LA PERSECUZIONE DEI SERBI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Renzo Paternoster -
La storia dei serbi è costellata di lotte contro l’oppressione e l’assimilazione. Una sfida che nel corso della storia ha portato ai patimenti della schiavitù imposta dall’Impero Ottomano, poi all’ostilità criminale degli Ùstascia, poi all’avversione di Tito e, per finire, alla controversa guerra scoppiata con la dissoluzione della Jugoslavia.
La storia della Serbia, e in particolare la storia del XX secolo, è scritta col sangue di un popolo maltrattato per motivi etnici, politici e religiosi. Un Paese da sempre crocevia degli interessi delle potenze mondiali e vittima dei regimi succedutesi nel tempo.
Tracce di primi insediamenti nell’attuale Serbia risalgono alla Preistoria. Nel X secolo l’Imperatore Costantino Porfirogenito nel De Administrando Imperio citava la “Servia” (si tratta di un artefatto dell’alfabeto cirillico, in cui la “b” in cirillico è tradotta in latino con “v”).
Organizzati in piccoli principati guidati da uno župan (giuppano), il popolo serbo subì tra il VII e il XII secolo il dominio dei grandi imperi vicini: prima i Bizantini, poi i bulgari di Simeone, poi di nuovo l’impero Bizantino. In questo periodo, tra tutte le entità territoriali serbe, due emersero politicamente: il principato di Zeta (o Zenta) e il principato di Raška, (traslitterato anche come Raschka o Rassa). Il primo è considerato antesignano del moderno Montenegro, il secondo è territorialmente e nazionalmente il nocciolo da cui, grazie al župan Stefano Nemanja (1117-1199), si svilupperà il regno di Serbia.
Tra l’871 e l’875 la Nazione serba si converte al Cristianesimo, anche grazie all’opera di rinnovamento spirituale dei missionari Cirillo e Metodio. Più tardi i sovrani serbi della famiglia Nemanja, cambiando politica verso l’esterno, convertono la nazione stabilmente all’Ortodossia con la creazione di una Chiesa autocefala.
Alla fine del 1400 le regioni serbe sono conquistate dagli ottomani. Da allora e fino alla formazione del Principato di Serbia (1830), il popolo serbo resta soggetto ai Turchi. Nonostante la severa dominazione ottomana, la società serba conserva la specifica individualità nazionale, assieme alla propria religione ortodossa. Nell’Età moderna, la Serbia è riconosciuta a livello internazionale dal Congresso di Berlino del 1878.
Dopo il primo conflitto mondiale, nel 1918 si forma il “Regno dei Serbi, Croati e Sloveni”, che comprende la Croazia, la Bosnia, l’Erzegovina, la Vojvodina, l’entroterra sloveno, la penisola dell’Istria, parte della Venezia Giulia e la Dalmazia. Si tratta di uno Stato molto debole, composto di elementi eterogenei e tante differenti realtà, prima fra tutte la religione. Questa unione politica “strana” nasce dai timori della Croazia e della Slovenia di perdere i propri territori in favore dell’Italia, vincitrice della guerra mondiale. La nuova entità politica è posta sotto la dinastia regnante serba del principe Alessandro Karađorđević. A seguito di dissidi politici interni tra croati e serbi, e dopo l’uccisione di Stjepan Radić, leader del Partito Contadino Croato, ferito mortalmente il 20 giugno 1928 da un deputato montenegrino, durante una seduta del Parlamento del Regno, il reggente Alessandro Karađorđević sospende la Costituzione e il Parlamento, mette al bando i partiti nazionali, dichiara decaduto il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e proclama la nascita del Regno di Jugoslavia. Alessandro suddivide il territorio a tavolino, creando dei distretti (banovine), senza dunque tener conto delle differenze nazionali. In questo modo pensa di superare le distinzioni tra i popoli che compongono il nuovo Regno. Questo scontenta i nazionalisti croati, che si organizzano in un movimento indipendentista, la “Organizzazione Rivoluzionaria Croata Ùstascia” (Ustaša – Hrvatska revolucionarna organizacija). Il termine “ùstascia” (in croato ustaša) proviene dal verbo ustati o ustajati che significa “insorgere, risvegliare”.
Mentre in Europa la Germania di Hitler inizia a disgregare militarmente il vecchio ordine politico, il Regno di Jugoslavia, attraverso il principe reggente Pavle (Paolo) Karađorđević, firma l’adesione al Patto Tripartito (25 marzo 1941). In verità, in un incontro segreto tra Hitler e il principe Paolo, tenutosi a Berchtesgaden il 4 marzo, il reggente jugoslavo aveva vincolato l’adesione al Patto Tripartito alla promessa del Führer di non invadere il Regno di Jugoslavia.
Quando arriva a Belgrado la notizia che il reggente ha firmato un’alleanza con Hitler e Mussolini, scoppia una rivolta e i militari serbi revocano l’adesione al Patto. Pochi giorni dopo, un colpo di stato da parte di vertici militari serbi, guidati dal cugino di Paolo, Pietro II, mettono fine alla reggenza del principe Karađorđević. Hitler prende come un affronto personale la rivolta contro il principe reggente Paolo. Non solo. Il colpo di stato fa saltare l’inizio dell’“Operazione Barbarossa”, il programma d’invasione nazista dell’URSS previsto originariamente per il 15 maggio 1941. La reazione tedesca si concretizza nell’operazione “Castigo”, consistente nell’invasione nazista dei Balcani. La conquista del regno di Jugoslavia comincia con un bombardamento a tappeto sulla città di Belgrado la mattina del 6 aprile 1941. In breve tempo – solamente undici giorni – l’esercito nazista conquista la Jugoslavia. Il Regno è del tutto smembrato: gli italiani prendono parte della Slovenia (provincia di Lubiana), della costa dalmata della Croazia e il Kosovo del Sud, i tedeschi occupano due terzi della Slovenia e larga parte della Serbia, compreso il Nord del Kossovo, l’Ungheria incorpora parte delle Vojvodina e della Slavonia, la Bulgaria si impadronisce della Macedonia. Ciò che resta diventa Stato Indipendente di Croazia (in croato Nezavisna Država Hrvatska). Proclamato il 10 aprile 1941, questa nuova entità politica comprende la Croazia, senza l’Istria e la Dalmazia, tutta la Bosnia-Erzegovina e una parte della Vojvodina (Sirmie). Il controllo del nuovo Stato croato è subappaltato in favore della “Organizzazione Rivoluzionaria Croata Ùstascia”, guidata da Ante Pavelić, ex deputato al Parlamento nazionale di Belgrado nel 1927, che assume il titolo di Poglavnik (condottiero, duce).
Per il popolo serbo inizia un pietoso calvario che si protrae per tutta la guerra.
Il regime italiano di occupazione è duro e crudele: molti partigiani e civili, specialmente quelli di origine serba, sono uccisi o internati in campi di concentramento. Ancora più dura è l’occupazione tedesca in Serbia, considerata dai nazisti abitata da un popolo di razza inferiore. Il governo collaborazionista albanese del Primo ministro Mustafà Kruja, invece, mette in pratica politiche atte a costringere i serbi a lasciare il Paese e a sterminare quelli che si rifiutavano di farlo. Nella regione della Vojvodina, che stata concessa da Hitler all’Ungheria, a occuparsi della persecuzione dei serbi (ma anche degli ebrei e degli zingari) sono soprattutto la minoranza tedesca locale (Volksdeutsche). La Croazia di Pavelić adotta brutali misure repressive sull’opposizione interna, con speciale “cura” per i serbi residenti nel Paese.
L’odio viscerale dei nazisti contro i serbi è palese sin dall’inizio dell’“Operazione Castigo”, come la chiamò furiosamente il Führer: ventiquattro ore di seguito di bombardamenti a tappeto da parte della Luftflotte 4 della Luftwaffe sulla città di Belgrado, con un bilancio drammatico di 17mila civili uccisi. Conquistata la Serbia, i nazisti si abbandonarono a spietati crimini contro i civili, con saccheggi, violenze sessuali, deportazioni ed esecuzioni sommarie.
Il Comando militare-amministrativo nazista in Serbia, guidato dall’ufficiale Harald Turner, che affiancava e controllava le autorità civili serbe collaborazioniste, da subito si preoccupa della “questione ebraica”, un problema collegato a quello partigiano serbo. All’inizio dell’invasione era già stato creato l’Einsatzgruppe der Sicherheitspolizei und des Sicherheitsdiensts für Serbien, unità operative militari addestrate per l’annientamento di ebrei, zingari e partigiani.
Proprio i partigiani, molto attivi fin dall’inizio dell’occupazione nazista, diventano un grosso problema per i nazisti. Per tagliare il sostegno dei civili serbi alla lotta partigiana, è creato dai nazisti un “Governo di salvezza nazionale serbo” (Vlada Nacionalnog Spasa Srbije), guidato dal generale serbo Milan Nedić, ex Ministro dell’Esercito e della Flotta nel Regno di Jugoslavia. Il governo è ovviamente sotto il comando militare tedesco. Nedić collabora con i nazisti, consentendo l’apertura di campi di concentramento, la creazione di una Gestapo serba e di una legione militare serba, la Serbisches SS-Freiwilligen Korps (Corpo di Volontari Serbi delle SS).
Nonostante questo, i serbi rispondono con una strenua resistenza, che scatena a sua volta feroci rappresaglie sulla popolazione civile. Nelle direttive del Capo di stato maggiore Wilhelm Keitel e del generale plenipotenziario per la Serbia Franz Böhme, si fissano precise quantità di persone arrestate da fucilare come rappresaglia: cento serbi per ogni tedesco ucciso e cinquanta per ogni ferito.
A ogni azione partigiana serba, dunque, corrisponde una smisurata reazione nazista. Una delle più sanguinose rappresaglie è portata a compimento nella città Kragujevac, nella Serbia centrale, tra il 20 e il 21 ottobre 1941. La ritorsione è decisa per gli attacchi partigiani nelle città di Čačak, Valjevo e Gornj Milanovac, che avevano causato la morte di dieci soldati tedeschi e il ferimento di altri ventisei: almeno cinquemila persone sono fucilate, ma nelle testimonianze a carico dei responsabili durante il processo di Norimberga si è parlato di almeno settemila e trecento vittime; altre diecimila sono arrestate.
La politica concentrazionaria adottata dai nazisti nell’Europa centrale, è ripresa anche nei territori balcanici occupati. In Serbia si aprono così numerosi campi di concentramento e di sterminio per ebrei, rom e serbi. Tra questi i campi di Niš, Šabac, Čačak, Smederevska Palanka, Stari Trg, Kruševac, Zasavica, Pančevo, Banjica, Sajmište.
Gli “ospiti” di questi campi, sono in maggior misura ebrei e rom, principalmente donne, bambini e anziani, visto che la maggior parte degli uomini è soppressa quasi subito. Se molti campi sono creati a modello di quelli polacchi, quindi con forni crematori, in alcuni si fa ricorso a metodi alternativi, come quello dei Gaswagen, traducibile dal tedesco come “camion del gas”, in pratica autocarri cassonati dove stipare da cinquanta a cento persone, in cui è fatto confluire il gas di scarico del motore che uccide le persone alloggiate al suo interno con l’azione del monossido di carbonio.
Alle persecuzioni naziste sul popolo serbo, si aggiungono gli scontri armati tra i partigiani comunisti serbi e forze nazionaliste serbe, che porta la regione sull’orlo della guerra civile, cosa che ovviamente fa comodo agli occupanti tedeschi.
La nuova Croazia di Ante Pavelić, imbevuta di fanatismo religioso (cattolico) e impregnata di un nazionalismo esasperato, si spande su oltre il 40% del territorio dell’ex Regno di Jugoslavia ed è abitata, oltre dai croati, anche da serbi, musulmani, zingari, ebrei e tedeschi, tutti considerati alieni al nuovo Stato. Tuttavia il nuovo regime concede alla comunità tedesca lo status privilegiato di minoranza, “soprassedendo” sulla presenza dei musulmani. Tutte le altre etnie devono essere in parte eliminate fisicamente (istrebljenje), in parte “convertite” al cattolicesimo, in parte espulse. Sfortunatamente i serbi erano troppi per essere convertiti o scacciati in tempo dalla Croazia, così iniziò la “santa macelleria” ùstascia, “santa” perché attuata anche in nome del Dio cattolico che, paradossalmente, è lo stesso Dio ortodosso.
Il 19 aprile del 1941 sono promulgate le prime leggi razziali, il 30 aprile è emanato un decreto mirante a difendere “la razza ariana e l’onore del popolo croato”, per creare un nuovo spazio vitale “pulito” in una Nazione genuinamente croata. Con questo decreto legge è stabilito che il diritto di cittadinanza nello Stato Indipendente di Croazia spetta solo a «colui che è di origine ariana [...]. Ebrei e serbi non sono cittadini dello Stato Indipendente Croato, ma appartenenti allo Stato [...]. Solo gli ariani godono dei diritti politici». In altri decreti razziali è stabilito che a serbi, ebrei e nomadi è proibita la circolazione sui marciapiedi e la frequentazione dei luoghi pubblici, dei negozi e dei ristoranti, mentre sui mezzi di trasporto sono affissi degli avvisi con scritto: «Vietato ai serbi, ebrei, zingari e cani». Un decreto stabilisce la “riconoscibilità” dei non ariani: così se agli ebrei tocca essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte (la stella di Davide), cucita sulla manica della giacca, i serbi sono obbligati a portare, infilata al braccio, una fascia identificativa di colore blu con la lettera P, come pravoslavni, cioè ortodossi.
Oltre la dignità, ai serbi è sottratta la loro identità: l’alfabeto cirillico è proibito, la denominazione “cristiani serbo-ortodossi” è sostituita con “fede greco-orientale”.
A parte il più bestiale massacro della popolazione compiuto spesso porta a porta, per molti serbi, come anche per ebrei e rom, si aprono le porte dei campi di concentramento.
Sono settantuno i campi di concentramento disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina. Tra i più grandi campi di concentramento ùstascia ci sono quelli di Dakovo, Gospic, Danica, Jastrebarsko, Loborgrad, Gornja Rijeka, Tenja, Sisak, Kerestinec, Kruščica, Lepoglava, Caprag, delle isole Arbe e Pago, di Jasenovac. Questi campi sono strutturati in più sottocampi.
Jasenovac è il terzo campo nazi-fascista di concentramento per dimensioni, dopo Auschwitz e Buchenwald, di tutta la Seconda Guerra mondiale. Si trattava di un complesso di cinque campi diversi, collegati fra loro, dove si consuma la maggior parte della storia dei serbi residenti in Croazia.
I lager ùstascia del complesso di Jasenovac si trovavano esattamente al centro dello Stato Indipendente di Croazia, vicino alle rive del fiume Sava, a un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria, nei pressi dell’attuale confine croato-bosniaco.
Per metodo delle esecuzioni e per il sadismo dei carcerieri, i crimini consumati nel sistema concentrazionario di Jasenovac oltrepassano ogni immaginazione umana. A parte la morte procurata da armi da fuoco, considerato un beneficio rispetto ad altri modi di essere giustiziati, a Jasenovac si muore con metodi davvero inumani: con coltelli, asce, seghe, martelli e spranghe, per annegamento, arsi vivi, per fame e per sete, per freddo e per esposizione alle infezioni. Particolare e gradito attrezzo di morte ùstascia è lo srbosjek, in serbo-croato vuol dire “tagliaserbo”: una specie di guanto di pelle con incorporata una lama ricurva, che permetteva di sgozzare con più facilità e sveltezza. Lo srbosjek diviene lo strumento di competizioni sadiche da parte degli ùstascia all’interno dei campi di concentramento: colui che riesce a uccidere il maggior numero di prigionieri nel minor tempo con questo coltello riceve un premio. A Jasenovac, durante una di queste macabre competizioni, Petar “Pero” Brzica, uno studente del Franciscan College of Široki Brijeg in Erzegovina e membro della confraternita dei crociati, ha raggiunto la quantità enorme di 1.360 prigionieri serbi uccisi.
A Jasenovac a dispensare la morte crudele sono anche dei frati francescani: Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato “Fra Diavolo”, e Vicko Rendic, entrambi diressero per un certo periodo il campo.
Altri uomini di Chiesa partecipano ai massacri contro i serbi in tutta la Croazia ùstascia. Il ricercatore Mario Aurelio Rivelli ne riporta centotrentotto [cfr. il suo, Ho un elenco di 138 preti e frati massacratori ùstascia, in «Adista», 5 luglio 2003]. Tra questi, i più famosi, oltre a Miroslav Filipovic-Majstorovic e Vicko Rendic, sono il prete Bozidar Bralo, consigliere della famigerata Crna Leggija (Legione Nera), che dopo i massacri dei serbi usa ballare la danza nazionale croata attorno ai cadaveri, oppure il gesuita Dragutin Kamber, capo della polizia di Doboj, in Bosnia, che pretende la sua partecipazione allo sterminio dei serbi ortodossi, oppure ancora i sacerdoti Ilija Tomas e Marko Hovko, che partecipano alla bestiale uccisione di 559 serbi, tra cui anche donne e bambini, a Prebilovici e a Surmanci in Herzegovina.
Particolare “premura” è rivolta verso i capi e gli ecclesiastici della Chiesa Ortodossa Serba, i primi a essere colpiti dalla furia ùstascia.
Il vescovo Platon Jovanović di Banja Luka (Bosnia) è ucciso assieme a suo figlio e al suo confratello padre Dusan Jovanović dopo atroci torture al villaggio di Vrbanja. Il metropolita Sarajevo, l’arcivescovo Petar Zimonić, è torturato e gettato in un pozzo assieme ad altri cinquantacinque preti ortodossi. L’Arcivescovo Dositeo di Zagabria è arrestato e torturato crudelmente, tanto da renderlo irriconoscibile dopo il suo trasferimento a Belgrado, dove muore per le ferite riportate. Il vescovo Sava Trlaic di Plaski, dopo essere stato torturato è condotto sul monte Velebit e gettato in un burrone assieme a numerosi altri serbi. Padre Branko Dobrosavljevic di Veljun è costretto a recitare le preghiere per i morti a suo figlio ancora vivo e poi ad assistere alla sua esecuzione, quindi è poi torturato e ucciso anche lui. Tutta la fraternità del monastero di Žitomislići, vicino Mostar, in Herzegovina, è trucidata e gettata in un pozzo. L’intero complesso sacro è poi demolito e bruciato. Moltissimi altri membri della Chiesa ortodossa serba sono torturati e poi trucidati.
Quasi tutte le chiese ortodosse sono distrutte, incendiate e convertite anche in stalle. Pure i cimiteri ortodossi non sono risparmiati dalla furia distruttiva ùstascia.
Finita la Seconda Guerra Mondiale, la Serbia è inglobata fino al 2006 nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Sotto Tito, la popolazione serba si ritrova ancora divisa fra le varie repubbliche della Confederazione jugoslavia. Pure in questa nuova realtà politica l’atteggiamento persecutorio verso la popolazione serba è durissimo: i serbi, secondo il maresciallo Tito, sono colpevoli di aver accettato con troppa benevolenza l’invasore tedesco e, soprattutto, sono troppo filo-sovietici. Per questo vanno isolati, “convertiti” e, se recidivi, uccisi.
La storia è avida di giustizia verso i serbi, perché la tragedia che si è consumata nei Balcani durante la Seconda Guerra Mondiale non ha ancora trovato il giusto spazio nella storiografia: se per alcune vittime c’è un eccesso di memoria, per altre c’è un eccesso di oblio, come se esistesse una graduatoria del male dell’uomo sull’uomo. Fatta eccezione per il grande monumento del lager principale di Jasenovac, un enorme “Fiore di Pietra” dello scultore Bogdan Bogdanović inaugurato nel 1966, per la scultura chiamata “Pioppo dell’Orrore”, posizionata all’interno del campo di concentramento ùstascia nel villaggio di Donja Gradina, e alcune piccole placche commemorative in qualche altro campo di concentramento, fuori i Balcani solo l’Holocaust Memorial Museum di Washington e l’Holocaust Memorial Park di New York ricordano la tragedia dei serbi durante la Seconda Guerra Mondiale. Eppure il numero totale delle vittime serbe dei nazisti e degli ùstascia è compreso tra 950.000 e 1,8 milioni.
Ogni progetto di sterminio in massa rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico, rientrando nella legalità giuridica e morale di quel regime. Ogni progetto di sterminio rappresenta una forma di barbarie. Per questo la storia non si costruisce sull’oblio parziale della memoria, perché ogni compimento del male continua a uccidere quando è ricoperto dal velo dell’oblio.
Per saperne di più
Ćirković S.M., I Serbi nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1992.
Ćirković S.M., I Serbi. La storia del popolo che nell’angolo più tormentato dell’Europa, ha sempre diviso i giudizi del mondo occidentale, ECIG, Genova 2007.
Cox J.K., The History of Serbia, Greenwood Press, 2002 (orig. 1964).
Morača P., “I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale“, in Collotti E. (a cura di), L’occupazione nazista in Europa, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Editori Riuniti, Roma 1964, pp. 517-552.
Pavlowitch S.K., Serbia. The History Behind the Name, Hurst & Company, London 2002.
Rivelli M.A., Ho un elenco di 138 preti e frati massacratori ùstascia, in «Adista», 5 luglio 2003.
Scotti G., Kragujevac: la città fucilata, Ferro, Milano 1967.
Serfes N., Serbian Martyrology. Commemoration of the new martyrs of the Serbian land, in The Orthodox Word, August 28, 1999, http://www.serfes.org/orthodox/serbianmartyrs.htm
Skoro G., Genocide over the Serbs in the Independent State of Croatia. Be Catholic or Die, Institute of Contemporary History, Beograd 2000.
Staffa G., I personaggi più malvagi della Chiesa. Dalla Santa Inquisizione all’Olocausto, la crudeltà si annida tra le pieghe millenarie del clero, Newton, Roma 2013.