In libreria: Risorgimento e Italia liberale

di Massimo Ragazzini -

rogariSandro Rogari, uno dei più autorevoli allievi di Giovanni Spadolini e di Luigi Lotti, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Firenze e presidente della Società toscana per la storia del Risorgimento, ha raccolto in questo volume alcuni dei suoi tanti studi, pubblicati in un trentennio, in tema di Risorgimento e di Unità d’Italia. Gli scritti, inquadrabili nel genere della storia politica, hanno come protagonista “il ceto politico liberale della nuova Italia” e la cultura di suoi esponenti dell’Emilia, della Romagna e della Toscana.
Il saggio di apertura, che prescinde da ogni riferimento territoriale, esamina l’origine, lo sviluppo e il consolidamento nei secoli dell’idea di nazione italiana e offre la necessaria cornice al tutto.
L’Autore sottolinea che la classe dirigente liberale di questi territori “non è di per sé rappresentativa dei liberali del resto d’Italia” e aggiunge che gli studi devono essere intesi come “articolazione locale di un più ampio panorama che a seconda dei casi lo avvalorano o lo contraddicono, ma dal quale comunque discendono”. Nel libro è quindi sempre presente l’attenzione al contesto generale nazionale ed europeo.
I saggi raccolti offrono lo spaccato di una parte rilevante del ceto politico, favorevole alla soluzione monarchico-unitaria del Risorgimento, che governò l’Italia nel primo periodo successivo all’Unità. Il compito di consolidare il nuovo Stato venne infatti assunto dalla Destra, il nome dato al gruppo dirigente liberale moderato, maggioritario in Parlamento, erede della tradizione di Cavour. La Destra, chiamata più tardi “storica” per sottolineare la centralità del suo ruolo nella creazione dell’Italia unita, governò ininterrottamente dal 1861 al 1876. Tra le figure più significative, accanto ai piemontesi Quintino Sella, Giovanni Lanza e Gustavo Ponza di San Martino, i lombardi Gabrio Casati, Emilio Visconti Venosta e Stefano Jacini, l’emiliano Marco Minghetti, il romagnolo Luigi Carlo Farini, i toscani Bettino Ricasoli, Ubaldino Peruzzi e Luigi Guglielmo Cambray-Digny, i meridionali Ruggero Bonghi, Silvio Spaventa e Antonio Scialoia.
Rogari scrive che si è trattato del “ceto politico che più di ogni altro è stato omogeneo per cultura e per estrazione sociale nella storia dell’Italia unita”.
Gli uomini della Destra avevano importanti elementi di affinità per estrazione sociale (proprietari terrieri, imprenditori industriali e finanziari, liberi professionisti, intellettuali) ed erano determinati ad affrontare con rigoroso senso del dovere i grandi problemi posti dall’unificazione. Essi, tuttavia, avevano diversità di formazione. Fra loro vi era Spaventa, neo-hegeliano; Sella, nutrito di scienza positiva; Ricasoli, riformatore religioso; Minghetti, intellettuale eclettico, sostenitore del regionalismo e del decentramento amministrativo.
Con la scomparsa di Cavour, morto il 6 giugno 1861 a soli cinquant’anni, questa élite di patrioti liberali perse la sua guida illuminata e non fu in grado di individuare un successore con capacità di direzione riconosciuta da tutti.
La Destra scontò anche le proprie scelte rigorose sul versante della pressione fiscale. Le guerre condotte dal Piemonte tra il 1859 e il 1860 e dal Regno d’Italia nel 1866 avevano pesantemente gravato sulle finanze pubbliche e causato un deficit pesantissimo del bilancio nazionale. Nell’intento di procurare all’Italia il credito e la stima delle altre nazioni, i governi vollero mettere in ordine le finanze con un programma di severa austerità, essendo questo l’indice più sicuro della solidità di uno stato. Al “pareggio” del bilancio fu provveduto anche con la confisca e la vendita di una parte delle proprietà ecclesiastiche.
L’Autore ricorda i principali nodi di quel periodo, che furono motivi di disagio e di difficoltà per la classe dirigente liberale: la questione romana, con il fallimento di ogni tentativo di conciliazione diplomatica con il pontefice, irrigidito nella condanna del liberalismo e nella difesa del potere temporale; la crisi crescente dei principi di libero scambio, che l’evoluzione dei mercati mondiali del frumento dopo la fine della guerra civile americana concorse a indebolire; la questione meridionale, cioè la difficoltà di governare le ex province napoletane e la distanza culturale del ceto politico da esse espresso.
All’interno della Destra si potevano distinguere due gruppi che si alternarono al potere: quello piemontese, e l’altro, tacciato negli anni Settanta di costituirsi in Consorteria, composto da toscani, emiliani e lombardi. Dopo il 20 settembre 1870 e il trasferimento della capitale a Roma, le divaricazioni interne al ceto politico si accentuarono.
I dissensi culminarono sulla questione del riscatto delle ferrovie, che nel 1865 erano state date quasi tutte in concessione a quattro società private. Il governo, e in particolar modo il ministro dei lavori pubblici Spaventa, avrebbe voluto riscattare le strade ferrate e, in considerazione della natura pubblica del servizio, assegnarne l’esercizio allo Stato; a questa soluzione era contrario il gruppo toscano di Peruzzi, Bastogi, Cambray-Digny, deciso a contrastare l’aumento delle ingerenze statali nell’economia. E fu proprio l’abbandono della maggioranza di Destra da parte dei moderati toscani e il loro allineamento alle posizioni della Sinistra, ostile all’esercizio statale, a provocare il 18 marzo 1876 la caduta dell’ultimo ministero della Destra, presieduto da Minghetti, e la formazione del primo ministero della Sinistra, diretto dal piemontese Agostino Depretis.
Nell’introduzione, Rogari mette le mani avanti e scrive che da questi studi è assente la sinistra democratica, il partito d’azione. L’esclusione non è da ricondurre a una sua inferiorità culturale, ma a una “sostanziale inferiorità politica”. I fallimenti dei tentativi di Garibaldi di conquistare Roma con la forza, nel 1862 sull’Aspromonte e nel 1867 a Villa Glori e Mentana, mentre i governi della Destra storica seguivano la strada delle iniziative diplomatiche, confermarono che “solo la diplomatizzazione della questione italiana, sia prima che dopo l’unità, condotta dai liberali sotto l’egida di casa Savoia, aveva reso possibile la costruzione dell’Italia unita” e che altre alternative, in quella fase storica, erano in pratica inconsistenti. “Nel bene e nel male” – afferma l’Autore – “quanto di positivo e di negativo fu fatto a pro di questa costruzione va ricondotto a questo ceto che qui è studiato”.
La prima parte del volume contiene scritti sulle relazioni tra Ricasoli e Farini nel biennio 1859-1860 e su Francesco Borgatti, ministro di Grazia e Giustizia nel governo Ricasoli II; prosegue con un saggio sul pensiero dell’agronomo Stanislao Solari e termina con uno studio sui conflitti fra mezzadri e braccianti nella Ravenna giolittiana, una vicenda rappresentativa della modernizzazione italiana che ebbe il suo motore politico nella revisione dei rapporti sociali promossa da Giolitti.
La seconda parte è dedicata alla Toscana e vede, fra i suoi protagonisti di primo piano, Bettino Ricasoli, deciso sostenitore di un’unificazione che tutelasse le identità locali e che divenisse “sintesi complessa e innovatrice e non assimilazione al modello piemontese”. Una sintesi difficile da raggiungere, la cui complessità fece sì che il barone di ferro, quando divenne presidente del Consiglio, si convertisse a un disegno unitario centralistico del quale varò i primi provvedimenti applicativi.
Uscito il granduca Leopoldo II da Firenze il 27 aprile 1859, si accese lo scontro fra i fautori dell’unità col Piemonte sabaudo e i partiti del regno autonomo. Rogari illustra le diverse posizioni nel saggio Storia politica della Toscana, Dall’Unificazione alla crisi di fine secolo.
Era radicato un partito legittimista che continuava ad avere seguito presso una parte consistente della nobiltà e del clero toscani. I sostenitori del partito della Restaurazione intendevano provocare disordini contro il governo Ricasoli quando il quadro internazionale si fosse dimostrato favorevole al ritorno delle armi austriache.
C’erano poi i mazziniani, i democratici, gli uomini del partito d’azione, in maggioranza unitari. Non mancavano tuttavia fra i democratici coloro che dissentivano dalla posizione a favore dell’unità e Ricasoli temeva che essi sarebbero potuti diventare pericolosi se avessero trovato un collegamento con i legittimisti, granducali o clericali che fossero. La creazione di un regno dell’Italia centrale affidato a Ferdinando IV, figlio di Leopoldo II, era stata infatti proposta da Eugenio Albèri e trovò il consenso di legittimisti filoaustriaci, filofrancesi e democratici antiunitari. Lo scontro fra i fautori dell’unità col Piemonte e i partiti del regno autonomo passava anche all’interno del governo, dove molti erano assai tiepidi, se non ostili, rispetto alla soluzione unitaria.
L’armistizio di Villafranca, con la previsione di un rientro dei legittimi sovrani in Toscana, nei ducati e nelle legazioni, giunse assolutamente inaspettato. Ma Ricasoli, con fermezza, rilanciò il processo unitario: costituì la Guardia nazionale, per dimostrare che il governo era deciso a fronteggiare le armi austriache qualora avessero tentato d’imporre il rientro del granduca con la forza; fece proclamare dalla Consulta la decadenza della dinastia dei Lorena; convocò le elezioni per i deputati dell’Assemblea toscana, che ribadì formalmente la decadenza della dinastia e votò all’unanimità l’unione al Piemonte. Il plebiscito del 12 marzo 1860 verificò il consenso della popolazione toscana all’unificazione.
In questa seconda parte del libro, l’Autore affronta anche altri importanti argomenti fra i quali: la vocazione di Firenze come capitale della cultura e della scienza dopo avere perduto il ruolo di capitale politica del Granducato; il pensiero e l’azione di grandi riformatori agrari quali Cosimo Ridolfi e Raffaello Lambruschini; la difesa strenua della mezzadria, modello contrattuale di antichissima tradizione in molte parti della Toscana, che Sonnino e i Georgofili consideravano come un baluardo della stabilità sociale e possibile strumento di riscatto del Mezzogiorno dai patti leonini che vi dominavano; gli anni di Firenze capitale del Regno d’Italia.
Il volume di Sandro Rogari, che in molte pagine ha il ritmo serrato della narrazione, è quindi un’opera di grande utilità per chi abbia interesse ad acquisire una meditata visione delle vicende politiche del Risorgimento e della concreta costruzione unitaria fino alla fine del XIX secolo. (dal numero 89 di “Libro Aperto”, rivista di cultura diretta da Antonio Patuelli).
Sandro Rogari, Risorgimento e Italia liberale. Figure e momenti fra Emilia, Romagna e Toscana – Mattioli 1885, 2016, pp. 274, € 24,00

 

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M. Roatta (a cura di Francesco Fochetti), Diario. 6 settembre-31 dicembre 1943 – Mursia, Milano 2017,  euro 21,00
Delle carte di Roatta si supponeva l’esistenza, ma le vicende giudiziarie post belliche che investirono il generale – accuse per le presunte attività illegali del SIM, Servizio Informazioni Militari, compreso il coinvolgimento nell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937, per la mancata difesa di Roma nei giorni dell’8 settembre 1943 e l’inchiesta sulla presunta condotta inumana al comando della II Armata in Croazia -   lo indussero a seppellire, moralmente e materialmente, l’archivio. Con la pubblicazione del primo volume  del diario e altre che seguiranno, questo prezioso archivio viene ora messo a disposizione degli studiosi e del pubblico, dopo un rigoroso processo di ricomposizione e trascrizione.
Nel diario del 1943, scritto nell’immediatezza degli avvenimenti, emergono con evidenza il caos dei comandi delle Forze Armate, le incertezze del Re pronto a smentire il governo sull’Armistizio, la mancanza di informazioni che i vertici militari e politici avevano su quello che stava avvenendo a Roma o nei Balcani dove si consumava, tra le altre, la tragedia di Cefalonia. E ancora: le trattative con Eisenhower  per il cosiddetto «Armistizio lungo», i complicati rapporti con i nuovi alleati, i dettagli privati e quotidiani del governo provvisorio a Brindisi. Roatta assiste alla caduta di un mondo dalle cui rovine verrà travolto: il governo jugoslavo lo accusa di crimini di guerra. Il maresciallo Tito vuole la sua testa, gli alleati premono e Badoglio la servirà loro su un piatto d’argento.

M. Mercuri, Incognita Libia. Cronache di un paese sospeso – Franco Angeli, Milano 2017, pp. 164, euro 19,00
Le rivolte del 2011 hanno decretato la fine del regime di Gheddafi, chiudendo un capitolo durato più di quarant’anni. Qualcuno, allora, si era illuso che il Paese potesse incamminarsi verso un sistema democratico. Non è stato così, e oggi stiamo pagando il conto dei nostri “calcoli errati”. Che ne sarà, dunque, della Libia? Ripercorrendo le fasi salienti della storia del Paese fino ai fatti più recenti, l’Autrice spiega incognite e contraddizioni di una realtà tanto vicina quanto difficile da comprendere.

M. Mondini, Il Capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna – il MUlino, Bologna 2017, pp. 392, euro 26,00
Luigi Cadorna diresse con poteri pressoché assoluti le operazioni militari italiane nella Grande Guerra. L’enorme consenso personale e la debolezza dei governi di Roma lo misero al riparo da ogni critica: nonostante l’insuccesso dei suoi piani, le enormi perdite di vite umane, il rischio di una sconfitta sul fronte trentino nel 1916, il generale rimase al suo posto fino alla disfatta di Caporetto, nell’autunno 1917. Quanto era stato incensato prima, tanto venne demonizzato poi. Il libro rilegge la carriera e l’operato di Cadorna collocandone la figura nel contesto della cultura militare europea e della storia italiana dell’epoca. Luigi Cadorna appare così come il rappresentante, non eccezionale, di una generazione di professionisti delle armi ossessionata dal passato inglorioso, dalle umilianti sconfitte e dai difetti di un paese che ritenevano debole e indisciplinato.

F. De Ninno, Fascisti sul mare. La Marina e gli ammiragli di Mussolini – Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 264, euro 22,00
Dopo la vittoria nella Grande Guerra, per vent’anni gli ammiragli della Regia Marina coltivarono il sogno di costruire una flotta abbastanza potente da dominare il Mediterraneo. Il fascismo diede loro l’illusione di poter realizzare questo progetto. Attraverso questa via, l’istituzione navale rischiò di sottomettersi alla logica totalitaria del regime.
Finora la Marina italiana ha sempre orgogliosamente rivendicato la propria natura ‘regia’, indipendente e autonoma rispetto al fascismo e alla sua politica. Il libro dimostra come gli ammiragli costruirono con Mussolini e con il regime una relazione strettissima che arrivò a determinare scelte decisive negli anni precedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale.Fascismo e Marina furono più vicini di quanto sinora si fosse pensato e fu attraverso il loro legame che si preparò il terreno per la sconfitta dell’Italia sul mare, quando l’Europa fu trascinata nuovamente nella spirale della guerra. Questa è la storia di come quel sogno nacque, di come si sviluppò nei venti anni della dittatura e di come fallì nei primi mesi della Seconda guerra mondiale.

N. Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta – il Mulino, Bologna 2017, pp. 240, euro 19,00
Il 24 ottobre 1917, cento anni fa, truppe austroungariche e tedesche travolgevano le malpreparate trincee italiane sul Carso fra Plezzo e Tolmino, attorno a Caporetto. L’attacco portò alla conquista austriaca di tutto il Friuli, minacciando addirittura la pianura padana. Il fronte italo-austriaco precipitò sino al Piave e il rischio per l’Italia liberale fu enorme. Il comandante supremo Luigi Cadorna gettò invece la responsabilità sulle truppe, accusandole di aver ceduto, e su quelli che considerava gli avversari interni della guerra: socialisti, cattolici, liberali neutralisti. Nacque la paura che Caporetto fosse stata uno sciopero militare, quasi una rivolta. Qualcuno si apprestava in Italia a «fare come in Russia»? Disfatta militare o campanello d’allarme politico? Il libro ricostruisce lo scontro militare e politico giocato attorno a Caporetto e rilegge le spiegazioni che ne sono state date, da allora sino ad oggi.

M. Vianello, Da Costantino a Stalin. Il “Complesso del Potere Assoluto” in Europa - Rubbettino, Soveria Mannelli 2017, pp. 138, euro 12,00
Lei, caro lettore e soprattutto cara lettrice, ama gli eretici, ne sono sicuro: sennò non avrebbe preso in mano questo libro. Infatti, con questo scritto io sono un eretico, se non altro perché esco dai binari che caratterizzano la mia attività di accademico (ammesso che accademico lo sia mai stato: secondo la maggioranza dei miei colleghi, non sono un uomo di scienza, quindi, non posso essere un “accademico”, semmai un avventuriero). Infatti, questo libro esula completamente, come può vedere dalle bandelle, da quello di cui mi sono occupato finora. Però, a parte che un eretico rispettabile dev’essere un avventuriero, c’è un filo conduttore che regge la trama della mia arrività. Sono passato dallo studio da uno dei più originali pensatori americani del secolo scorso, Thorstein Veblen, alle relazioni industriali e del lavoro e poi all’analisi delle organizzazioni complesse per finire per scoprire che al cuore del problema che catturava la mia attenzione, il potere, c’era la differenza di genere. Quando ho scritto un libretto per reagire sia alla retorica antiamericana che all’americanismo di maniera, riflettendo sulle origini di quella società dove la democrazia tiene duro, mi sono reso conto che bisognava risalire molto più indietro del viaggio che portò Max Weber a scoprire l’importanza delle sette per la democrazia: era necessario esplorarne la fonte. Così, di peregrinazione in peregrinazione, è nata la decisione di scrivere un libretto su quei sessant’anni del IV secolo i quali hanno partorito un apparato teologico-politico che ha letteralmente spaccato l’Occidente in due, segnando l’inconscio collettivo dei paesi che vi sono rimasti intrappolati dal Portogallo alla Russia nei quali le istituzioni liberal-democratiche, il progresso economico e scientifico, l’emancipazione femminile hanno vita difficile. Così il cerchio si chiude e l’eretico appare essere un esploratore dotato di bussola…

G. Airaldi, La congiura dei Fieschi. Un capodanno di sangue – Salerno Editrice, Roma 2017, pp. 140, euro 12,00
Scorre molto sangue la notte del 2 gennaio 1547 quando, nel totale fallimento della congiura dei Fieschi, la morte stronca la giovinezza di Giannettino Doria e quella di Gian Luigi, l’erede della nobile famiglia che l’ha promossa. Sarà inesorabile Andrea Doria, il vecchio guerriero d’antica stirpe genovese, che dal 1528 è il Capitano generale della flotta imperiale nel Mediterraneo e nell’Adriatico.
E inesorabili saranno l’Impero e la Repubblica verso chi si è reso colpevole del reato di tradimento contro il suo signore e contro la sua patria. Si inscrive nel nome dei Doria e dei Fieschi e si compie sul palcoscenico genovese l’atto che, incidendo profondamente nel cuore del grande scontro tra l’Impero spagnolo e la Corona francese, diventerà fin da subito un evento memorabile.

C. Frugoni, Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini – il Mulino, Bologna 2017
Come vivevano gli uomini, le donne e soprattutto i bambini nel Medioevo? Cominciamo dalla stanza da letto, vivacemente utilizzata anche di giorno, per pranzare, studiare, ricevere visite e, se si fosse stati re, per applicare la giustizia. Come era ammobiliata? E come ci si difendeva dall’assillo per eccellenza, il freddo? Perché i neonati venivano fasciati come piccole mummie e il rosso era così presente nel loro abbigliamento? Crescere era difficile per un bambino: mancanza di igiene, cibo inadatto, balie incuranti. E il demonio, sempre in agguato, che faceva ammalare, rapiva e uccideva. Imparare a leggere e scrivere, un divertimento nell’ambiente domestico, un incubo quando entrava in scena il maestro, sempre severissimo. Molti i giochi all’aperto, assai pochi i giocattoli veri e propri. Giocavano i bambini, meno le bambine. Se mandate in monastero non necessariamente avevano un destino infelice. Hanno copiato codici, scritto testi, miniato smaglianti capolavori. Se ci si allontanava dalla casa o dalla cella per un viaggio, che cosa poteva capitare? Quali avventure nelle strade brulicanti di pellegrini, penitenti, malfattori? A tutte queste domande e ad altre ancora risponde l’autrice, in un racconto reso vivacissimo anche da stupefacenti immagini.

G. Galasso, Storia della storiografia italiana. Un profilo – Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 224, euro 20,00
Dalle cronache alle più impegnative scritture storiche medievali, l’Italia si dimostra un laboratorio di innovazioni e riflessioni di grande spessore nel contesto europeo. La storiografia umanistica e storici come Machiavelli e Guicciardini non sorgono, quindi, come estemporanee novità, e neppure è casuale il magistero italiano nell’Europa del Rinascimento. Questo alto profilo viene in parte disperso nella ‘decadenza’ italiana, finché con Vico, Muratori, Giannone si riapre una nuova grande stagione. Dal Risorgimento alla Repubblica il corso della storiografia italiana si fa molteplice e differenziato, in collegamento crescente con i paralleli sviluppi europei. Nel ’900 la storiografia italiana è poi sempre più ricca di voci e di esperienze, che ne fanno un documento notevole della cultura contemporanea, pur mantenendo sempre una sua originale cifra di interessi e di metodi.