INDIA-CINA: UN CONFRONTO A GEOMETRIA VARIABILE

di Massimo Iacopi -

La geografia, la storia, i popoli: i fondamenti della geopolitica sono semplici. Ma nel caso della Cina e dell’India sono alquanto complessi: due civiltà plurimillenarie che hanno avuto il tempo di conoscersi, di misurarsi e di confrontarsi.

Non bisogna sempre fidarsi delle carte o forse, piuttosto, occorre saperle leggere. Guardando quelle dell’Asia centrale e meridionale, al loro centro troneggia l’Himalaya, il più alto sistema montuoso del mondo. In esso vi trovano la loro sorgente i fiumi che scorrono verso l’est, come il fiume Giallo o il fiume Azzurro (Yangtze), i cui delta hanno visto nascere la civiltà cinese, o verso il sud, come il Gange e l’Indo, lungo i quali si è schiusa la civiltà indiana. Da una parte e dall’altra di questa catena, si potrebbe pensare, due mondi simmetrici e separati: il muro di pietra e di ghiaccio delle alte montagne, le foreste ostili dell’Assam e del Nepal centrale, i ghiacciai del Tibet si pongono come ostacoli invalicabili che isolerebbero ermeticamente India e Cina.

La dove la geografia separa…

CatturaEppure l’Himalaya non costituisce un mondo omogeneo. Esistono piccoli stati sulle sue pendici, come il Nepal e il Buthan, per non parlare del Tibet, annesso dalla Cina nel 1950-51. I contenziosi, ancora numerosi lungo tali frontiere, dimostrano che esse non costituiscono una separazione ermetica, come si potrebbe supporre. L’islam si è imposto a ovest, l’induismo al centro e il buddismo al nord e a est. La più alta montagna non è diversa dalle altre e come tutte le altre costituisce una zona di contatto e di conflitti, oltre che una barriera.
D’altronde, non esistono montagne che non si possano attraversare o aggirare. Dai tempi antichi si sono consolidate rotte che collegano l’India e la Cina, dalla rotta della seta a nord fino a quella marittima a sud, già percorsa dall’ammiraglio cinese Zheng He nel 1400, mentre le relazioni fra le due aree risalgono a tempi immemori. Secondo lo storico Sima Qian (145-90 a.C.) gli abitanti del Sichuan, nel sud-ovest della Cina, avrebbero indossato abiti fabbricati nello “Shendu”, un termine derivato dal Sind a quel tempo designante l’India.
Gli scambi commerciali si sviluppano in seguito: con essi l’India vende perle, coralli e profumi, mentre la Cina esporta seta. A questi traffici si aggiungono anche scambi scientifici: i Cinesi traducono le opere di astronomia e di medicina arrivate dall’India, adottano le sue tecniche di fabbricazione dello zucchero e fanno scoprire agli Indiani la fabbricazione della seta. Il Buddismo, nato in India, si diffonde in Cina a partire dal I secolo a.C., dove si insedia, mentre inizia a scomparire dalla sua terra d’origine. L’apporto più emblematico dell’India alla Cina potrebbe essere il dragone, che ne è diventato il suo simbolo e che deriverebbe dal serpente gigante dei miti vedici.
Nel 1982 lo storico, linguista e scrittore cinese Ji Xianlin evoca ha evocato una vera simbiosi: i due paesi «si sono illuminati ed influenzati a vicenda… Io penso che succederà la stessa cosa nel futuro. Le due brillanti culture dei due grandi popoli, hanno illuminato il progresso dell’umanità». Un programma per l’avvenire ? Lo storico scettico evidenzierà, peraltro, qualche conflitto lungo la frontiera del nord, di cui l’ultimo ha visto le truppe cinesi saccheggiare Ladhak, la capitale indiana dei Sikh.

… la storia avvicina

Da una parte e dall’altra dell’Himalaya, Cina e India, due dei più antichi centri di civiltà del pianeta (almeno dal 2000 avanti Cristo) seguono due vie parallele dove si succedono le stesse tappe. I Maurya (322 a.C) e i Qin (221 a.C.) tentano di unificare i due Paesi, con maggiore successo in Cina che in India. Qui nascono le prime potenze mondiali, per popolazione ed economia, del XVII secolo, che attraversano poi gravi periodi di crisi nel XVIII e XIX secolo, aprendo la via alla dominazione straniera, Britannica in primis. Nei primi tempi della messa sotto tutela da parte dell’Europa, si verificano alcune “rivoluzioni reazionarie”, secondo l’analisi di Karl Marx, quella dei Sepoys, nella valle del Gange e quella dei Taiping. Poi, due movimenti di decolonizzazione e di liberazione che intrattengono fra di loro stretti legami: il cinese Sun Yat Sen, che porta il suo sostegno al Partito del Congresso indiano, e Nehru, che rende visita ai dirigenti cinesi nel 1939. Due regimi diffidenti, se non ostili, nei confronti dell’Occidente, Nehru in India (1947) e Mao Zedong in Cina (1949).
La similitudine dei destini potrebbe far pensare che Pechino e Nuova Delhi sono destinate a cooperare nell’ambio di una grande Asia in via di risveglio, secondo la formula di Nehru di una Resurgent Asia. Ne è testimone lo slogan alla moda negli anni ’50: Hindi-Chini bhai-bhai (“Indiani e Cinesi sono fratelli”).
Tuttavia, le divergenze sul tappeto sono numerose. Conviene ricordarne una che ci interessa direttamente: l’India è ridotta allo statuto di colonia, diretta o indiretta, mentre la Cina è suddivisa in zone d’influenza.
L’India deve molto di più ai padroni britannici. In primo luogo l’unità del Raj (impero), che le diverse dinastie erano state incapaci di realizzare totalmente, ma anche la democrazia (con tutti i suoi limiti), lo stato di diritto, l’amministrazione dell’Indian Civil Service (il sistema di funzionari britannici della macchina amministrativa indiana). Che lo voglia o no, l’India di oggi è anche erede dell’antico Impero britannico, mentre in Cina il rifiuto dell’Occidente è stato decisamente più radicale.
Nulla è più emblematico della comparazione fra Nehru e Mao. Il primo – cresciuto da nutrici inglesi, quindi educato a Cambridge – parlava meglio l’inglese che l’hindi; uomo moderno, vieta il sistema delle caste (senza grande successo) e si ispira tanto all’URSS quanto ai paesi capitalisti; il suo ateismo lo allontana dalla grande maggioranza dei suoi compatrioti. Mao è marxista, senza dubbio, ma soprattutto rivoluzionario e patriota, lui che si paragona al “primo imperatore” Qin. Secondo Henry Kissingher, l’uomo si caratterizza per una fede assoluta nella capacità di resilienza del popolo cinese. Da un lato, un membro della classe superiore aperto sul mondo, moderno e moderato; dall’altro un rivoluzionario nazionalista che crede nel popolo più che nelle sue aristocrazie.

Moderazione indiana e offensiva cinese

La linea MacMahon

La linea MacMahon

Le buone relazioni dei sue paesi nel corso degli anni ’50 non devono però ingannare, perché dipendono in massima parte dalla moderazione indiana. Le relazioni diplomatiche vengono stabilite in grande pompa nel 1950 e Nehru spinge per l’ammissione all’ONU della nuova Repubblica popolare della Cina. In occasione dell’annessione del Tibet da parte di Pechino nel 1950-51 l’India lascia fare ma, nello stesso tempo, la Cina non riconosce la sua frontiera con l’India.
Nel 1954 l’Accordo di Panchsheel appare come una grande concessione di Nuova Delhi: essa rinuncia a tutti i diritti che i trattati anteriori gli avrebbero conferito nel Tibet (come ad esempio l’amministrazione delle Poste). Il politologo Christophe Jaffrelot, specialista dell’India e del Pakistan, questa moderazione non si spiega con la convergenza dei punti di vista delle due nazioni, ma esclusivamente con la paura che Pechino (bomba atomica) ispira a Nuova Delhi.
In effetti la simmetria della Cina e dell’India, da una parte all’altra dell’Himalaya, risulta deviante. I centri vitali della prima sono lontani, all’est, fuori della portata delle forze armate e degli aerei indiani, quelli dell’India sono molto più vicini, alla barriera montagnosa, a cominciare dalla capitale Nuova Delhi. Nel corso della guerra del 1962, l’esercito indiano eviterà di bombardare le truppe nemiche per paura di rappresaglie sulle sue grandi città del nord.
In effetti la guerra scoppia e trova le sue cause nel percorso di frontiera tracciato dai Britannici. A ovest la Linea Johnson (1865) assegnava all’India il territorio ghiacciato dell’Aksai Shin, posto peraltro al di là della linea di cresta e conseguentemente difficile da difendere da parte degli Indiani; ma testi ulteriori sono venuti a complicare lo schema iniziale e hanno permesso a ciascun protagonista di rivendicare la zona. A est la Linea MacMahon, posta sulla linea di cresta, era stata accettata dal Tibet in occasione della Convenzione di Simla del 1914, ma Pechino non l’ha riconosciuta. La disputa, questa volta, si incentra a est sull’Arunashal Pradesh (chiamato all’epoca North East Frontier Agency).
Dal 1956 i Cinesi tracciano una strada dallo Xingiang al Tibet che intacca l’Aksai Shin e vi insediano un contingente militare, senza che gli Indiani, effettivamente poco presenti, se ne rendano conto (all’epoca non esistevano i satelliti). La repressione della rivolta tibetana nel 1959 e la fuga del Dalai Lama, accolto in India, convincono Pechino ad andare oltre. Zhu Enlai propone che l’India rinunci alle sue pretese sull’Aksai Shin; in contropartita Pechino rinuncerebbe all’Arunashal Pradesh. Nehru risponde con la sua “politica dell’andare avanti”, che consiste nell’installazione di posti di frontiera nell’Aksai Shin, per isolare i soldati cinesi, con il risultato del moltiplicarsi degli incidenti di frontiera. Il 20 ottobre 1962 le truppe cinesi conducono una rapida offensiva sui due fronti dell’est e dell’ovest e si fermano quattro giorni più tardi. Al rifiuto dell’India di accettare qualsiasi accordo, le operazioni riprendono da parte cinese il 14 novembre, giorno dell’anniversario della nascita di Nehru, e il 19 dello stesso mese Pechino proclama un cessate il fuoco unilaterale e si ritira volontariamente dall’Arunashal Pradesh, pur continuando a mantenere l’Aksai Shin, vera e propria torre di guardia sopra della valle del Gange. Per l’India l’umiliazione è totale e la minaccia cinese diviene permanente.

La guerra del 1962: un evento fondamentale

L'ambasciatore USA John Kenneth Galbraith e Jawaharlal Nehru, 1962

L’ambasciatore USA John Kenneth Galbraith e Jawaharlal Nehru, 1962

La guerra sul tetto del mondo, che risale a poco più di cinquant’anni fa, durerà poco tempo e resterà fortunatamente limitata. I suoi ammaestramenti e le sue ricadute sono nondimeno considerevoli.
L’avvenimento dimostra:
- l’importanza che la Cina attribuisce al Tibet; Pechino interpreta la politica indiana come una rimessa in discussione delle sue frontiere, fatto che ricorda la “frammentazione” operata a suo tempo dagli Europei e dai Giapponesi;
- il duplice linguaggio dei dirigenti indiani. Questi ultimi mettono in primo piano la loro postura morale, ma essi vengono percepiti da Mao come nuovi imperialisti, che hanno brutalmente annesso la colonia portoghese di Goa nel 1961 e che, per di più, addestrano una “forza armata tibetana”, una vera e propria provocazione agli occhi dei Cinesi. Peggio ancora. All’indomani del conflitto, il Defence of India Act consente di internare “ogni persona di origine ostile”, cioè Indiani di origine cinese o sposati con una Cinese. Gli ultimi verranno liberati nel 1967 e restrizioni alla loro libertà rimarranno in vigore fino agli anni ’90;
- la flagrante carenza di preparazione dell’esercito indiano, che mette fine alle illusioni dell’era Nehru e che porterà nel 1964 alle sue dimissioni. Le spese militari, a lungo modeste, iniziano ad aumentare;
- l’importanza della minaccia proveniente da nord. I dirigenti cinesi vengono indotti a focalizzarsi sul problema, tanto più che i combattimenti nel Kashmir con i ribelli mussulmani, sostenuti dal Pakistan, si intensificano e sboccano in una guerra nel 1965. Per meglio fortificare le frontiere, nel 1975 viene annesso il Sikkim (su sua richiesta). Nuova Delhi riscoprirà l’importanza del suo fianco sud, l’oceano, negli anni ’80 e ’90, nel momento in cui la Cina inizierà a farvi irruzione;
- come il contemporaneo conflitto fra URSS e USA per la questione dei missili a Cuba impedisca ai due contendenti di intervenire nel conflitto sino-indiano, con pieno vantaggio di Pechino, che approfitta di tale opportunità. A parole entrambi i litiganti sostengono l’India, ma con il risultato di rinforzare il complesso da assedio di una Cina isolata da tutti i lati.
Per scongiurare la minaccia, la Cina si orienta verso il Pakistan (prima di trovare un’intesa con Washington). Nulla sembrava predisporre i due Paesi per questo avvicinamento, né il confronto ideologico, fra il comunismo ateo e l’islam, né i contenziosi ereditati alle frontiere dal periodo coloniale. Il Pakistan aveva persino proposto all’India di agire in comune per difendere le loro frontiere settentrionali. Ma sarà con Pechino che finirà per trovare un’intesa e il trattato del 1963 fisserà la frontiera definitiva fra i due Paesi. A questo punto, è l’India che si ritrova circondata da nemici su tutte le frontiere terrestri: a nord dalla Cina, a ovest dal Pakistan e a est dal Pakistan orientale (poi Bangladesh). A tutto questo, vanno aggiunte le insurrezioni fra le tribù del nord-est e, soprattutto, a partire dal 1967, la rivolta naxalita, nelle campagne dell’est del Paese, entrambe incoraggiate da Pechino; senza dimenticare, più tardi, la guerriglia maoista nel Nepal.
Il gioco degli USA diviene a questo punto particolarmente complesso. Su richiesta di Nehru, Washington ipotizza di fornire appoggio aereo a Nuova Delhi durante il conflitto, ma poi vi rinuncia. Il presidente americano Johnson ipotizzerà persino di trasferire delle tecnologie nucleari. Queste esitazioni fanno pensare ai voltafaccia successivi di Washington nel Medio Oriente dagli anni 2000. Posti di fronte a un mondo molto complesso e incapaci di essere gli amici di tutti, gli USA tergiversano; non vogliono rompere le relazioni con il Pakistan, un alleato strategico nel punto di cerniera dell’Asia occidentale e meridionale. A questo punto Nuova Delhi si rivolge a Mosca, che diviene il suo più solido alleato dopo la firma del trattato del 1971. Ancora oggi, queste relazioni sono indubbiamente le più fidate di tutte quelle che intrattiene Nuova Delhi. Mosca rimane il principale rifornitore di armi, nonostante gli sforzi di Washington.

Un riavvicinamento “ruvido”

Successivamente numerosi avvenimenti hanno influenzato le relazioni fra la Cina e l’India: il riavvicinamento fra Pechino e Washington, la caduta dell’URSS, i successi economici cinesi, i quali hanno contribuito a indebolire la posizione di Nuova Delhi. L’India ha reagito riformando a sua volta l’economia, cercando nuovi alleati – come Israele e USA – e sviluppando una notevole sforzo militare. Dieci anni dopo la Cina (1964), l’India si dota di un’arma nucleare (1974) e ottiene vittorie sul Pakistan nel 1965 e nel 1971. La minaccia dell’ovest viene relativizzata, tanto più che Pechino non interviene direttamente per aiutare il suo alleato e così la guerra del 1971 si conclude con la secessione del Pakistan orientale, diventato Bangladesh.
Le relazioni fra Nuova Delhi e Pechino migliorano a partire dagli anni ’70: la scomparsa di Mao Zedong e l’indebolimento del Partito del congresso di Indira Gandhi contribuiscono a una certa distensione così come, più tardi, anche la fine della guerra fredda, che svuota di ogni contenuto ideologico i rapporti fra i due Paesi e fa scomparire la minaccia sovietica incombente sulla Cina.
Nel 1976 le relazioni diplomatiche vengono ristabilite e nel 1988 Rajiv Gandhi si reca a Pechino. Un gruppo di lavoro comune viene messo in opera per pacificare i problemi di frontiera, le truppe vengono ridotte, consultazioni regolari vengono indette fra i comandanti sul terreno, preparando l’accordo sul “mantenimento della pace e della tranquillità lungo la LoAC (Line of Actual Control o Linea del controllo effettivo) nel 1993, confermato nel 2005 insieme a un partenariato strategico fra i due Paesi. È firmata una serie di documenti per sviluppare scambi commerciali e tecnologici, e tutto accade come se la questione delle frontiere fosse stata messa in “letargo” in nome dello sviluppo economico che, nel frattempo, ha conquistato una posizione di primo piano nella politica dei due Paesi. Nel 2006 il Colle di Nathu, la principale via di scambio terrestre fra Cina e India, viene riaperto: le visite reciproche tra dirigenti dei due Paesi si moltiplicano. L’India arriva persino a “riconoscere”, nel 2003, che “il Tibet è una parte del territorio delle Repubblica popolare di Cina”.
I motivi di inquietudine comunque non scompaiono. La Cina protesta contro i nuovi esperimenti nucleari indiani del 1998 e gli incidenti di frontiera rimangono un fatto normale, come durante la visita di Xi Jinping a Narendra Modi a Nuova Delhi, nel settembre 2014. D’altronde, Pechino non ha mai riconosciuto l’annessione del Sikkim da parte dell’India ed essa riafferma regolarmente i suoi diritti sull’Arunashal Pradesh. Non si sa se per provocazione o per un atto maldestro, la televisione cinese diffonde una carta dell’India priva di questi territori!
Quando l’India si mette a guardare verso sud, in direzione dell’Oceano che porta il suo nome, è per ritrovarvi la Cina che sta nel frattempo schierando la sua “Collana di Perle” (cioè caposaldi politici e strategici nell’Oceano Indiano) e che installa in Birmania un sistema di radar in grado di sorvegliare le isole Andamane e Nicobare, che appartengono all’India. Anche se le relazioni economiche non sono rassicuranti, il deficit commerciale dell’India non fa altro che aumentare e i due Paesi stanno diventando rivali per i rifornimenti in materie prime, proprio mentre l’India intende sviluppare la sua industria per competere con la Cina sui mercati stranieri.

Il vantaggio è di Pechino?

Le relazioni fra i due Paesi rimarranno caratterizzate da un profondo squilibrio? Sembrerebbe che per Pechino, come per l’URSS a suo tempo, valga il motto: “quello che mio è mio e quello che è tuo è negoziabile”. La Cina dà l’impressione di mettere pressione in tutti i campi, mentre Nuova Delhi sembra voler evitare lo scontro a qualsiasi prezzo.
Questa visione delle cose appare però semplicistica. L’India ha trovato una serie di scappatoie. Essa cerca di uscire dal “vicolo chiuso sud asiatico” e lancia una Look East Policy per sviluppare i suoi legami con l’Asia del Sud est. L’India conta, oggi come ieri, sulle buone relazioni con Mosca e soprattutto sul suo recente riavvicinamento con Washington. Nel 2008 il Congresso americano valida un accordo sul nucleare con l’India; firmato per 40 anni, mette fine all’embargo che risaliva al 1974 e consente la vendita di tecnologia e di combustibile nucleare a fini civili, mentre l’India, che non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, non autorizza le ispezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Nucleare sulla totalità dei suoi siti. La concessione fatta a Nuova Delhi, sotto questo aspetto, risulta eccezionale e dimostra le inquietudini che Pechino suscita negli USA.
L’India diventa una pedina importante nel nuovo containment che la Casa Bianca si sforza di mettere in opera al fine di bloccare la potenza cinese. Le esercitazioni militari con il Giappone o l’Australia, altri elementi importanti del dispositivo americano, si moltiplicano. Parallelamente l’India si avvicina a Israele che condivide la paura del terrorismo islamista e rinforza i suoi legami con l’Iran e l’Afghanistan, in una sorta di alleanza di accerchiamento del Pakistan.

Il quadrilatero asiatico

BRICS_leaders_in_BrazilTutto appare chiaro, l’India e la Cina sono rivali e l’India non risulta così sprovveduta. Cina e India hanno tuttavia delle ragioni per cooperare. Partecipano entrambe al gruppo del BRICS (acronimo per Brasile, Russia, India, Cina, Repubblica del Sud Africa). Pechino ha favorito l’entrata, nell’estate 2015, di Nuova Delhi come membro dell’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (OCS), così come Nuova Delhi aveva favorito l’ingresso della Cina come membro osservatore nell’ambito dell’Associazione dell’Asia del sud per la cooperazione regionale (SAARC). Le due capitali condividono punti di vista identici su argomenti come l’ambiente, la liberalizzazione degli scambi o la crisi finanziaria del 2008. In linea generale, entrambi denunciano un ordine mondiale organizzato dagli USA e si mostrano fortemente gelosi della loro sovranità, che potrebbe essere minacciata da un “neocolonialismo” organizzato dagli Occidentali, in nome dei loro valori e dei loro interessi.
Cooperando, India e Cina possono rinforzarsi mutualmente. Nell’aprile 2005 il primo ministro cinese Wen Jibao difendeva a Bangalore l’idea per un’intesa nel campo dell’alta tecnologia: «La cooperazione assomiglia a due pagode, una è l’hardware e l’altra è il software. Insieme noi possiamo diventare i leader del mondo». E concludeva: «il XXI secolo sarà il secolo asiatico dell’alta tecnologia». Annuncio forse di tempi nuovi. Di fatto, nell’aprile 2015, il fabbricante cinese di smartphone Xiaomi ha accolto nel suo capitale l’indiano Raran Tata.
Le relazioni India-Cina si inscrivono, in tal modo, in un quadrilatero a geometrie variabili, di cui gli altri due lati sono gli USA e la Russia. Queste quattro nazioni sono divise fra la necessità di sviluppare le loro relazioni economiche e la diffidenza che si ispirano mutualmente, portandole a riavvicinamenti fragili e mutevoli: India e Russia di fronte alla Cina; Cina e Russia, e forse India, di fronte agli USA; USA e India di fronte alla Cina… Più precisamente, la Cina deve rassicurare l’India per impedirle di gettarsi nelle braccia degli USA, mentre l’India deve evitare un confronto con la Cina che la renderebbe ostaggio di Washington. Senza, peraltro, che nessuno di questi Paesi sia ignaro dei secondi fini degli altri.
A conclusione di questa analisi, balza evidente agli occhi di tutti che anche questa volta l’Unione Europea risulta spettatore e grande assente da questo “nuovo Grande Gioco” dal quale dipende l’avvenire dell’Asia e del mondo. Se vogliamo, una buona notizia per la Cina e l’India, associate nella stessa soddisfazione: il ritiro dell’Europa dalla scena mondiale dopo due secoli di umiliazioni.

Per saperne di più

C. Jaffrelot, L’Inde contemporaine de 1950 à nos jours – Fayard, Paris, 1996
C. Jaffrelot, The Hindu Nationalist Movement and Indian politics, London, 1998
A. Lamb, The China-India Border: The Origins of the Disputed Boundaries – Oxford University Press, 1964
F. Rampini, L’ impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi di persone – Mondadori, 2006
D. Smith, Il dragone e l’elefante. La Cina, l’India e il nuovo ordine mondiale – Il Sole 24ore libri, 2007