In libreria: Nazispie per lo Zio Sam

spieQuando nell’agosto del 1945 gli Americani portarono negli Stati Uniti Reinhard Gehlen non immaginavano di avviarsi a scrivere una delle pagine più oscure e durature della Guerra fredda. Pagine su cui Simone Barcelli ha eseguito una scrupolosa ricerca mettendo in fila tutto quanto la memorialistica, la storiografia e gli archivi hanno prodotto dopo la caduta del Muro di Berlino. Diciamo subito che Reinhard Gehlen era un generale della Wehrmacht, responsabile durante la Seconda guerra mondiale del Fremde Heere Ost (FHO), spezzone dell’intelligence tedesca sul fronte orientale. La sua conoscenza del mondo sovietico e la rete di contatti ancora attiva erano un boccone troppo ghiotto per Washington, che si stava preparando a un confronto serrato con Stalin. Fu così che Gehlen passò senza soluzione di continuità al servizio della CIA, lasciando invariato l’oggetto del suo lavoro: contenere e contrastare la minaccia comunista proveniente dall’Unione Sovietica e dai suoi stati satellite.
Forte di cospicui finanziamenti e della collaborazione dei migliori ufficiali del suo ex stato maggiore tornò quindi in Europa dove impiantò una rete spionistica clandestina. Va da sé che vi entrarono a far parte centinaia di nazisti, compresi molti criminali di guerra che avevano prestato servizio nel Sicherheitsdienst (SD), l’intelligence delle SS, e nella Gestapo. Il suo stato maggiore aveva sede a Pullach, una cittadina della Baviera, e tra i collaboratori, più o meno assidui, figurarono personaggi del calibro di Klaus Barbie, il boia di Lione, Karl Silberbauer, l’ufficiale che fece arrestare Anna Frank, Alois Brunner, il macellaio di Vienna, e Otto Skorzeny, il liberatore di Mussolini (che addestrò un giovane Yasser Arafat nell’Egitto di Nasser).
L’autore indaga anche le rivalità all’interno della rete, i dissapori con le agenzie spionistiche americane, ognuna delle quali pretendeva di gestire in esclusiva la struttura di Gehlen, e il ruolo svolto nel dar vita alle reti paramilitari stay-behind. Ma soprattutto la trasformazione, avvenuta nel 1956 dell’organizzazione di Gehlen in Bundesnachrichtendienst, cioè il servizio informazioni della Repubblica Federale Tedesca.
Fu tutta “gloria”? Sembra che l’immagine di efficienza e determinazione legata al mondo ex nazista sia stata in realtà poca cosa. Gran parte degli agenti si rivelarono inetti, infidi e, talvolta, doppiogiochisti. Certo è che il gran numero di ex nazisti nei servizi segreti alleati, e poi in quelli della Germania Occidentale, denuncia chiaramente il limite della denazificazione postbellica. Limite probabilmente dettato dalla volontà di impedire l’accesso in ruoli apicali a esponenti di “sinistra”. La stella di Gehlen tramontò sul finire degli anni Sessanta: si stava avviando una nuova weltanschauung, di cui l’Ostpolitik di Willy Brandt sarebbe di lì a poco l’esito più evidente.
Simone Barcelli, Le spie naziste degli Stati Uniti. I criminali di guerra tedeschi nell’Intelligence Usa – Idrovolante Edizioni, Alatri 2023, pp. 238, euro 17,00.

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Antonella Salomoni, Lenin a pezzi: distruggere e trasformare il passato – il Mulino, Bologna 2024, pp. 216, euro 22,00
Vladimir Lenin, fondatore dell’Urss, per volontà di Stalin è stato esposto alla venerazione dei cittadini nel mausoleo della Piazza Rossa, e ha vegliato sui popoli del blocco sovietico attraverso migliaia di occhi di pietra o bronzo di altrettanti monumenti. Ma cosa è accaduto dopo il 1989? Il corpo, perduta l’aura della reliquia, è rimasto in mostra a Mosca, davanti al Cremlino, e le statue sono state in gran parte cancellate. Una vicenda esemplare per comprendere la complessità dei fenomeni iconoclastici.
La pratica di tirare giù Lenin dal suo piedistallo ha riguardato tutto lo spazio post sovietico e, in Ucraina, ha assunto contorni talmente importanti da essere indicata con il termine Leninopad: il più grande movimento d’iconoclastia del Novecento, esploso prima ancora delle proteste che, più di recente, abbiamo visto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. A un secolo dalla morte di Lenin, Antonella Salomoni ne racconta ascesa e declino attraverso la storia del suo corpo e delle sue immagini: innalzate, rispettate e poi rimosse, distrutte, vandalizzate, reinterpretate come simbolo di sottrazione al colonialismo russo, e persino ricollocate sui piedistalli dagli occupanti durante la guerra in Ucraina. Un libro sulla memoria imposta e poi sovvertita, che va al cuore delle inquietudini del mondo contemporaneo.

Gianni Oliva, Quarantacinque milioni di antifascisti: il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il ventennio – Mondadori, Milano 2024, pp. 228, euro 21,00
«In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti»: la frase attribuita a Winston Churchill fotografa con la forza del sarcasmo la condizione di un paese che nel 1940 è entrato in guerra inneggiando all’aggressività fascista e tre anni dopo se ne è prontamente dimenticato.
Dopo la Conferenza di Pace di Parigi del 1946, tutte le responsabilità della disfatta vengono infatti attribuite esclusivamente a Mussolini, ai gerarchi e a Vittorio Emanuele III. Una volta eliminati i primi a Dongo e in piazzale Loreto ed esautorata la monarchia con il referendum del 2 giugno, l’Italia può riacquistare la sua presunta integrità politica e morale usando la Resistenza, opera di una minoranza, come alibi per assolversi dalle responsabilità del Ventennio.
Quando i perdenti salgono sul carro dei vincitori la memoria storica viene spazzata via e ha inizio una nuova stagione. Per eliminare una classe dirigente bisogna però averne un’altra a disposizione: come defascistizzare tutto e tutti se in quegli anni pressoché tutto e tutti erano stati fascisti?
La rottura con il passato si rivela così un brusco e disarmante riciclo senza pudore di uomini, di strutture e di apparati: come nel caso eclatante di Gaetano Azzariti che, da presidente del Tribunale della Razza, massimo organismo dell’aberrazione razziale, diventa vent’anni dopo presidente della Corte costituzionale, massimo organismo di garanzia della democrazia, senza che nessuno gli abbia chiesto di ritrattare, né il monarchico Badoglio, né il comunista Togliatti, né il democristiano Gronchi.

François Kersaudy, La lista di Kersten: la vera storia di Felix Kersten, il medico di Heinrich Himmler che salvò più di 100.000 vite – Rizzoli, Milano 2024, pp. 416, euro 22,00
Se tutti ricordano la storia di Oskar Schindler, l’imprenditore tedesco che salvò più di mille ebrei dall’Olocausto, in pochi invece conoscono quella altrettanto straordinaria di Felix Kersten. Rinomato fisioterapista specializzato in massaggio terapeutico, alla vigilia della Seconda guerra mondiale Kersten riceveva i grandi d’Europa nei suoi studi di Berlino e L’Aia: magnati della finanza, dell’industria, della politica e della diplomazia. E’ nel 1939 che la sua vita prende una svolta inattesa, quando gli viene chiesto di visitare Heinrich Himmler, il potente Reichsführer delle SS: il gerarca nazista, una volta scoperto il potere guaritore delle sue mani, l’unico in grado di calmare il debilitante dolore addominale che lo tormenta da anni, non potrà più fare a meno dei suoi servigi e ne farà il suo insostituibile medico personale. Da parte sua, Felix Kersten, sfruttando la fiducia e la gratitudine del fanatico carnefice, riuscirà a salvare dall’inferno nazista un numero esorbitante di prigionieri: cifre sottostimate parlano di più di centomila persone di diverse nazionalità, fra cui sessantamila ebrei. Franýois Kersaudy, storico specializzato nella Seconda guerra mondiale, ci narra un episodio poco noto della storia del XX secolo, ricostruendolo con perizia anche grazie alla sua conoscenza del tedesco, dell’inglese, dello svedese, del danese e dell’olandese, e attingendo a importanti fonti documentali, fra cui “le liste di Kersten” e il contenuto di archivi, memorie, diari, appunti e deposizioni dei principali protagonisti. Così, sullo sfondo de- gli eventi bellici che condurranno i nazisti verso un?inesorabile disfatta, ci racconta una vicenda umana complessa e sorprendente in cui si intrecciano terrore, codardia, generosità, fanatismo ed eroismo, capace di tenere il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.

Clotilde Bertoni, Nel nome di Dreyfus: la storia pubblica di un caso di coscienza – il Mulino, Bologna 2024, pp. 656, euro 34,00
L’affaire per eccellenza: una storia dai mille volti, scaturita dall’ingiusta condanna per alto tradimento del capitano ebreo Alfred Dreyfus, proseguita dal 1894 al 1906 e arrivata ad avvincere il mondo intero. Dramma dell’antisemitismo, ma ancor più dello spirito di casta dell’esercito e dell’insindacabilità del suo operato. Battaglia di politici, ma pure di intellettuali schierati in prima linea e destinati a uscirne con un nuovo senso di identità. Lotta tra due fronti, condotta a colpi di articoli, pamphlet, vertenze, duelli. Tragedia che sconvolge le vite e scuote le coscienze, e al tempo stesso vicenda mediatica, seguita come un feuilleton o uno spettacolo, fonte di spasso e di pettegolezzi. Caso spiazzante, che tra processi, polemiche giornalistiche e scontri parlamentari lacera la Francia, cattura la scena internazionale e segna la memoria collettiva per sempre.

Giovanni Brizzi, Imperium: il potere a Roma – Laterza, Roma-Bari 2024, pp. 336, euro 24,00
La vicenda di Roma, lungo tutto il suo percorso millenario, è accompagnata da un concetto particolarissimo e originale: quello espresso nel termine imperium. Questo vocabolo traduce il rapporto tra il potere nella sua accezione più alta e la sua responsabilità. Nel gestire questa gravosa incombenza il potere deve confrontarsi con una serie di doveri. Ab origine, la responsabilità verso il popolo romano è subordinata a una serie di valori addirittura anteriori alla nascita stessa dell’Urbe, come quello di fides, il rispetto delle regole. A questo concetto sono costretti a rapportarsi tutti i grandi di Roma. Camillo, cui viene attribuita una prima definizione del diritto naturale, che vieta ogni atto in contrasto con la natura dell’uomo; Scipione, il primo imperator, che proclama la superiorità di un singolo sulle strutture. Muove all’azione Silla, l’idealista in cerca di impossibili ritorni al passato; accende Cicerone nella sua teoresi; lo reclama per sé Cesare senza poter conservare né il potere né la vita; lo struttura mirabilmente Augusto, nel nuovo patto con gli dei (la pax Augusta) da cui nascerà la monarchia. L’intero corso della storia imperiale assiste poi a un costante dibattito, che impegna tanto gli stoici quanto la propaganda di corte, gli imperatori-soldati come il pensiero cristiano. Da quest’ultimo ambito uscirà, infine, la struttura tetragona e proiettata nei secoli a venire dell’impero cristiano.

Marcello Massenzio, Maestri erranti: il rinnovamento della cultura ebraica dopo la Shoah – Einaudi, Torino 2024, pp. 160, euro 19,00
Questo libro ha come sfondo la città di Parigi dopo la Liberazione, eletta al rango di «nuova Gerusalemme» in quanto centro d’irradiazione della cultura ebraica dopo la catastrofe della Shoah. Una cultura rinnovata nel segno di una rafforzata integrazione nel cuore della civiltà europea e di una partecipe attenzione al mondo contemporaneo. In questo contesto si staglia la figura misteriosa e affascinante di Mordechai Chouchani, un personaggio reale, circonfuso, al contempo, di un’aura mitica. Maestro venerato di Emmanuel Lévinas e di Elie Wiesel, Chouchani avvolse la sua esistenza nel più fitto dei misteri: i soli dati inconfutabili al suo riguardo sono la prodigiosa conoscenza delle Scritture e il suo indefesso peregrinare per il mondo al fine di porre il proprio sapere al servizio di chi avesse smarrito il senso dell’esistere. Wiesel, passato attraverso l’esperienza di Auschwitz, poté scorgere in lui la reincarnazione dell’Ebreo errante, divenuto maestro errante nel solco di un’antica, nobile tradizione. Come tale, egli si consacrò alla missione di riaccendere la fiducia nella Torah, nella vita e nel futuro negli animi devastati dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Marc Chagall ebbe il merito d’infondere nuova linfa vitale in tale archetipo, trasformato nel suo alter-ego e nel salvatore della cultura ebraica dalla furia distruttrice del nazismo in vista di una sua possibile resurrezione. Un filo sottile ma tenace lega il pittore di Vitebsk a Lévinas, nei testi del quale prende forma una penetrante «filosofia dell’erranza», ricca di stimoli preziosi ai fini di un inquadramento critico dei problemi del nostro presente.

Riccardo Rao, Il tempo dei lupi: storie e luoghi di un animale favoloso – UTET, Torino 2024, pp. 288, euro 16,00
I lupi stanno tornando. Negli ultimi anni la loro popolazione in tutta Europa è aumentata in modo esponenziale. In Italia è più che decuplicata superando i duemila esemplari. Sempre più spesso vengono avvistati intorno ai centri abitati, nei pascoli, al limitare del bosco. Insieme alle tracce riemergono paure antiche, mai placate del tutto. Nemico da perseguitare, incarnazione del male, pericolo per il bestiame: man mano che avanzava l’urbanizzazione e le foreste lasciavano spazio ai campi, i lupi sono stati cacciati, dagli eserciti o dagli stessi contadini, spesso dietro compenso delle istituzioni pubbliche. Si conta che solo in Francia nel 1797 furono uccisi oltre cinquemila lupi. Massacri simili furono perpetrati in Germania, Inghilterra, Italia… Una strage alimentata da un timore ancestrale che dal Medioevo giunge fino al presente. Dalla donna delle Asturie capace di comandare branchi di lupi nel Seicento, al ragazzo tedesco allevato dai lupi nel Trecento, fino alla celebre storia della bambina con il cappuccetto rosso che attorno all’anno Mille viene ghermita da un lupo e condotta nel cuore della foresta, Riccardo Rao ci guida attraverso documenti storici e leggende fino ai giorni nostri, ai macabri ritrovamenti di lupi impiccati nei boschi italiani.
In un percorso fra storia, letteratura, psicologia e biologia, Rao ricostruisce come la superstizione popolare, la cultura dotta degli uomini di chiesa, ma anche le grandi trasformazioni dell’ambiente abbiano creato il mito del lupo europeo. Un mito mai così attuale.

Tommaso Munari, L’Italia dei libri: l’editoria in dieci storie – Einaudi, Torino 2024, pp. 276, euro 18,50
La storia dell’editoria è la storia dell’emancipazione di un mestiere da un altro. O meglio da altri due: quello del tipografo e quello del libraio. L’editore non è chi stampa un libro né chi lo vende, scriveva Niccolò Tommaseo, ma chi lo fa stampare per farne commercio. Ne discende che l’editoria non ha una data di nascita. È un’attività che si struttura in modo graduale, definendosi in corso d’opera. La sua affermazione si configura allora come un lento processo che, almeno nel caso italiano, inizia nella prima metà dell’Ottocento, si compie sul finire di quel secolo e perdura nella forma di un’interdipendenza fra i tre mestieri per tutto il Novecento. Questo volume delinea tale parabola, ponendo in rilievo la relazione che intercorre fra libri e società, industria editoriale e storia nazionale. Ripercorrendo le vicende di alcune case editrici – fra cui Zanichelli, Treves, Bemporad, Hoepli, Laterza, Mondadori, Einaudi, Feltrinelli, Adelphi, Sellerio – e concentrando l’attenzione su alcune questioni trasversali alla loro attività, traccia un quadro non solo dell’editoria italiana, ma anche dell’Italia dei libri dall’età liberale a quella repubblicana.