In libreria: Il Gulag nel salotto buono

governoLa Casa del governo è diverso da qualsiasi altro libro sulla Rivoluzione russa e l’esperimento sovietico. Nella tradizione di Guerra e pace di Tolstoj, Vita e destino di Grossman e Arcipelago Gulag di Solženicyn, la scrittura magnetica di Slezkine racconta le vicende degli abitanti di un enorme edificio di Mosca, dove vissero gli ufficiali del Partito comunista e le loro famiglie prima di essere epurati dalle purghe di Stalin. Una narrazione folgorante delle vite pubbliche e private di donne e uomini che hanno creduto nel bolscevismo, che comincia con la loro conversione al comunismo e finisce con la perdita della fede da parte dei loro figli, mentre sullo sfondo crolla l’Unione Sovietica.
Completata nel 1932, la Casa del governo, oggi conosciuta come la Casa sul lungofiume, era non lontano dal Cremlino, lungo la Moscova. Cinquecentocinque appartamenti ammobiliati erano collegati da spazi comuni che contenevano tutto, dal cinema alla biblioteca, dal campo da tennis al poligono di tiro. Slezkine racconta la storia spaventosa degli abitanti della Casa, di come vivessero tranquillamente negli appartamenti e governassero lo stato sovietico, fino al giorno in cui quasi ottocento persone furono sfrattate e condotte, una a una, in prigione o alla morte.
A partire da lettere, diari, interviste e centinaia di fotografie rare, La Casa del governo intreccia biografia, critica letteraria, storia dell’architettura insieme a nuove affascinanti teorie della rivoluzione, a profezie millenaristiche e all’affresco di un regno del terrore. Il risultato è l’indimenticabile saga umana di un edificio che, come la stessa Unione Sovietica, è divenuto una dimora maledetta, un luogo tormentato per sempre dai fantasmi di chi è scomparso.
Yuri Slezkine, La Casa del governo: una storia russa di utopia e terrore – Feltrinelli, Milano 2018, pp. 1216, euro 39,00

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Pierluigi Battista, Il senso di colpa del dottor Zivago – La nave di Teseo, Milano 2018, pp. 94, euro 8,00
Quando il 16 agosto del 1960 la polizia sovietica bussa alla porta di Olga Ivinskaja, la donna conosce già il motivo di quella visita sgradita. Da quindici anni è infatti l’amante, l’amica, la confidente dello scrittore Boris Pasternak, diventato un nemico della patria all’indomani della pubblicazione clandestina del Dottor Živago. Olga è entrata a tal punto nel cuore di Boris da ispirare la protagonista femminile del romanzo, l’immortale Lara. Nel 1960 Pasternak è ormai morto da qualche mese, sono passati tre anni dalla prima edizione del romanzo e due anni dal Premio Nobel che è stato costretto a non ritirare, così Olga finisce in Siberia dopo un processo sommario. È solo l’ultimo capitolo, postumo, della vita sentimentale di uno scrittore irregolare, segnata da amori folli e abbandoni repentini: dalla seconda moglie Zinaida, rubata a un amico, alla poetessa Marina Cvetaeva, fino all’incontro folgorante con la sua nuova musa, Olga. Intorno, scorre la vita ambigua di Pasternak verso un regime che contesta in privato ma che non esita ad appoggiare pubblicamente, tradendo gli ideali dei compagni intellettuali come Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, che conoscevano gli orrori della Lubjanka.

Eva Cantarella, Ippopotami e sirene: i viaggi di Omero e di Erodoto – UTET, Torino 2018, pp. 144, euro 14,00
L’Odissea di Omero e le Storie di Erodoto: due tra le più antiche opere di viaggio della letteratura occidentale, entrambe espressione del mondo greco, eppure straordinariamente diverse l’una dall’altra. Il poema di Ulisse tratteggia l’itinerario simbolico e introspettivo di un uomo alla ricerca di se stesso, ed è la grande metafora che sta alle radici della letteratura occidentale e del nostro immaginario collettivo. Le Storie, invece, anche se permeate di informazioni favolose e poco veritiere, sono i resoconti delle ricerche e delle esplorazioni che Erodoto ha effettivamente compiuto lungo le rotte e le strade del Mediterraneo e dell’Antico Oriente.
In Omero, il mondo selvaggio, al di là dei confini dell’Egeo occidentale, popolato da maghe seduttrici, giganti cannibali e Ciclopi, è modello negativo di barbarie, contrapposto ai valori della civiltà greca: a questi Ulisse, tra mille peripezie, e non senza indugiare, desidera infine fare ritorno. In Erodoto, l’orizzonte geografico si allarga a luoghi lontani e meravigliosi – la Libia, l’Iran, il Caucaso – e ai popoli che li abitano. Lo storico li osserva con l’atteggiamento di un moderno antropologo, che non crede all’esistenza di valori assoluti e civiltà superiori, ma sa che «se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutte, le usanze migliori, ciascuno dopo un’attenta riflessione indicherebbe le proprie».
Eva Cantarella ci accompagna tra luoghi fantastici, come l’isola dei Feaci e il palazzo della maga Circe, e regni realmente esistiti, come l’Egitto e la Persia. Fra le sirene ammaliatrici da cui Ulisse deve fuggire e gli ippopotami del Nilo che Erodoto racconta con curiosità agli Ateniesi, che non li hanno mai visti, l’autrice ci insegna a ricostruire una mappa, geografica e ideale al tempo stesso, dell’incontro e dello scontro fra civiltà e barbarie, di mondi diversi che imparano a conoscersi, e del percorso che l’uomo compie alla ricerca dell’uomo.

Maura Franchi e Augusto Scianchi, C’era una volta il ’68: prima e dopo – Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2018, euro 14,00
Chi lo avrebbe detto che il cinquantesimo anniversario del ’68 sarebbe stato esso stesso un anno da ricordare, un momento di cambiamenti (specie dal punto di vista politico) di enorme portata? Chi avrebbe immaginato che a distanza di cinquant’anni avremmo fatto di nuovo i conti con quell’anno spartiacque?
A costruire una formidabile sintesi di quella che è l’eredità irrisolta del ’68, proprio sul finire di questo 2018 ci pensa un prezioso volume della sociologa Maura Franchi e dell’economista Augusto Schianchi intitolato significativamente “C’era una volta il ’68. Prima e dopo” in una sorta di espressione ossimorica che vuole ricordare come quel passato non sia così passato come si vorrebbe pensare.
Il ‘68 è stato spesso liquidato dagli storici come una serie di gesti esplosivi e utopici di breve durata. In realtà le trasformazioni che in quegli anni si sono manifestate hanno continuato a dipanarsi nei decenni successivi, sino ai giorni nostri.
I fattori che compongono la miscela che del ’68 sono l’istruzione e la speranza: una speranza che si scontra con un sistema istituzionale e politico che non riesce a raccogliere le domande di cambiamento.
Il lascito culturale più profondo del ‘68 è un approccio critico al principio di autorità. Uno dei punti più significativi dell’eredità del ‘68 riguarda una visione più orizzontale della società. Uno degli slogan del ’68 era “La rivoluzione parte da me”; è stata questa la base di una rivoluzione personale che ha attraversato una generazione.
Il 68 è stato un evento simbolico: ha rappresentato una rottura dei vecchi equilibri. Il 68 è stata un’esplosione sul piano delle idee e del costume, ha espresso una domanda di libertà, ha indicato che i bisogni sociali incarnano anche una domanda di riconoscimento identitario che non può essere ignorata.
Il ’68 ha dato senza dubbio linfa alla democrazia, ma nello stesso tempo ha messo in crisi le vecchie istituzioni e la politica e da quel momento il rapporto tra istituzioni, partiti e società non si è più ricomposto in un equilibrio nuovo. L’impresa di costruire il modo di governare i cambiamenti è così ancora aperta.
Quello che resta certamente sono le conquiste civili: i diritti di libertà, mentre resta aperta la domanda su come costruire una società più giusta nella libertà e come far funzionare la democrazia e le istituzioni in una società di massa. Domanda che ha trovato sfogo nel proliferare tumultuoso dei populismi.

Ian Black, Nemici e vicini: arabi ed ebrei in Palestina e Israele, 1917-2017 – Einaudi, Torino 2018, pp. 632, euro 34,00
Partendo dagli ultimi anni della dominazione ottomana e del periodo del mandato britannico, quando l’immigrazione sionista trasformò la Palestina nonostante la crescente opposizione araba, il libro ricostruisce le diverse fasi di una relazione condannata fin dall’inizio al fallimento. Ian Black getta nuova luce su eventi cruciali come la ribellione araba degli anni Trenta; l’indipendenza di Israele e la catastrofe palestinese (an-Nakba in arabo) del 1948; lo spartiacque della guerra del 1967; le due intifada; gli accordi di Oslo e lo spostamento politico di Israele verso destra. L’autore dimostra come – dopo cinquant’anni di occupazione – le speranze di una soluzione a due stati siano quasi del tutto scomparse, cercando di intuire cosa potrebbe riservare il futuro. Ma, soprattutto, Black va oltre gli eventi degni di nota – guerre, violenze e iniziative per la pace – per catturare la realtà della vita di tutti i giorni a Gerusalemme e Hebron, Tel Aviv, Ramallah, Haifa e Gaza, osservando entrambe le parti di questa impari lotta. Sempre chiaro, tempestivo e avvincente, il volume descrive un tragico conflitto che non mostra alcun segnale di fine, motivo in piú per cercare di comprenderlo.

Paola Bianchi e Piero Del Negro (a cura di), Guerre ed eserciti nell’età moderna – il Mulino, Bologna 2018, pp. 416, euro 26,00
Con l’avvento delle armi da fuoco, l’organizzazione degli eserciti permanenti, il ricorso a condottieri, mercenari e militari che fanno della guerra una professione, la costruzione degli stati si accompagna a un periodo di bellicosità nuovo. Le forze armate costano sempre di più, condizionano l’economia, la società e la cultura, lasciando tracce di devastazione, ma creando anche notevoli trasformazioni nei ruoli e nel coinvolgimento delle popolazioni. Nell’Italia moderna c’era tutto questo e altro: italiani in armi che si affrontavano non solo nei vari stati regionali o al servizio di eserciti stranieri, ma erano impiegati in pace nel controllo dell’ordine pubblico, o nel presidio di cittadelle e fortezze. L’accumulazione e dilapidazione di risorse per alimentare gli eserciti non era che uno degli aspetti legati alla complessità del «militare», come è possibile verificare anche attraverso i dibattiti sul concetto di guerra giusta o legittima.

Alessandro Vanoli, Inverno: il racconto dell’attesa – il Mulino, Bologna 2018, pp. 224, euro 15,00
Raccontare l’inverno significa parlare di una parte profonda della storia umana: le grandi glaciazioni, la lotta per la sopravvivenza, ma anche l’idea di rinascita connessa ai miti e alle feste più antiche. Stagione della sospensione, tanto dei lavori agricoli quanto della guerra, è uno dei momenti forti dell’anno, scandito da riti religiosi e dalla speranza di rinnovamento che essi esprimono. Inseguirla nei secoli ci riporta a cacciatori, malattie, estenuanti ritirate militari, al gelo dei monasteri, e poi a esseri fatati nascosti nel cuore della terra, a lunghe veglie davanti al fuoco nel raccoglimento dell’intimità domestica. Un ovattato intervallo bianco, festivo e mortale nel contempo, che continua a sollecitare il nostro immaginario.

Vittorio Dan Segre, Storia di un ebreo fortunato – UTET, Torino, 2018, pp. 240, euro 16,00
«Non dovevo ancora aver compiuto cinque anni quando mio padre mi sparò una rivoltellata in testa: puliva la sua pistola d’ordinanza, una Smith & Wesson calibro 7,35, e il colpo partì, non si seppe mai come.» In quest’incipit folgorante sembra racchiuso il destino di Vittorio Dan Segre: la sua dote di schivare i pericoli un attimo prima che sia troppo tardi.
Nato un mese dopo la marcia su Roma in una famiglia della borghesia ebraica piemontese, cresciuto insieme al regime fascista, all’indomani delle leggi razziali decide di lasciare l’Italia, i genitori e l’adorato cane Bizir per imbarcarsi verso la Palestina. L’antisemitismo dilaga in Europa, ma quel ragazzo in giacca blu marino e colletto di canapa non può immaginare fino a che punto questa scelta devierà il corso della sua vita, portandolo ad affrontare da un’angolatura eccentrica gli anni più drammatici del XX secolo.
Vittorio Segre diventa così Dan Avni. Prima si stabilisce in un kibbutz, affascinato da quell’esperimento sociale e ideologico che sembra promettere un futuro di uguaglianza. Lavora negli aranceti, si innamora di una ragazza fuggita dalla Germania. Poi, quando anche dal Medio Oriente è chiaro che l’ombra della Shoah va addensandosi sul millenario ebraismo europeo, si arruola nell’esercito inglese che all’epoca governa la Palestina, e diventa speaker di una radio clandestina nell’esplosiva Gerusalemme del 1942 – tra politici visionari e profeti militari, ruderi umani e califfi burocratici, ingenui, santi, eroi, arrivisti, nonché mafiosi italoamericani reclutati in vista dello sbarco in Sicilia –, per ritornare in Italia da soldato “nemico” alla vigilia della Liberazione.
Scritto su incoraggiamento di Amos Oz a partire dai diari tenuti in quegli anni, Storia di un ebreo fortunato è un memoir insolito e ispirato, ricco di humor malinconico, che mescola con equilibrio romanzo di formazione e d’avventura. Dan Segre attraversa un mondo dominato dal dolore, ma mantiene una straordinaria purezza nello sguardo; e pur prendendo le mosse dall’adagio talmudico che vuole i malvagi premiati sulla Terra così come i buoni lo saranno nell’aldilà, ha trasformato le peripezie vissute in un racconto memorabile, fedele fino in fondo alle parole di uno dei suoi personaggi: «La vita è più forte del male».

Louis de Wohl, Giuliano, l’imperatore apostata – Rizzoli, Milano 2018, pp. 416, euro 13,00
Una storia di amore e odio: è il romanzo della vita di Giuliano l’Apostata, l’imperatore romano che, nel IV sec. d.C., cercò di reprimere l’astro nascente del Cristianesimo e quasi vi riuscì. In una narrazione vivace e appassionante, Louis de Wohl – grande narratore di “vite eccellenti” – illumina i lati più intensi del personaggio accompagnando il lettore in un’avventura unica, tra episodi storici e colpi di scena, lungo tutto l’arco della sua vita. Dall’educazione in un monastero all’ascesa al trono, fino al cuore della sua vicenda, quando Giuliano vide l’“Ave Cesare” dei suoi soldati come l’opportunità di sconfiggere il Cristianesimo e rafforzare il suo potere, il talento narrativo di de Wohl non si limita all’Imperatore: ci restituisce anche l’uomo Giuliano, con il suo amore per la cugina Elena, insieme tenero e tragico, forza essenziale della sua vita e del libro. Un romanzo inarrestabile, pieno di passione, nel tempo del più grande pericolo per la Cristianità.

Mario Liverani, Paradiso e dintorni: il paesaggio rurale dell’antico Oriente – Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 208, euro 20,00
Quando l’Europa iniziò la sua esplorazione del Vicino Oriente, le notizie riguardanti quest’area erano sommarie e spesso facevano riferimento a un passato leggendario e mitico. In particolare, due miti ne avevano simboleggiato il paesaggio: la ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali. Invece di città, i primi viaggiatori nel Vicino Oriente trovarono rovine, e invece di giardini trovarono il deserto. Col progredire dell’indagine storica e archeologica, le informazioni sulle antiche città (da Ninive a Babilonia) crebbero, mentre le informazioni sulle campagne rimasero scarse e quasi nulle. La storia orientale antica divenne una questione di re e dinastie, di città e palazzi, di scribi e artigiani e mercanti. Si sapeva che la stragrande maggioranza della popolazione antica era costituita da contadini e pastori, ma la ricostruzione della loro vita e del loro ambiente venne a lungo esclusa dal quadro. Oggi le condizioni sono cambiate. Possiamo provare, per la prima volta, a dare un volto al ‘giardino dell’Eden’, a quel paesaggio in cui è germinata alcuni millenni fa la nostra civiltà.