In libreria: Holodomor, il genocidio del popolo ucraino

 di aF -

Una dichiarazione di guerra al mondo contadino e allo spirito nazionale ucraini. La cui responsabilità – come scrisse il console italiano a Charkiv nel 1933 – è tutta a carico delle stesse vittime, colpevoli di incarnare agli occhi di Stalin non solo uno spirito antisocialista, ostile alla statalizzazione dell’economia sovietica, ma anche un pericoloso “nazionalismo borghese”, frutto del ricordo dell’indipendenza vissuta nei primi anni della rivoluzione bolscevica.
L’holodomor, il genocidio per carestia del popolo ucraino, avvenuto tra il 1932 e il 1933 e costato la vita a quasi sei milioni di persone, è una delle pagine più buie nell’aberrante esperienza di ingegneria sociale condotta dal comunismo sovietico in settant’anni di esistenza. Una pagina di cui Ettore Cinnella, storico dell’Europa Orientale e attento conoscitore degli archivi moscoviti, ha realizzato quella che probabilmente è la sintesi definitiva e completa. Perché l’autore riesce ad affrontare in poco meno di trecento pagine tutti gli aspetti storici, culturali, politici e diplomatici che resero possibile la decisione di Stalin di condannare a morte per fame (gli scampati furono sottoposti a deportazioni, arresti e fucilazioni) una fetta consistente degli agricoltori ucraini.
La parola d’ordine della «liquidazione dei kulaki come classe», lanciata nel 1929, trovò qui un’applicazione feroce e barbara, anche se non esente da tentennamenti e ripensamenti, che indussero il duce del Cremlino ad alternare il bastone degli anni 1930-1931 alla parziale carota del 1932, fino alla definitiva ecatombe del 1933. Con gli organi del partito comunista impegnati a dare disposizione schizofreniche circa la semina, la mietitura e la trebbiatura, e quindi a obbligare, pena la requisizione forzata, la consegna all’ammasso di quantitativi esorbitanti di cereali, latte e bestiame.
Per i contadini fu un ritorno a una servitù della gleba pre-zarista, in parte combattuta – lo evidenziano i documenti raccolti dall’autore – con proteste e rivolte armate. Furono probabilmente queste ultime, insieme alla consapevolezza che i tentennamenti sulla strada dell’edificazione socialista avrebbero rinfocolato l’opposizione interna al partito (cui viene dedicato un interessante capitolo), a suggerire a Stalin di procedere speditamente verso il genocidio sociale dei contadini ucraini, inviando come esecutori i suoi due uomini più fidati: Molotov e Kaganovic. A farne le spese furono anche le popolazioni del Caucaso settentrionale e del Kazachistan «dove la statalizzazione del bestiame e gli esosi ammassi avevano sconvolto il tradizionale sistema produttivo dei pastori nomadi». In questo modo, spiega Cinnella, verso la fine degli anni Trenta fu completata la costruzione della cosiddetta società “socialista”, basata sostanzialmente sul lavoro servile e schiavistico.
Oltre allo spazio dedicato alla voce delle vittime, altri due aspetti vengono messi in evidenza: l’appeasement diplomatico con la Polonia nel 1932 – l’unico Paese a denunciare quanto stava accadendo – che consentì una più introversa efficacia dello sterminio, e il lungo e colpevole silenzio calato fino a una ventina d’anni fa sull’intera vicenda da intellettuali e storici compiacenti, gran parte dei quali appartenenti al mondo accademico occidentale.

Ettore Cinnella, Ucraina. Il genocidio dimenticato 1932-1933 – Della Porta, 2015, pp. 302, euro 18,00

***

R. Curci, Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista – il Mulino, Bologna 2015, pp. 176, euro 15,00
«È una storia di sparizioni, questa. Sparizioni di persone che non volevano o non si aspettavano di dover sparire, sparizioni di persone responsabili delle sparizioni precedenti, sparizioni di persone che invece scelsero di sparire, per aver salva la vita o, all’opposto, per rifiutarla e sbarazzarsene. Una storia di fughe e di cacce, di simulazioni e dissimulazioni, di inganni e beffe, di benefiche o (molto più spesso) venefiche casualità. Una storia che, pur con le sue eccezioni, conferma l’amara, eterna diagnosi dell’homo homini lupus».
Una storia sbagliata, che coinvolge molti ebrei della comunità triestina e ha il suo centro simbolico in una casa di via San Nicolò (la stessa in cui abitò Joyce), dove si trovavano ad un tempo la libreria antiquaria dell’ebreo Umberto Saba e il laboratorio di sartoria dell’ebreo Grini, lontano parente di Saba. Un figlio di questo sarto, durante l’occupazione nazista, collaborerà attivamente a identificare e catturare molti suoi correligionari, poi deportati e uccisi. Attorno alle infami imprese dell’ebreo traditore, ricostruite anche in base alle risultanze processuali, ciò che Curci delinea è però una rete ambigua di legami, di corresponsabilità, di vigliaccherie, di reticenze e silenzi che avviluppa Trieste. Una storia che si vorrebbe dimenticare, e che tuttavia riveste uno straordinario valore esemplare.

E. Schlosser, Comando e controllo. Il mondo a un passo dall’apocalisse nucleare – Mondadori, Milano 2015, pp. 631, euro 28,00
Che cosa accadde esattamente il 19 settembre 1980 alla base missilistica di Damascus, in Arkansas, nel silo sotterraneo che ospitava un Titan II a testata nucleare? Da cosa fu provocata la tremenda esplosione che, fortunatamente, costò la vita “solo” a un addetto alla manutenzione e il ferimento di una ventina di persone? Ma, soprattutto: fu quello l’unico caso in cui l’umanità rischiò di assistere a una nuova tragedia come quelle di Hiroshima e Nagasaki? In un racconto ricco di colpi di scena, episodi di straordinario eroismo e coincidenze sospette, Eric Schlosser fa la cronaca dell’incidente nucleare di Damascus e rivela come la combinazione di fallibilità umana e complessità tecnologica abbia messo più volte a repentaglio la vita del genere umano, ponendolo di fronte al drammatico e tuttora irrisolto dilemma: come utilizzare armi dal grandissimo potenziale distruttivo senza esserne a propria volta distrutti? E poi, come esercitare il pieno controllo di un arsenale atomico, garantendo che nessuna arma esploda per caso o in seguito a una procedura non autorizzata? Da pagine dense di dati, di fatti e di testimonianze personali emerge una terrificante realtà tenuta finora in gran parte segreta: lo sforzo immane di scienziati, politici e militari per scongiurare il pericolo che le armi nucleari potessero essere rubate o sabotate, ma anche le storie di piloti, comandanti di missili e semplici manutentori che hanno rischiato la vita per evitare ubn olocausto nucleare.

A. Beevor, Ardenne. L’ultima sfida di Hitler – Rizzoli, Milano 2015, pp. 507, euro 30,00
Nel dicembre del 1944, in una vera e propria scommessa per costringere gli Alleati a chiedere la pace, Adolf Hitler ordinò la più grande controffensiva tedesca della Seconda guerra mondiale nello scacchiere europeo occidentale. Un’iniziativa spericolata e pericolosissima con obiettivo Anversa, passando attraverso le Ardenne. Messi duramente alla prova, molti soldati americani disertarono o si arresero, altri resistettero eroicamente rallentando l’avanzata del nemico, in un teatro di guerra in cui uomini e natura rivaleggiarono in ferocia e crudeltà. Avvalendosi degli studi più recenti e obiettivi, Antony Beevor ricostruisce in queste pagine appassionate una delle battaglie simbolo della Seconda guerra mondiale, il colpo di coda di Hitler.

D. D’Urso, Quando la pietà era morta. Aspetti della guerra civile 1943-1945 – Bastogi, 2015, pp. 160, euro 15,00
A 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale l’autore, “sine ira et studio”, fornisce un contributo alla migliore conoscenza della guerra tra italiani combattuta tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, gettando nuova luce anche su uomini e fatti dell’immediato dopoguerra. Centinaia di documenti d’archivio, in gran parte inediti, apportano significativi e spesso inattesi dati di novità sulla realtà del Piemonte meridionale. La ricerca è utile per rinverdire il ricordo di protagonisti dimenticati “di quei venti mesi di ultimo Risorgimento e di ultimo fascismo che resteranno fra i più intensi, tragici e creativi della nazione”.

R. Brizzi, Osservata speciale. La neutralità italiana nella prima guerra mondiale e l’opinione pubblica internazionale (1914-1915) – Mondadori, Milano 2015, pp. 346, euro 24,00
Il 2 agosto 1914 la dichiarazione di neutralità dell’Italia viene osservata distrattamente da gran parte dell’opinione pubblica internazionale, impegnata a celebrare in un clima di euforia nazionalistica l’inizio di un conflitto che si immagina rapido. Scomparsa l’illusione di una guerra breve, sia i paesi belligeranti che quelli neutrali iniziano a ritenere l’eventualità di un ingresso dell’Italia un fattore sempre più rilevante per modificare gli equilibri della “guerra europea” e destinano un crescente interesse alle vicende politiche italiane, ai negoziati del governo Salandra con i due schieramenti e all’acceso dibattito tra neutralisti e interventisti che infiamma la Penisola. A un secolo esatto dagli eventi narrati le pagine di questo volume ricostruiscono – attraverso l’eco della stampa di sedici nazioni (europee e non) – un quadro dinamico e fedele dello sguardo che l’opinione pubblica internazionale ha destinato all’Italia nei dieci mesi compresi tra lo scoppio della Prima guerra mondiale e l’ingresso del nostro paese a fianco dell’Intesa.

E. Armin, L’età dei Cesari. Le legioni e l’Impero – Einaudi, Torino 2015, pp. 256, euro 26,00
Con le guerre civili si concludono i sette secoli della repubblica e comincia la nuova storia dello stato romano che dominerà l’area europea e mediterranea fino al v secolo. Ricostruendo le fondamentali tappe dell’evoluzione dell’Impero l’autore si sofferma in particolare sul ruolo strutturale svolto dalle legioni romane dislocate nelle varie province, a partire dal momento in cui l’esercito divenne permanente. A esse, infatti, gli imperatori dovranno tre fondamentali aspetti del loro potere: il mantenimento della pace all’interno dei territori e la sicurezza dei confini attraverso il ricorso, sovente, a brutali pratiche di repressione di ogni focolaio o movimento di resistenza che rischiasse di rimettere in discussione la pax romana; un’importante funzione di controllo e approvvigionamento delle risorse, di interventi di natura fiscale e rimessa finanziaria; e infine, una funzione di intermediazione culturale, se è vero che, al seguito delle legioni, fu la cultura romana in tutte le sue espressioni – da quella architettonica e ingegneristica a quella politica e letteraria, da quella religiosa e istituzionale a quella artistica e filosofica – a raggiungere popoli lontani e diversi, che venivano cosí progressivamente incorporati all’interno di un sistema di valori e riferimenti unitario e omogeneo.

M. Barbanera, Storia dell’archeologia classica in Italia. Dal 1764 ai giorni nostri – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 248, euro 22,00
La storia dell’archeologia classica in Italia ricostruita come una storia culturale. Dalla metà del Settecento fino agli anni ’90 del Novecento, le ragioni storiche, politiche, ideologiche e perfino psicologiche che hanno indirizzato e influenzato le idee e le pratiche dell’archeologia, attraverso i numerosi mutamenti politici del Paese.

M. Bretone, M. Talamanca, Il diritto in Grecia e a Roma – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 190
Quello del diritto è il campo in cui il mondo greco e quello romano si rivelano più lontani. Da una parte, la società greca, dove le città-stato organizzano la loro vita interna per lo più in base a leggi non scritte, tanto che si deve parlare di ‘diritti’ greci, piuttosto che di ‘diritto’ greco. Dall’altra parte, la società romana, con una legislazione e una scienza del diritto che hanno dato l’impronta alla cultura giuridica del nostro mondo. Le preziose ricostruzioni di Bretone e Talamanca restituiscono i due diversi modelli di interpretazione e regolamentazione dei rapporti tra individui e istituzioni.