In libreria: La marcia dei senza ritorno

GiansoldatiLa notte del 24 aprile 1915 ebbe inizio il “Grande Male”, il Metz Yeghern. Sono passati cento anni dal genocidio armeno. Cento anni di silenzi colpevoli, di verità non ancora condivise. L’anniversario rappresenta un’occasione per riflettere su una vicenda controversa: la Storia oggi interpella i governi per il riconoscimento del genocidio di un milione e mezzo di Armeni. Un genocidio che, come spiega Franca Giansoldati, esperta vaticanista del quotidiano Il Messaggero,  fu perpetrato nonostante la Santa Sede avesse più volte lanciato moniti ai governi occidentali, Francia e Germania soprattutto, sul pericoloso precipitare della situazione nelle provincie anatoliche dell’impero ottomano. Alla violenza fisica nei confronti degli Armeni si combinava infatti la violenza spirituale, con la scelta tra la morte o la conversione forzata all’islam. E le rassicurazioni lanciate pochi giorni prima dell’inizio delle deportazioni dal ministro degli interni – gli Armeni potevano stare tranquilli, spiegò, perché non ci sarebbero più stati pogrom come negli ultimi anni del XIX secolo − fu letta da occhi attenti come l’ennesimo bluff delle autorità di Istanbul. E così fu. Un’ondata di violenza colpì sia la ricca e influente minoranza armena cittadina, fatta di mercanti, banchieri e scrittori, sia le popolazioni contadine in Anatolia sudorientale. Intellettuali ed esponenti delle professioni liberali furono arrestati, sottoposti a processi sommari e immediatamente fucilati o impiccati. Su di loro pesava il sospetto che fossero al servizio della Russia zarista – dove esisteva una minoranza di circa un milione e mezzo di Armeni – e di ordire trame per staccare brandelli di territorio dal corpo del “grande malato d’oriente”. Ma non solo. La loro presenza era in contrasto con le nuove correnti nazionaliste che predicavano la conquista di una purezza razziale-religiosa “panturca” a danno delle numerose minoranze del Paese.
Giansoldati ripercorre le origini dell’odio, le tappe che condussero a una “soluzione finale” minuziosamente certificata da documenti controfirmati dai ministri e dalle autorità ottomane, la tragedia delle uccisioni sommarie degli uomini e delle colonne della morte cui furono costrette donne, vecchi e bambini, e il dramma umanitario vissuto dalla città di Aleppo. Raccoglie poi le terribili testimonianze dei sopravvissuti e la voce dei pochi (su tutti, papa Benedetto XV) che chiesero inutilmente un intervento più incisivo rispetto alle vuote dichiarazioni di circostanza. Un interessante capitolo finale è dedicato alla difficile battaglia contro il negazionismo, praticato ancora oggi dal governo di Ankara grazie a un articolo del codice penale che punisce con ampio margine di discrezionalità le offese all’identità turca.
Franca Giansoldati, La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno – Salerno Editrice, Roma, 2015, pp. 128, euro 12,00

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S. Colarizi, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, la speranza, l’incertezza – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 496, euro 25,00
La storia del Novecento in Europa parte da est, dai grandi imperi multietnici dove le idee di nazione rompono gli equilibri secolari, innescano le scintille di due devastanti conflitti e portano alla distruzione di tutte le potenze europee, un tempo padrone del mondo. Vista così, l’Europa del Novecento è un continente incendiato e distrutto, ricostruito e nuovamente disseminato di rovine, povertà, ingiustizie, massacri, odi e orrori. Eppure cento anni di divisioni non hanno spento la civiltà europea, né interrotto il percorso per l’affermazione dei valori democratici, né soffocato la speranza di un futuro di giustizia e di benessere per tutti. La storia di questo secolo in Europa è anche il racconto del coraggio di donne e uomini che negli ideali di libertà e nei diritti hanno creduto. È la storia del riscatto dalla povertà e dall’oppressione di milioni di europei che acquistano coscienza di sé, istruzione, piena cittadinanza e pari diritti. È anche il racconto di una civiltà che cambia sulla scia di due rivoluzioni industriali e di una terza tecnologica e informatica: le prime segnano la scomparsa del mondo contadino, mentre l’ultima, dalla fine degli anni Settanta, marca l’avvento di una nuova era post moderna, l’era della comunicazione e della conoscenza.

S. Romano, In lode della guerra fredda. Una controstoria – Longanesi, Mialno 2015, pp. 140, euro 16,00
A dispetto del nome, la Guerra fredda fu un lungo periodo di pace e stabilità per l’Europa. Pur se costellati da momenti di grande tensione, i decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale furono caratterizzati dalla fermezza con cui le due superpotenze, Unione Sovietica e Stati Uniti, seppero frenare le forze che al loro interno premevano per lo scontro, ben consapevoli che lo scoppio di una guerra nucleare avrebbe avuto conseguenze disastrose per tutti. Con la caduta del muro di Berlino e la disintegrazione dell’Urss, i confini dell’ex Impero sovietico divennero nuovamente contesi, rinacquero antichi nazionalismi, scoppiarono numerose guerre: in Cecenia, nel Caucaso e nella ex Jugoslavia. Gli Stati Uniti, dal canto loro, pensarono di avere vinto la Guerra fredda, ma oggi emergono chiari i limiti della superpotenza americana e le conseguenze del suo avventurismo: rivoluzioni sfuggite di mano, guerriglie fomentate dal fanatismo religioso, contrasti sempre più accesi con la Russia. Ma la fine della Guerra fredda, e i conflitti del dopoguerra, hanno avuto come effetto soprattutto il sorgere dei «non Stati» – Isis, Ghaza, Kurdistan iracheno, Bosnia, Kosovo, Siria, Libia – con le grandi incognite che ne derivano: come si combatte contro un «non Stato»? Come lo si governa? E come si può ricostruire l’ordine perduto?

N. Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza in Italia – Einaudi, Torino 2015, pp. 168, euro 12,00
Il 25 aprile del 1945 l’Italia è libera. Un lungo istante in cui si mescolano gioie private ed euforia collettiva. La fine di una guerra durissima e di una dittatura feroce che aveva devastato il paese. Si tratta però anche di un nuovo inizio, quello di una nazione per la prima volta davvero democratica, le cui radici sarebbero dovute affondare nella straordinaria esperienza della Resistenza e invece sembrano immediatamente allontanarsene. Norberto Bobbio se ne rende conto prima di chiunque altro e, evitando qualunque retorica imbalsamante, pone subito l’accento, nei suoi interventi, sul valore della Resistenza come momento imperfetto, che può e deve cercare la sua compiutezza nella democrazia e attraverso la Costituzione. In questo volume, una raccolta di scritti dal 1945 al 1995, in larga parte inediti, ritroviamo tutta l’acutezza e la lucidità del costante riflettere di Bobbio intorno alla memoria critica di uno dei momenti fondanti della nostra democrazia. La testimonianza del suo impegno in difesa della Resistenza come ideale vivo, che non si realizza mai interamente ma continua ad alimentare speranze, ansie ed energie di rinnovamento.

G. Polo, Il mese più lungo. Dal sequestro Sgrena all’omicidio Calipari – Marsilio, Venezia 2015, pp. 192, euro 18,00
4 febbraio 2005. Giuliana Sgrena si trova a Baghdad. È il settimo viaggio iracheno per la giornalista del «manifesto» che racconta la guerra sul campo. In Italia, il dirigente del Sismi Nicola Calipari è in partenza per le ferie con la famiglia. Ma dovrà presto fare ritorno a Roma. Quella che sembrava una giornata come tante, infatti, si trasforma nell’inizio di un incubo. Alle 12.30 arriva in redazione al «manifesto» la notizia del rapimento di Giuliana Sgrena. In poco tempo le stanze di via Tomacelli si riempiono di compagni di lavoro, amici, militanti e dirigenti politici che portano solidarietà, e di giornalisti italiani e stranieri alla ricerca di notizie. Sarà così ogni giorno, per un mese intero. Oltre ai parenti e al compagno, la famiglia di Giuliana è quel quotidiano, una comunità giornalistica e politica, un soggetto pubblico: peculiarità, questa, che rende unico il caso, lo trasforma in un evento e lo politicizza, complicandolo. «Il manifesto» viene coinvolto in una vicenda piena di segreti, costretto a nasconderli, persino a collaborare con chi li custodisce. Tanto che si avverte la sensazione – scrive Gabriele Polo – di «violentare il proprio mestiere di giornalista, scegliere cosa dire e cosa tacere». In questo libro l’ex direttore del quotidiano comunista rivela particolari inediti e racconta quei giorni nell’Italia di allora, immersa nel bipolarismo tra berlusconiani e antiberlusconiani: l’imbarazzo della politica, stretta tra i doveri dell’alleanza con gli Stati Uniti e un’opinione pubblica che ha subito la guerra senza condividerla; le manifestazioni che risvegliano il movimento pacifista italiano; le lotte interne all’intelligence che mettono a rischio la missione di Calipari; le trattative; le riunioni di Palazzo; la notte tragica con la gioia della liberazione che diviene sgomento per la morte del dirigente del Sismi; le reazioni sulla stampa; i processi, l’assoluzione finale e lo sconforto di fronte a un sistema che si limita a sancire l’ineluttabilità degli eventi, celebrando «l’eroe Nicola Calipari». Ripercorrere quella vicenda oggi vuol dire non solo far riemergere tutte le contraddizioni del caso, ma dare un volto al Paese che siamo stati e che siamo.

M. Flores, Traditori. Una storia politica e culturale – il Mulino, Bologna 2015, pp. 568, euro 29,00
In ogni epoca il tradimento è stato considerato il crimine peggiore. Questo libro ricostruisce la storia del tradimento «moderno», quello che s’impone attorno alla metà del Settecento e si diffonde con le rivoluzioni americana e francese, quando si perfeziona una concezione del tradimento politico come rottura del patto che unisce tutti i cittadini alla propria patria. Ma chi è davvero un traditore quando si combatte per l’indipendenza del proprio paese o quando si vuole rovesciare un governo e cambiare radicalmente lo stato? Dalla rivoluzione americana alla Grande Guerra, un’affollata galleria di casi, tratti sia dalla storia europea sia da quella di Stati Uniti, Giappone, Argentina, Messico, sia dalla storia della colonizzazione in Cina, Sudafrica, India.

M. Consonni, L’eclisse dell’antifascismo. Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989 – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 332, euro 24,00
L’eclisse dell’antifascismo racconta l’intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l’Italia democratica. Un paradigma quello antifascista – e il suo uso politico – non privo di conseguenze anche nell’oggi.
Pilastro della narrazione de L’eclisse dell’antifascismo è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.

P. Di Stefano, Ogni altra vita. Storia di italiani non illustri – il Saggiatore, Milano 2015, pp. 264, euro 19,00
C’è chi vende uova dopo la guerra e chi usa la stoffa dei paracadute per cucire gonne. Chi fugge dall’Italia per fare fortuna all’estero e chi se ne va per scampare a un padrino violento. Ci sono donne che si buttano con l’elastico dai ponti e ragazzi che cadono da una finestra per non rialzarsi più. Partigiani e sarte, minatori e cameriere, maestri di scuola. Madri, padri, figli, figlie. E poi c’è uno scrittore, Paolo Di Stefano, che legge i diari o ascolta le parole di questi italiani non illustri – forse assurti agli onori o ai disonori della cronaca per lo spazio breve di un’indignazione, ma poi subito dimenticati – e restituisce loro la voce che avevano smarrito, o di cui erano stati privati. Dalla Sicilia arcaica e petrosa delle guerre mondiali alla Milano grigia ma bella di oggi, Di Stefano racconta di innamoramenti e matrimoni, di bombe che cadono dal cielo e di battaglie che si combattono in famiglia; di litigi, incomprensioni, rotture; di piccole rivincite e grandi rivoluzioni del costume. Il ventennio fascista, gli anni sessanta e settanta delle proteste studentesche, e poi i decenni a noi più vicini, quelli in cui la Storia si fa storia, cronaca o memoria commossa di chi c’era e ricorda chi invece non c’è più. Con la grazia lieve e limpida che da sempre caratterizza la sua scrittura, Di Stefano scova in ogni minuta vicenda personale quel frammento di universalità che a ogni pagina ci fa riconoscere nei suoi protagonisti – e in lui stesso, perché è la sua voce ad armonizzare le altre, creando un epos dell’Italia contemporanea che illumina il genius loci inconfondibile di questo nostro paese, a cui non si smette mai di tornare.