degli Stati francese e inglese, basterebbe gettasse uno sguardo sulla potenza degli asburgica, per capire che anche questo criterio sarebbe inadeguato. Le cose sono invece molto più semplici. Soltanto l’estensione dava ai nuovi grandi Stati la preminenza sugli Stati medi italiani; quelli erano in grado, almeno per terra, di costituire eserciti maggiori. (Per mare la situazione era diversa; ciò preservò la Repubblica veneta dalla sorte degli altri Stati italiani). Le grandi potenze che combattevano per il predominio in Italia, possedevano indubitabilmente una più efficace organizzazione politico-militare che altri paesi europei, i quali, per quanto non minori in sé, pure erano impediti, dal deficiente armamento, a intervenire decisivamente nei grandi conflitti italiani. Ma di fronte agli Stati italiani non si può riconoscere loro alcuna superiorità; soltanto la superiorità geografica fu decisiva.
Per quanto riguarda il valore economico del predominio sull’Italia, si può riassumere il vantaggio economico dell’egemonia sull’Italia in tre punti: l’utile finanziario diretto proveniente dal dominio su grandi centri industriali o commerciali; il vantaggio che veniva al possessore dalla ricchezza, in alcune regioni italiane, di prodotti del suolo e innanzi a tutto di grano (soprattutto non appena egli stesso soffrisse penuria di questi prodotti), e finalmente il guadagno, che trascendeva il mero campo economico e consisteva nell’avere a disposizione le forze navali delle due maggiori potenze marinare e cristiane del Mediterraneo.
Le diverse parti d’Italia partecipavano in modo diseguale a questo contributo: il mezzogiorno e una gran parte del centro contavano soltanto per il punto secondo, mentre l’Italia superiore e la Toscana avevano valore innanzi tutto per il loro commercio, la loro industria e le loro flotte. Oltre a ciò però, vi era tra tutte queste cose una interdipendenza. Particolari condizioni politico-militari avevano fatto sì che il potere su uno dei più importanti centri industriali del Nord (Milano) fosse anche l’unica via per impossessarsi di uno dei due grandi Stati marinari (Genova) e, contemporaneamente, della sicura disponibilità di tutta la produzione granaria dell’Italia meridionale. Perciò non era possibile alle grandi potenze dividere l’Italia, ai fini di uno sfruttamento collettivo, pacificamente, in sfere di influenza. Qui sta il problema di Milano, e così si spiega il fatto che la lotta per l’Italia diventò in massima una lotta per Milano.

I mezzi di lotta politici

map_italy_in_1559La nuova organizzazione diplomatica - Questa concentrazione della politica estera delle grandi potenze in un grande problema centrale creò per l’Europa una situazione diplomatica del tutto nuova. Coalizioni per fini offensivi e difensivi non erano mancate neanche prima; ma ora, simili combinazioni venivano organizzate più sistematicamente e più consapevolmente conservate che nei secoli precedenti; e si ponevano, più decisamente di prima, fini che riguardavano tutto il sistema europeo degli Stati, e non solo i rapporti tra due Stati. Assai più fortemente di prima agivano ora le modificazioni nell’interno di uno Stato o nei rapporti tra due Stati sulla situazione internazionale, e da ciò derivò poi il fenomeno, prima non constatabile, almeno in questa forma caratteristica, per cui durante certi periodi, tutti gli Stati d’Europa, anche i più piccoli e più lontani, venivano implicati nelle ostilità degli Stati maggiori e aggregati a uno dei gruppi rivali. Per comprendere il contrasto con la generazione immediatamente precedente, si pensi solo a quanto fosse limitato l’orizzonte di un rappresentante intelligente della generazione più vecchia come era il Commines. Si osservi come raramente la speculazione politica del fiduciario del re Luigi XI si occupi di paesi relativamente non lontani, come i regni spagnoli e la Turchia, e si confronti la importanza assunta dalla Spagna e dagli Ottomani per la Francia, nel periodo qui considerato.
Questa nuova politica non fu instaurata all’improvviso. Essa attirò via via, nella propria orbita, tutti i membri del sistema statale europeo, e si trova in piena efficienza soltanto nella seconda metà dell’epoca. Si possono definire i primi due o tre decenni come il periodo dei tentativi, degli esperimenti di adattamento alle nuove condizioni. Sono questi anche gli anni nei quali i rapporti di alleanza vengono mutati con particolare rapidità e trasformati in nuove combinazioni, quando non sono rovesciati addirittura nel loro contrario. È stolto fare un rimprovero di machiavellismo, nel senso comunemente inteso, proprio al periodo di tempo qui esposto; ma se con ciò si vuol dire soltanto che raramente si sono conchiuse e sciolte subitamente alleanze come nel tempo che ispirò al Segretario fiorentino le sue considerazioni, si deve ritenere questo giudizio tutt’altro che errato. I governi si trovavano davanti a una situazione assolutamente nuova. Dovevano fare i conti con forze, la cui importanza politico-militare essi conoscevano molto imperfettamente; dovevano comprendere nel raggio della loro speculazione Stati sul conto dei quali erano informati solo in modo insufficiente. Tutto ciò era conseguenza della nuova situazione, per affrontar la quale le precedenti esperienze erano insufficienti. Cominciò quindi un’epoca di disordinati tentativi, che durò fino a tanto che la esperienza delle proporzioni delle forze agenti nel nuovo conflitto internazionale non portò un chiarimento. Una volta raggiuntolo, i rapporti di alleanza si stabilizzarono, sebbene, per il resto, la politica internazionale non mutasse il suo carattere violento. Si pensi, per esempio, all’alleanza della Francia con la Turchia; una simile combinazione, duratura e relativamente serena, tra due grandi potenze, non è riscontrabile nella prima metà di quest’epoca.
Che allora si formasse una nuova situazione, lo si dimostra soprattutto col fatto che si sentì la necessità di una nuova organizzazione diplomatica. Le fonti alle quali finora i governi avevano attinto le informazioni sui mutamenti della politica estera, non erano più sufficienti a soddisfare i nuovi bisogni di informazioni internazionali. Particolarmente gli Stati medi, militarmente più deboli, i quali soltanto in unione con altre potenze potevano conservare la loro indipendenza dai grandi Stati, erano nella necessità di essere informati nel modo più preciso su imminenti progetti politico-militari. Ma anche le grandi potenze si videro costrette, in un tempo, in cui gli stessi Stati potenti potevano resistere a coalizioni ostili solo con l’aiuto di comunità minori, a farsi informare a tempo dei piani dei rivali, onde organizzare eventualmente una loro contro-coalizione. Da questo bisogno nacque l’istituzione di ambasciate permanenti, negli Stati europei più importanti.
L’unica eccezione conferma in questo caso la regola. L’impero degli Ottomani non manteneva rappresentanze permanenti, ma la Turchia era anche l’unico dei grandi Stati militari tanto forte da non dover temere nemmeno un’alleanza di tutti gli altri Stati insieme. Se essa non seguì l’esempio degli altri governi, ciò dimostra semplicemente che la nuova istituzione poteva essere considerata superflua soltanto in condizioni assolutamente eccezionali.
Il mantenimento di ambasciate permanenti non era in sé nulla di nuovo; ma l’istituzione era stata in uso fino allora solo nell’interno di un singolo paese. In Italia aveva regnato, da circa mezzo secolo, uno stato di cose simile a quello che ora si creava per tutta l’Europa. Parecchi Stati combattevano per la propria espansione, di solito a spese del rivale, e anche se i concorrenti disponevano di forze militari e finanziarie disuguali, ciò non per tanto nessuno era così forte da non preoccuparsi per la coalizione di due altri contro di lui. La necessità di informazioni diplomatiche continue si fece sentire quindi in Italia prima che nel resto dell’Europa. Il primo caso che si presenta è della prima metà del XV secolo (1448), e riguarda Firenze, tra i due Stati cioè più minacciati dalla politica espansionistica del più potente degli Stati italiani, la Repubblica veneta. Più tardi seguirono varie altre fondazioni, e presto i due governi italiani adottarono il nuovo sistema anche fuori della penisola. Anche qui era determinante la considerazione che al più debole spettasse innanzi tutto il dovere di difendersi, con informazioni tempestive, da tentativi di aggressione del più forte.
Con ciò si spiega, primo, come queste legazioni venissero mantenute in massima soltanto presso il governo francese, l’unico dal quale, in quei tempi, si poteva temere un’offensiva contro l’Italia, e non invece in Inghilterra ecc., e poi, come il primo stato che istituisse una legazione permanente in Francia fosse quello che un’invasione francese avrebbe colpito per primo, cioè Milano.
Ciò spiega però anche la ragione perché le rappresentanze diplomatiche fossero allora tutte unilaterali; le ragioni che inducevano Milano e Firenze a istituire rappresentanze permanenti in Francia non esistevano per il governo francese, che non aveva nulla da temere dagli Stati medi italiani. Infine, dopo quanto si è detto, è comprensibile che, al principio dell’epoca più oltre trattata, l’istituzione di rappresentanze permanenti fosse considerata da varie parti come segno di debolezza politica. Ad ogni modo, lo Stato minore era assolutamente costretto a informarsi dei progetti del maggiore; per la grande potenza, questa necessità invece non esisteva. Non senza ragione quindi lo storico e politico Marino Sanuto (Diari, I, 739) enumerava, «a gloria di Venezia », quanti oratori italiani risiedevano in città (1497), e per una analoga considerazione, proprio gli Stati che dovevano temere che tra loro e le grandi potenze si facesse una distinzione, insistevano perché, a questo riguardo, tra loro e gli Stati più potenti si instaurasse un rapporto di reciprocità. Proprio perché il governo inglese non poteva competere, per importanza militare, con quello imperiale, pretese che Carlo V mantenesse presso di lui un ambasciatore, come esso l’aveva alla Corte imperiale (1529); e quando, nel 1520, tra Carlo V ed Enrico VIII si pattuisce che i due monarchi debbano avere ambasciatori reciprocamente, si può ritenere che, da parte inglese, fosse determinante il desiderio di vedere riconosciuta dalla controparte, pubblicamente, l’equiparazione del re inglese con l’imperatore.
Durante questo periodo, l’istituzione di rappresentanze permanenti non si estese più in là. Gli Stati medi italiani avevano cominciato; li seguirono le grandi potenze che combattevano per il predominio in Italia, o erano interessate a questa lotta, a eccezione della Turchia; gli Stati minori o lontani, specie quelli politicamente meno progrediti, continuarono invece col vecchio sistema delle ambascerie occasionali. Perciò non troviamo quest’istituzione né nel Portogallo, né in Scozia, né nella Polonia o in Ungheria, né nella Scandinavia, né nella Confederazione, per non dire delle signorie territoriali tedesche, per le quali l’invio di ambascerie trovava anche impedimenti di diritto pubblico.
Nel caso di Stati come il Portogallo, che si trovavano sostanzialmente fuori della politica europea, cioè fuori del sistema di alleanze moventisi attorno all’Italia e al pericolo turco, pare che questa mancanza non abbia avuto conseguenze dannose; non così in Ungheria e in Polonia, che erano rivali di uno Stato dei meglio organizzati in fatto di diplomazia, cioè la Casa d’Austria (1).

Letteratura politica – L’allargamento dell’attività diplomatica influì anche sulla letteratura politica, destinata al pubblico internazionale. Dacché s’era formato un vero e proprio sistema di Stati europei, i governi tenevano a influenzare l’opinione pubblica in una cerchia geograficamente più ampia di prima.
Mentre le loro esposizioni ufficiali avevano fatto appello, finora, soltanto a uno o più Stati esteri vicini o direttamente interessati, ora non potevano fare a meno di rivolgersi a lettori di paesi più lontani. I comunicati internazionali, scritti nella lingua europea, la latina, e l’uso di argomenti che insistevano su interessi comuni, come per esempio la difesa della cristianità, vennero coltivati con maggior cura.
Naturalmente qui non si possono tirare linee di demarcazione così rigorose, come fu possibile nel trattare della nuova organizzazione diplomatica. Anche se si astrae completamente dalle scritture ecclesiastico-politiche e curiali del tempo precedente, che avevano dovuto conservare sempre un carattere internazionale, non si può sperare di trovare questa volta un criterio distintivo così preciso, come è quello dell’istituzione delle ambasciate permanenti. Ciò nondimeno si potrà affermare che la pratica delle scritture fu trasformata e ampliata come quella della diplomazia.
Quale sintomo della mutata situazione si può considerare innanzi tutto l’interesse che incominciarono ad avere i governi fuori d’Italia per il movimento umanistico. Chi desiderava influire sul pubblico internazionale, sui lettori colti di tutta Europa, doveva disporre di scrittori conoscitori della lingua latina e dello stile di moda, o almeno di uno dei due. In Italia, che anche in questo servì d’esempio, i governi l’avevano previsto già da parecchio tempo, e in parecchi Stati uomini formati all’umanesimo erano arrivati a posti direttivi. Da quando le lotte degli Stati non italiani per il predominio avevano assunto un carattere europeo, e perciò l’opinione pubblica italiana era più considerata di prima, anche le grandi potenze fuori della penisola si videro costrette a servirsi di quest’arma.
Perciò, la letteratura politica ufficiale e ufficiosa prese un enorme sviluppo, e per quantità e per qualità. Una marea di scritti polemici accompagnò gli avvenimenti militari e diplomatici. Ed era polemica pubblica: i governi non lavoravano solo con scritti semiconfidenziali, come per esempio l’imperatore Massimiliano con alcune dichiarazioni «per la Germania ufficiale » (H. Ulmann, Kaiser Maximilian, II [1891], 374), ma anche si combattevano spesso pubblicamente. Allorché il re Luigi XII di Francia, nell’anno 1498, fece diffondere in Italia una notizia sui rapporti con il signore austriaco, non solo l’ambasciatore di Milano, alleata di Massimiliano, che viveva alla corte imperiale, compilò una risposta che venne inoltrata alle cancellerie italiane, ma lo stesso imperatore Massimiliano fece elaborare una relazione ufficiale, una «lettera» a Lodovico il Moro, che poi doveva essere «diffusa per tutta la cristianità».
Non sempre, per vero, veniva rispettata l’esigenza che la diatriba ufficiale fosse compilata in latino e nello stile umanistico. Talvolta si poteva osservare soltanto una delle condizioni; così, per esempio, il Dialogo di Juan de Valdés, Mercurio e Caronte, che contiene un’apologia ufficiosa della politica di Carlo V, è bensì nello stile in tutto umanistico, ma scritto in lingua spagnola. In altri casi i mandanti si accontentavano di una relazione latina, spoglia di ogni ornamento oratorio umanistico. Per principio però, i governi pretendevano che i loro incaricati scrivessero e in latino e secondo le regole del gusto umanistico. Questo è dimostrato dalla straordinaria autorità che godevano gli stilisti tra gli scrittori politici, come l’italiano Giovio, e da un caso come quello dell’imperatore Massimiliano, il quale, benché per cultura appartenesse al medioevo, pure favorì la diffusione in lingua latina delle pubblicazioni ufficiose. Non costituiscono naturalmente eccezione a questa regola i molti casi in cui un governo si rivolge con spiegazioni ufficiose al proprio paese. Che i suoi mandatari si servissero in questi casi comunemente della lingua del paese, ed eventualmente anche di uno stile popolare, cioè non umanistico, è facilmente comprensibile.
Nello stesso ordine d’idee va detto in fine che la pubblicazione di contratti internazionali, discorsi di signori ecc., era ormai divenuta regola. A questo proposito è notevole il fatto in sé, come anche la circostanza che ai fini della propaganda spesso veniva mutilato o falsificato il testo degli atti e dei discorsi. Così il testo pubblicato del patto franco-spagnolo del 1505, conteneva intenzionalmente cifre inesatte sull’ammontare del vicendevole concorso militare, e del discorso che Carlo V tenne a Roma nel 1536, venne redatto per la stampa un testo che sopprimeva uno degli sfoghi più significativi del monarca.

Note
(1) L’istituzione di rappresentanze permanenti fa, com’è noto, epoca anche per la storiografia. Poiché gli ambasciatori permanenti erano tenuti a fornire continuamente relazioni, e i loro rapporti venivano conservati, abbiamo in quel tempo una ricchezza di materiale diplomatico, che non ha nulla di simile nei tempi anteriori. Soltanto da quel momento è possibile ricostruire con qualche certezza la storia di trattative diplomatiche.

(Da Storia del Sistema degli Stati Europei dal 1492 al 1559, Firenze, La Nuova Italia, 1932, pp. 3-15)