In libreria: Metternich, il conservatore del presente

a cura di Alessandro Frigerio -

Metternich-grandeTradizionalista con lo sguardo rivolto al presente più che al passato, il principe di Metternich è rimasto alle memorie della Storia come il grande artefice del congresso di Vienna – il suo più grande e duraturo successo diplomatico – e ai ricordi degli studenti italiani per quella sua formula che definiva il nostro Paese una semplice “espressione geografica”. Non stupisce quindi che l’immagine oleografica tramandata dai testi scolastici sia sempre quella di un accanito avversario del nostro Risorgimento e di un fiero paladino della conservazione in un’Europa che provava a ricostruire se stessa nella prima metà dell’Ottocento, dopo le grandi avventure della Rivoluzione e dell’Impero napoleonico. In realtà, come spiega Luigi Mascilli Migliorini in questo bel volume, la sua vita è decisamente meno schematica di quanto la tradizione riporti. Nato in uno dei luoghi più sereni nel cuore dell’Europa – la valle del Reno –, egli conservò per tutta la sua esistenza l’esperienza di quel mondo in precario ma pacifico equilibrio. La perdita dei beni di famiglia lo obbligò a trasferirsi a Vienna dove cominciò una carriera di diplomatico che sarà sempre segnata da quella rottura. Giunto ai vertici della politica asburgica nel 1809, Metternich dedicherà tutti i suoi sforzi alla costruzione e alla conservazione di un equilibrio tra le grandi potenze che tenesse lontana l’Europa dalle devastazioni provocate dalla Rivoluzione francese con il suo prolungarsi nelle guerre napoleoniche. Il suo capolavoro sarà il Congresso di Vienna, dove applicherà quello sguardo disincantato sulle umane contingenze che è frutto, ancora una volta, della sue origini renane, calate in piena cultura germanica e in prossimità di quella francese, portatrici sane di valori non esclusivi né dogmatici. Il faticoso raggiungimento di un punto di intesa tra vincitori e vinti – cioè di una pace di equilibrio tra tutte le potenze e non di sopraffazione dei vincitori sui vinti – consentirà di assicurare all’Europa un lungo periodo di pace.
Certo, Metternich sarà un campione del principio di legittimità e della supremazia dell’Austria in Germania e in Italia. Perché è l’Austria, con il suo sistema sovranazionale, l’erede di quel Sacro romano impero la cui progressiva scomparsa, più della Rivoluzione francese, costituisce per il principe il vero dramma. Ne consegue che Vienna deve giocare su più tavoli – Quadruplice alleanza e Santa alleanza – per conservarne lo spirito universalistico. Da qui la riaffermazione di principi antirivoluzionari e la mancata disponibilità rispetto al vento delle riforme, con l’intervento austriaco in Italia in occasione dei moti del 1830-31. Quando nel 1848 il turbine rivoluzionario torna a soffiare sul continente e giunge per le strade di Vienna, Metternich alla Hofburg «parla come sempre, a lungo, spiegando le ragioni di sempre: la necessità di resistere ai cambiamenti soprattutto se li si vuole imporre dal basso, l’orrore per le rivoluzioni che non risolvono i problemi per le quali si scatenano, ma aprono il vaso di Pandora di nuove, più temibili questioni». Tutto inutile, la sua Vienna e la sua Europa non sono più quelle del congresso di trentacinque anni prima. Fuggirà a Londra. Farà ritorno nella capitale austriaca nel 1851 in sordina. Morirà nel 1859, pochi giorni dopo aver ricevuto la notizia della sconfitta di Magenta.
Luigi Mascilli Migliorini, Metternich, l’artefice dell’Europa nata dal Congresso di Vienna – Salerno Editrice, 2014, pp. 430, euro 25,00

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M. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-18 – il Mulino, Bologna, 2014, pp. 472, euro 28,00
«La maggior parte di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo. Come ciò sia stato possibile, è uno dei quesiti a cui ho tentato di dare una risposta. Perché, dopo anni di combattimenti e morte e dopo una vittoria così duramente pagata, le emozioni dominanti in Italia siano state non l’orgoglio bensì la disillusione e il senso di fallimento, è un altro».
Gli italiani in guerra in un racconto nuovo e avvincente. Nel panorama delle opere che guardano all’esperienza dell’Italia nel primo conflitto mondiale questo libro sceglie infatti di adottare come prospettiva la storia culturale, sulla scia dei più aggiornati contributi internazionali. Facendo ricorso a un ventaglio amplissimo di fonti, dai giornali alle memorie, dalle fotografie alle cartoline illustrate, l’autore mette a fuoco tre aspetti essenziali: l’attesa della guerra e la mobilitazione totale nei mesi e anni precedenti il 1915; l’esperienza del fronte così come è stata raccontata dai combattenti in memorie e diari e come è stata interpretata e reinventata da giornali, riviste, film; infine il peso della guerra sul dopo, dal culto dei caduti ai monumenti, alla costruzione del mito.

G. Lenher e F. Bigazzi, Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano – Mondadori, Milano, 2014, pp. 19,00, euro 19,00
Nel 1919 il Partito socialista italiano era la principale forza del Paese, votata da un terzo degli elettori. Nel giro di soli due anni questo straordinario patrimonio politico andò disperso a causa dei contrasti tra la componente riformista e quella massimalista, culminati nella scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del Partito comunista d’Italia. Una divisione drammatica, che trascinò verso il baratro tutte le forze democratiche, favorendo l’ascesa del fascismo. Per spiegare le origini di quell’”errore irrecuperabile”, Giancarlo Lehner, avvalendosi anche della documentazione inedita raccolta la Francesco Bigazzi, prende le mosse dagli storici eventi che sconvolsero la Russia nel 1917, quando, sotto la guida di Lenin, si impose l’estremismo dei bolscevichi, pronti ad annientare senza pietà dapprima la resistenza del potere zarista, poi tutte le voci non allineate. Una linea ulteriormente rafforzata da Stalin, con cui giunse a pieno compimento l’instaurazione di un regime autoritario e repressivo, che, attraverso la Terza Internazionale, estese i suoi tentacoli su tutti i partiti “fratelli” degli altri Paesi. Lontana dall’essere uno strumento di dibattito e confronto paritario, l’Internazionale Comunista, attiva dal 1919, si caratterizzò infatti come semplice cinghia di trasmissione delle decisioni prese a Mosca. E fu proprio il Komintern a dare impulso alla scissione di Livorno che dilaniò il Psi…

V. Ferrone, Storia dei diritti dell’uomo. L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio politico dei moderni – Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 554, euro 45,00
Furono gli illuministi per primi a ridefinire un’etica dei diritti cosmopolita, razionale, mite, umanitaria, fatta dall’uomo per l’uomo, capace di dar vita a un potente linguaggio politico dei moderni contro il secolare Antico regime dei privilegi, delle gerarchie, della disuguaglianza e dei diritti del sangue. Furono gli illuministi a far conoscere al mondo intero che i diritti dell’uomo per definirsi tali devono essere eguali per tutti, senza alcun tipo di distinzione di nascita, ceto, nazionalità, religione, genere, colore della pelle; universali, cioè validi ovunque; inalienabili e imprescrittibili di fronte a ogni forma di istituzione politica o religiosa. Ed è proprio ponendo l’accento sul principio di inalienabilità che la cultura illuministica – vero laboratorio della modernità – trasformò radicalmente gli sparsi e di fatto inoffensivi riferimenti ai diritti soggettivi nello stato di natura in un linguaggio politico capace di avviare l’emancipazione dell’uomo.
Spaziando dall’Italia di Filangieri e Beccaria alla Francia di Voltaire, Rousseau e Diderot, dalla Scozia di Hume, Ferguson e Smith alla Germania di Lessing, Goethe e Schiller, sino alle colonie americane di Franklin e Jefferson, Vincenzo Ferrone affronta un tema di storiografia civile che si inserisce nel grande dibattito odierno sul nesso problematico tra diritti umani e autonomia dei mercati, tra politica e giustizia, diritti dell’individuo e diritti delle comunità, dispotismo degli Stati e delle religioni e libertà di coscienza.

Alessandro Cattunar, Il confine delle memorie. Storie di vita e narrazioni pubbliche tra Italia e Jugoslavia (1922-1955) – Mondadori, Milano, 2014, pp. 388, euro 29,00
Chi liberò Gorizia e Trieste dal nazi-fascismo? I partigiani di Tito furono dei liberatori o un nuovo esercito di occupazione? Quali furono le conseguenze della nascita del nuovo confine tra Italia e Jugoslavia? Si tratta di domande a cui la storiografia sembra aver dato risposte ormai definitive. Ma se prestiamo orecchio ai racconti dei testimoni sentiamo una pluralità di narrazioni irriducibili ad un’unica versione dei fatti. Voci e sguardi che mettono in luce la dimensione soggettiva della storia del primo Novecento, attraverso la narrazione della quotidianità: dall’ascesa del fascismo alla guerra, dalle foibe alle manifestazioni per l’appartenenza nazionale. Il volume, facendo interagire fonti storiche, testimonianze orali e articoli tratti dalla stampa, descrive i complessi percorsi di rielaborazione della memoria, le dinamiche identitarie e i percorsi emotivi focalizzandosi sul territorio goriziano, che nel 1947 si trovò letteralmente attraversato da quel confine che rappresenterà il tratto finale della “cortina di ferro” e diventerà, poi, “l’ultimo muro” a cadere in mezzo all’Europa.

P. Calamandrei, Il fascismo come regime della menzogna – Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 108, euro 16,00
«Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d’occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c’è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata.»
I capitoli inediti di un’opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all’indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un’analisi a caldo del regime.

B. Lidegaard, Il popolo che disse no – Garzanti, Milano, 2014, pp. 341, euro 28,00
Danimarca, 1943. L’esercito nazista occupa il paese da oltre due anni, e la potenza politica e militare di Hitler sembra inarrestabile. Ma quando cominciano a trapelare notizie di un imminente rastrellamento dell’intera comunità ebraica, tutto il popolo danese sceglie di ribellarsi. Il re, i ministri e il parlamento si stringono attorno ai propri concittadini, e mentre il governo utilizza le sue risorse diplomatiche per ostacolare i piani tedeschi, un allarme viene inviato alle famiglie in pericolo. Per quattordici giorni gli ebrei danesi sono assistiti, nascosti e protetti da persone comuni che spontaneamente aiutano i propri compatrioti diventati improvvisamente dei rifugiati. Su 7000 ebrei, 6500 riescono a salvarsi dai campi di concentramento raggiungendo la Svezia con ogni tipo di imbarcazione. Bo Lidegaard narra la storia di un esodo straordinario e descrive le due settimane, dal 26 settembre al 9 ottobre 1943, in cui un intero popolo ha compiuto la più normale e allo stesso tempo eroica delle azioni: salvare i propri fratelli. “Il popolo che disse no” è il racconto di una vicenda ricca di umanità e di coraggio, di gloria e forza morale che brilla luminosa in uno dei periodi più cupi della storia: gli anonimi cittadini danesi si affiancano così, grazie a questo libro, a Oskar Schindler e Giorgio Perlasca nella ideale Galleria dei Giusti della Shoà.

M. Franzinelli, Bombardate Roma! Guareschi contro De Gasperi: uno scandalo della storia repubblicana – Mondadori, Milano, 2014, pp. 240, euro 19,00
Sessant’anni fa il settimanale “Candido” di Giovannino Guareschi pubblicava due lettere datate gennaio 1944 e firmate da Alcide De Gasperi, in cui si esortavano gli angloamericani a bombardare Roma, affinché il popolo insorgesse insieme ai “nostri gruppi Patrioti”. La polemica che ne scaturì, condotta sulle colonne di quotidiani e settimanali dell’epoca, si rivelò furibonda. C’era una sola domanda a cui nessuno sembrava rispondere in maniera convincente: De Gasperi le aveva davvero scritte, quelle lettere? A decidere, nell’aprile del 1954, fu il tribunale di Milano. La sentenza, pur rinunciando alla perizia grafologica, sancì la falsità delle missive e Guareschi fu condannato a un anno di reclusione. Il noto scrittore e vignettista rinunciò a ricorrere in appello e varcò le porte del carcere: sopporterà con fierezza la pena, ma ne uscirà indelebilmente segnato. La vicenda scosse in maniera profonda anche De Gasperi, costretto a difendersi di fronte all’opinione pubblica da un’accusa così infamante. Grazie alla scrupolosa analisi di una vasta documentazione inedita (conservata negli archivi di Alcide De Gasperi, di Giovannino Guareschi e di Giorgio Pisano), “Bombardate Roma!” delinea i contorni di una vicenda ancora avvolta nel mistero. L’indagine di Mimmo Franzinelli dimostra infatti l’esistenza di un “livello segreto”, un piano messo a punto da un gruppo neofascista che ideò e fece costruire gli apocrifi. Conclude il libro un saggio della grafologa giudiziaria Nicole Ciccolo.

R. Umberto, Diocleziano – Salerno Editrice, 2014, pp. 392, euro 24,00
Oppresso dai suoi mali interni e minacciato dalle aggressioni dei barbari, alla metà del terzo secolo il mondo romano era un organismo invecchiato e sull’orlo del collasso.
Diocleziano salì dal nulla ai vertici della carriera, si impadronì dell’impero con la violenza, governò con feroce determinazione per più di venti anni, dal 284 al 305. Ma i fasti del potere non cambiarono la sua natura: rimase sempre un soldato. Diocleziano non fu un rivoluzionario, come Augusto o Costantino. Seguendo il suo istinto di soldato, pensava che la rifondazione dell’impero dovesse procedere nel rispetto supremo della tradizione, della religione dei padri.
Alla fine trionfò su tutti i suoi nemici: usurpatori, barbari, Persiani. Al culmine della gloria, al momento di godere di una pace finalmente riconquistata, Diocleziano abdicò. Fu una scelta inaudita, inaspettata, unica nella storia dell’impero romano.
Perché abdicò? Malattia, stanchezza, delusione? O, piuttosto, volontà di applicare un progetto politico teorizzato negli anni? La scelta di Diocleziano è un enigma che continua ad affascinare gli storici. Sicuramente contò il desiderio di congedarsi dai duri impegni della sua missione. Diocleziano si ritirò lontano, in un grande palazzo che s’era fatto costruire vicino Salona, in riva all’Adriatico. Erano i luoghi dei suoi primi anni, delle sue memorie più care; i luoghi che aveva scelto per il suo ultimo riposo.