In libreria: Mediterraneo schiavista

Cover«… ritenute le Donne più belle, divisi i putti in bottino, li abili alla Galera, et i vecchi, femine e bambinj reimbarcò nuovamente. Al seguir questa crudele inaspettata separazione, l’orrore del fatto scosse tutto quel popolo, e doppo un rauco mormorio d’impetuoso sfogo improvviso prorupper con funesti sospiri in un dirotto pianto singulto, strugendo il Padre lasciar schiavo il Figliolo, la Madre, Fratelli, così la Moglie separar dal Marito».
Fra il Rinascimento e l’età napoleonica, in Europa e nei paesi mediterranei la schiavitù ha riguardato sei-sette milioni di persone: neri africani, turchi, arabi, italiani, spagnoli, portoghesi, francesi, ma anche greci, ebrei, slavi, magiari, e persino ucraini, moscoviti, tedeschi, inglesi, olandesi, scandinavi. Attingendo a una ricchissima documentazione, questo libro narra la loro storia, dagli scontri e dalle catture per mare e per terra alla presenza di schiavi e schiave nella vita domestica e in quella pubblica, in Europa come sull’altra sponda del Mediterraneo: costretti al remo o ad altre fatiche sulle navi, sfruttati in cantieri e miniere, ma anche impegnati in proprio come barbieri, sarti, gestori di botteghe; oppure, in un rapporto che non escludeva l’affetto, servitori, governanti, concubine. Una storia in larga parte dimenticata che Salvatore Bono, professore emerito dell’Università di Perugia, dove ha insegnato storia del Mediterraneo, riporta con efficacia in vita sotto gli occhi del lettore.
Salvatore Bono, Schiavi. Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) – il Mulino, Bologna 2016, pp. 488, euro 28,00

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D.  Marchesini, Eroi dello sport. Storie di atleti, vittorie e sconfitte – il Mulino, Bologna 2016, pp. 264, euro 16,00
Perché tutti ricordano il nome del fornaio Dorando Pietri, clamoroso sconfitto della maratona olimpica del 1908, e nessuno invece sa più il nome del vincitore? Gli eroi dello sport entrano nella vita quotidiana della gente, nutrono l’immaginario collettivo e vivono nel mito. Occorre però che ci sia un pubblico adorante e qualcuno che ne canti nel tempo le gesta. È quanto ci raccontano le mille imprese memorabili dello sport di oggi e di ieri. Storie di successi e di fallimenti, di grandi fatiche, di cadute, di riscatti, di primati e di passioni, in cui risuonano i nomi di Owens e Bikila, Coppi e Pantani, Senna e Nuvolari, Muhammad Ali, e di tanti altri ancora (… a proposito, lo sconosciuto vincitore della maratona del 1908 si chiama Johnny Hayes!).

A. Campi, La politica come passione e come scienza. Saggi su Raymond Aron – Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 200, euro 14,00
Sono trascorsi più di trent’anni dalla scomparsa di Raymond Aron (1905-1983), uno dei più grandi intellettuali europei della seconda metà del Novecento, ma la sua produzione scientifica – specie quella che ha avuto per oggetto le relazioni internazionali e la fenomenologia dei conflitti armati – riveste ancora oggi un grande interesse. Ma lo stesso può dirsi per i suoi lavori più “militanti” dedicati all’analisi critica delle ideologie contemporanee: dal marxismo al conservatorismo. E proprio a questi aspetti del pensiero aroniano sono dedicati i saggi di Alessandro Campi presentati in questo volume. Che richiamano l’attenzione, come si evince dal titolo stesso della raccolta, anche su un altro aspetto della personalità di Aron: la sua continua e virtuosa oscillazione tra ricerca accademica e giornalismo. Per lui l’universo della politica, nelle sue molteplici espressioni e varianti, è stato al tempo stesso un tema di studio scientifico, da condurre in modo freddo e oggettivo, e una passione civile, il che lo ha portato a intervenire pubblicamente (spesso in modo polemico) nei grandi dibattiti che hanno scandito la storia politico-culturale della Francia e dell’Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Professore universitario e pensatore “partecipante”: due dimensioni che Aron – fedele al suo credo liberale e alla sua visione realista del mondo e della politica – è riuscito a coniugare grazie alla sua indipendenza dal potere, allo spirito di osservazione che l’ha sempre contraddistinto e all’assoluta libertà di giudizio che ha dimostrato durante tutta la sua vita. Un modo di intendere il lavoro intellettuale che, in un’epoca segnata dallo specialismo accademico e dalla crescente divaricazione tra politica e cultura, rappresenta probabilmente la sua eredità maggiore e più impegnativa.

A. Marzo Magno, Il leone di Lissa. Viaggio in Dalmazia – il Saggiatore, Milano 2016, pp. 220, euro 18,00
Due guerre mondiali, il fascismo, il comunismo, la dissoluzione della Jugoslavia: nel XX secolo gli eventi politici hanno reso l’Adriatico un mare sempre più largo, e l’incomprensione tra le due sponde sempre più profonda. Sebbene invasa dal turismo di massa, la costa della Dalmazia è oggi una terra estranea al nostro immaginario, semisconosciuta come lo era ai tempi dell’abate illuminista Alberto Fortis, che nel 1774 raccolse le memorie dei suoi molti viaggi nei «domini da mar» della Serenissima, a quei tempi dimenticati e abbandonati a se stessi. Ne nacque Viaggio in Dalmazia, che fece conoscere la terra, la lingua e le popolazioni dalmate in Italia e in tutta Europa.
Più di duecento anni dopo, Alessandro Marzo Magno ripercorre lo stesso itinerario attraverso le molte isole che punteggiano la costa, scoprendo un mondo sospeso tra un passato multietnico che non esiste più e le tracce di un nazionalismo che brucia ancora, dove la modernità si mescola a tradizioni che paiono immutate dai tempi dell’abate Fortis. A Morter l’autore incontra le donne che lavorano i fusti delle ginestre per fabbricare scarpe; a Lissa va sul luogo in cui sorgeva il leone di pietra in ricordo dei caduti asburgici nell’omonima battaglia; a Zara scopre le vestigia miracolosamente intatte dell’antica città, tante volte distrutta da assalti e bombardamenti, e altrettante volte ricostruita. A Spalato parla con un discendente di Niccolò Tommaseo; a Curzola ritrova le tracce dell’ufficiale britannico che ha ispirato a Ian Fleming la figura di James Bond, e ad Arbe quelle del vescovo che scoprì l’origine dell’arcobaleno.
Paesaggi ancora incontaminati, luoghi toccati dalla storia, incontri con gli abitanti e i loro ricordi: Il leone di Lissa ricostruisce l’anima di una regione che forse, dopo la lettura, tornerà a sembrarci vicina.

S. A. Conca Messina, Profitti del potere. Stato ed economia nell’Europa moderna – Laterza, Bari-Roma 2016, pp. 236, euro 22,00
Tra il 1500 e il 1800 l’Europa fu interessata da una profonda trasformazione economica: la popolazione crebbe di circa due volte e mezzo, la struttura occupazionale si modificò, gli scambi aumentarono in maniera costante avviando un processo di crescente integrazione tra i mercati a livello globale. L’espansione economica pose le basi per la rivoluzione industriale e per la supremazia economica europea fino al Novecento. Ma quali furono i fattori determinanti di tale trasformazione? Che ruolo ebbe lo Stato? L’intervento dello Stato nell’economia, le guerre e la finanza pubblica rappresentarono elementi chiave alla base del diverso grado di prosperità economica.
Un’analisi che contribuisce a fornire una spiegazione più compiuta della ‘grande divergenza’ di sviluppo tra Oriente e Occidente.

S. Campailla, Wanted. Benjamin Mendoza y Amor. Il pittore che attentò alla vita di Papa Paolo VI – Marsilio, Venezia 2016, pp. 360, euro 20,00
Nel novembre del ’70 il mondo rimase con il fiato sospeso: nelle Filippine del dittatore Marcos, all’aeroporto di Manila, uno sconosciuto travestito da prete attentava alla vita di Papa Paolo vi. Ne seguì un arresto, un processo, una detenzione di quattro anni in un famigerato penitenziario. Quindi la rimozione del caso. Il protagonista di quell’atto era un pittore boliviano, Benjamín Mendoza y Amor, un indio di etnia aymara. Da un ritrovamento di carte e disegni dopo trent’anni a Roma nasce il nuovo libro di Sergio Campailla, che racconta una storia straordinaria: la parabola di un artista estremo, viaggiatore di cento paesi, che rappresenta nelle sue opere la condizione dei poveri e degli emarginati, sino a che nell’attentato contro il Papa, il primo nella storia moderna, raggiunge la scena mondiale come un tornado. Figlio di una prostituta, ossessionato dal sesso, specialista in droghe e compromesso con i servizi segreti, disegna gli indigeni sulle cime delle Ande e le tribù in estinzione della foresta amazzonica, e finisce per giocare una partita ambigua che non può non perdere in un processo-farsa, dopo il quale misteriosamente scompare.

A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini – Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 348, euro 22,00
Roma. Non solo una città, ma nucleo generatore di miti, luogo che fin dall’antichità ha offerto metafore e modelli alle lotte politiche, ai conflitti religiosi, alle scelte culturali.
Dal Medioevo a oggi, Andrea Giardina e André Vauchez raccontano la presenza del mito di Roma all’origine delle idee politiche che ancora animano l’attualità. La concezione universalistica dell’impero medievale e del papato, la difesa delle libertà cittadine e dei valori dell’autogoverno, l’immagine trionfante della Rivoluzione francese e la vocazione scenografica del fascismo sono le principali tributarie del mito di Roma, così come lo sono stati tutti quei movimenti che, dalla Riforma protestante ai nazionalismi ottocenteschi e al nazismo, si sono riconosciuti in un’identità ‘antiromana’.
Fra riabilitazioni e cadute, fra entusiastiche adesioni e drastici rifiuti, il mito di Roma continua a vivere un destino alterno, nelle cui pieghe corre la strada maestra della nostra storia.

P. Anderson, Dall’antichità al feudalesimo. Alle origini dell’Europa – il Saggiatore, Milano 2016, pp. 480, euro 26,00
«Una rivoluzione il cui ricordo si conserverà per sempre, ed è ancora sentito da tutte le nazioni della Terra.» Così scriveva Gibbon della caduta di Roma e della fine del mondo antico. Giudizio solenne, e imperativo categorico per lo storico: non sottrarsi al compito maiuscolo di analizzare come movimento complessivo il percorso della compagine umana dalla classicità all’oggi. Perry Anderson risponde con Dall’antichità al feudalesimo, che proprio dalle vicende della Grecia classica ed ellenistica e da quelle della Roma repubblicana e imperiale prende le mosse per esaminare la silenziosa rivoluzione del Medioevo e raccontare la travagliata nascita dell’Europa.
Anderson concentra l’analisi di questo snodo cruciale sulla svolta nei modi di produzione. Se lo splendore e l’ottimismo della polis ellenica prima e del mondo romano poi si reggevano grazie al modo di produzione schiavistico, la crisi catastrofica e la conseguente disgregazione dell’impero coincisero con l’avvento in Europa del primitivo modo di produzione degli invasori germanici, nomadico e post-tribale, che si compenetrò e ricompose con l’elemento romano e diede origine al modo di produzione feudale. Fu questo il momento in cui il «sistema Europa» acquistò la sua piena singolarità.
In questo classico della ricerca storica, ora ripubblicato dal Saggiatore, antichità e Medioevo cessano di essere i secoli bui degli studi ispirati al materialismo storico e vengono restituiti come passo fondamentale per la storia della società e del potere, ovvero dell’intera civiltà europea.