In libreria: Guicciardini per gli italiani di oggi

di e.g. -

cover-guicciardiniDopo dieci anni di lavoro vede la luce la nuova Storia d’Italia di Francesco Guicciardini. Un professore novarese, Claudio Groppetti, ha dato alle stampe per l’editore Interlinea la versione del capolavoro dello storico fiorentino nella lingua italiana di oggi (1.776 pagine, 70 euro). Un’opera monumentale che nasce da una vita di passione di studio.
Nato a Romentino nel 1933, docente prima e preside poi nelle scuole di Romagnano, Novara, Romentino e di altri istituti del Novarese, Groppetti (che oggi vive a Cavaglio d’Agogna) ha ormai confidenza con le opere del Guicciardini: per l’editore Carello ha infatti pubblicato i Ricordi e Carlo VIII conquista il Regno di Napoli, primo libro tradotto della Storia d’Italia, e con Interlinea l’antologia Storia d’Italia: la Novara rinascimentale. L’ultimo volume fresco di stampa è il tassello conclusivo di un immane lavoro, di studio e di revisione, frutto di una passione coltivata fin dai tempi dell’Università, durante il corso tenuto dal professor Mario Fubini. «Come è indicato nel sottotitolo del libro – scrive il curatore nelle note introduttive – questa è una versione nella lingua italiana di oggi del testo guicciardiniano della Storia d’Italia. È quasi una traduzione come lo sono le innumerevoli edizioni nelle principali lingue europee: francese, tedesco, inglese, spagnolo. Esiste anche una traduzione del 1566 in lingua latina, pubblicata a Basilea, del piemontese Celio Secondo Curione, esule in terra elvetica per motivi religiosi, che ha permesso una conoscenza immediata della Storia in tutte le nazioni protestanti dell’Europa centro-settentrionale. Come tutte le trasposizioni linguistiche essa serve per coloro che per vari motivi non sono in grado di leggere correntemente e capire il testo originale del Guicciardini, ottenendo così grazie ad essa una migliore e tranquilla lettura della Storia d’Italia. È per questo che il Guicciardini è più famoso nella cultura mondiale che nella nostra. I lettori dei vari Paesi oggi leggono la Storia d’Italia in una traduzione moderna, mentre noi siamo obbligati a leggerla nel testo del Cinquecento. Basti pensare che nella stesura manoscritta del Guicciardini e del suo segretario Orazio da Fermo ogni libro si snoda ininterrottamente dall’inizio alla fine, senza la divisione in capitoli e paragrafi. Il lavoro dei curatori negli ultimi due secoli è stato notevole e ha migliorato la lettura della Storia». Dieci anni di lavoro e una data da ricordare: la traduzione si è conclusa il 20 novembre 2017 alle ore 18. Migliaia di pagine vergate a mano, «consumando due penne stilografiche: fondamentale l’aiuto di mio nipote Jacopo che, oltre a trascrivere al computer interpretando senza problemi la mia calligrafia, ha saputo anche fornirmi qualche spunto per intervenire sul testo che è diviso in venti libri».
groppetti-claudioMolto più agevole ora la lettura del capolavoro del Guicciardini nella versione attuale, che non tradisce la peculiarità del dettato. Dando una veste moderna alla lingua, spezzando il periodo con capitoli e periodi più corti, Claudio Groppetti regala un respiro nuovo, più fresco all’opera che apre una finestra di grande interesse su poco meno di 50 anni di storia d’Italia: Gucciardini, scrittore e politico, con prestigiosi incarichi diplomatici, si sofferma sul periodo compreso tra il 1492 (morte di Lorenzo de’ Medici) e il 1534 (morte del papa Clemente VII). E racconta i fatti narrati in una veste privilegiata, quale testimone oculare. Una «storia anche degli uomini, non solo dei fatti, in una Italia di tanti Stati». Groppetti ama citare le parole di Francesco De Sanctis: «Se guardiamo alla potenza intellettuale è il lavoro più importante che sia uscito da mente italiana». E grazie all’autore novarese la nuova Storia d’Italia ci permette di addentrarci nelle pieghe del passato per capire meglio l’evoluzione del nostro Paese.
Francesco Guicciardini, Storia d’Italia: versione nella lingua italiana di oggi a cura di Claudio Groppetti – Interlinea, Novara 2020, pp. 1776, euro 70,00

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Maurice Bignami, Addio rivoluzione: requiem per gli anni Settanta – Rubbettino, Soveria Mannelli 2020, pp. 406, euro 19,00
“Addio rivoluzione” racconta il lungo autunno caldo della Repubblica, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso e rende anche conto degli antecedenti storici, sociali e culturali che hanno portato a quel periodo. Seguendo l’autore – dalla Parigi degli anni Cinquanta, in una famiglia di comunisti italiani di professione, alla Bologna degli anni Sessanta e Settanta, vetrina del buon governo PCI – vengono ricostruiti il clima intellettuale e i percorsi politici di allora: la FGCI, i primi gruppi extraparlamentari, il Sessantotto, ma anche i riflessi del Movement americano, la Beat Generation, l’amore per la poesia. E poi Potere Operaio, l’Autonomia, Prima Linea, fino alla dissociazione politica, all’opzione per la democrazia e, a metà degli anni Ottanta, alla rottura radicale con il marxismo e l’idea di rivoluzione. Un saggio che si legge come un romanzo, una biografia che si snoda attorno ai momenti cardine di quel periodo, e che sa cogliere tutte le suggestioni di pensiero (filosofiche e politiche) che giustificarono ogni scelta, anche quella estrema. Una mappa che accompagna il lettore nei meandri di quegli anni: sia il lettore che li ha vissuti e poi, spesso, dimenticati; sia quello che ne ha sentito solo l’ormai sbiadita narrazione e non li ha mai realmente percepiti portando entrambi alle soglie di una scelta di campo. È uno schietto mea culpa, una critica feroce dell’ideologia e del totalitarismo; soprattutto, è un’ode ragionevole a ciò che oggi è inviso ai più: la politica e gli ideali della democrazia rappresentativa e del liberalismo. Un po’ di pathos, parecchia ironia, nessuna compiacenza, molta pietà. Per tutti.

Davide Conti, L’Italia di Piazza Fontana: alle origini della crisi repubblicana – Einaudi, Torino 2020, pp. 384, euro 32,00
Il 12 dicembre 1968 l’esponente democristiano Mariano Rumor insediava, con la formula del centro-sinistra, il suo primo governo. Il 12 dicembre 1969 la strage di piazza Fontana a Milano e gli attentati di Roma aprivano drammaticamente la fase di quella strategia della tensione che avrebbe caratterizzato la vita pubblica del Paese per l’intero decennio degli anni Settanta. I 365 giorni che intercorsero tra quelle due date rappresentarono uno dei momenti piú significativi della storia dell’Italia democratica segnato da una crisi di struttura che investí radicalmente tutti i settori e gli ambiti della società nazionale: da quello politico a quello economico-sociale, da quello militare a quello dell’ordine pubblico. La ricomposizione del contesto immediatamente precedente la strage di piazza Fontana fornisce, dunque, una chiave di lettura centrale di quei drammatici eventi evidenziando come questi maturarono all’ombra della democrazia repubblicana e quanto mutarono il Paese.
Nel frangente compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta del Novecento si esprime in Italia la sincronia del ’69 operaio con il ’68 studentesco; si chiude la fase espansiva del ciclo storico capitalista del ventennio postbellico; si esaurisce la formula politica del centro-sinistra nel quadro di un sistema dei partiti bloccato e senza alternative di governo; si determinano le caratteristiche dell’anomalia italiana del decennio ’68-78; si esplicita un diretto intervento paramilitare contro civili inermi, la strage di piazza Fontana, che non solo si colloca all’interno del conflitto sociale di un Paese democratico ma apre una «stagione delle stragi» non limitata al fatto episodico. Lo strumento per restituire alcuni dei principali nodi della crisi italiana, delle sue anomalie e delle complessità politico-sociali che le determinarono non poteva che essere un racconto polifonico di piú fonti e soprattutto di molteplici voci: dagli operai agli industriali, dagli studenti ai poliziotti; dai dirigenti politici ai braccianti; dagli emigrati ai militari. Punti di osservazione essenziali che esplicitano i limiti stessi del governo dei processi storici. Attraversando rotture e continuità, torsioni e trasformazioni, crisi e modernità, è questo il Paese che giunge al 12 dicembre 1969, giorno in cui il Senato approva lo Statuto dei lavoratori mentre a Milano si prepara la strage di piazza Fontana. Il Giano bifronte della storia nazionale.

Florian Huber, Promettimi che ti ucciderai. Nazisti fino alla morte: storia dei suicidi di massa alla fine del Terzo Reich – Rizzoli, Milano 2020, pp. 304, euro 20,00
Tra le pagine meno note della storia del Terzo Reich c’è quella della straordinaria ondata di suicidi che ha attraversato la Germania nelle ultime fasi della Seconda guerra mondiale. Una vera e propria “epidemia” che ha mietuto vittime non soltanto tra i militari e i gerarchi nazisti (a cominciare da Adolf Hitler) ma soprattutto tra i comuni cittadini. Nei primi mesi del 1945, i casi di annegamento, impiccagione, avvelenamento, che spesso annientarono intere famiglie, divennero così frequenti e capillari da rendere difficile persino contarli. Tormentati dal senso di colpa, ossessionati dagli orrori della guerra, terrorizzati dall’arrivo dell’Armata Rossa, la cui offensiva stava lasciando dietro di sé una scia di sangue, distruzione e violenze, migliaia di tedeschi di ogni età ed estrazione sociale scelsero di rivolgere su se stessi e sui propri cari quella violenza che ormai da troppo tempo era parte della loro realtà quotidiana.A partire dal caso di Demmin, la cittadina della Pomerania dove ha avuto luogo il più grande suicidio di massa della nazione, Florian Huber prova a ricostruire la psicologia di un intero popolo, per rendere ragione di un fenomeno che non ha equivalenti negli altri Paesi falcidiati dalla guerra, e che in Germania ha potuto contare su un particolare combustibile: l’ideologia. Con l’aiuto di preziose testimonianze private, l’autore ci spiega come l’intera parabola del Terzo Reich sia stata un susseguirsi di emozioni travolgenti, di stupefacente intensità, destinate a marchiare indelebilmente l’animo del popolo tedesco. E quando il Reich fu messo in scacco dal nemico, la fine di quel tragico sogno – e il vuoto di speranza che portava con sé – fu per molti davvero impossibile da tollerare.

Sergio Valzania, La guerra del Pacifico: storie di uomini e portaerei nella Seconda guerra mondiale – Mondadori, Milano 2020, pp. 276, euro 22,00
Tra le epopee del mare c’è quella delle portaerei. Le navi più potenti mai costruite sono state protagoniste di una sola guerra: quella combattuta con ferocia nell’oceano Pacifico tra giapponesi e americani dal 1941 al 1945.
Il Mar dei Coralli, Midway, le Salomone orientali, l’arcipelago di Santa Cruz e le Marianne furono il teatro del conflitto che si risolse in uno schiacciante predominio degli Stati Uniti aprendo loro la strada per la vittoria. I marinai e i piloti imbarcati su Saratoga, Lexington, Yorktown, Enterprise e Hornet si opposero con determinazione e spirito di sacrificio allo strapotere dei giapponesi nei primi mesi di guerra, bloccando la loro avanzata e dando a un apparato industriale dalle possibilità immense il tempo di intervenire nella lotta.
Se la madre di tutti gli errori giapponesi fu la decisione di sfidare gli Alleati in una guerra assolutamente impari sul piano dei materiali, il secondo gravissimo sbaglio consistette nell’attaccare Pearl Harbor nel momento in cui non erano presenti le portaerei americane, mancando di fatto l’annientamento della forza nemica.
Con metodo e partecipazione, Valzania racconta un frammento di una delle grandi tragedie del secolo passato e ne presenta uomini e mezzi − gli ammiragli delle due flotte, le navi, i marinai, gli aviatori e gli aerei −, valuta le scelte fatte, l’eroismo, la disponibilità al sacrificio, le capacità strategiche e l’intuito tattico dei protagonisti, presenta le azioni e i comportamenti delle personalità di spicco che vi parteciparono nei ruoli più diversi. Dall’ammiraglio Yamamoto, ucciso in un agguato tesogli dall’aviazione americana, ai futuri presidenti degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, che portò in salvo il motorista della sua motolancia affondata dai giapponesi nuotando per oltre cinque chilometri, e George Bush, in servizio come pilota di marina e recuperato da un sommergibile americano dopo ore di attesa in acqua a seguito dell’abbattimento del suo aereo.

Flavio Felice, I limiti del popolo: democrazia e autorità politica nel pensiero di Luigi Sturzo – Rubbettino, Soveria Mannelli 2020, pp. 410, euro 25,00
Il libro analizza il significato delle nozioni di popolo, autorità e democrazia nella tradizione del popolarismo, in un fecondo incontro con la tradizione liberale. Il punto fermo del popolarismo sturziano è un’idea di “popolo” del tutto differente da quella fornita dai populismi di ogni tipo. In particolare, il problema di fronte al quale Sturzo pone i cattolici riguarda la domanda se essi dovrebbero accettare un regime politico che nega le libertà, in cambio dell’ottenimento di privilegi. L’assenso verso tali regimi è impraticabile per un cattolico, a pena di sacrificare la propria coscienza sull’altare dell’idolo della Politica. Il popolarismo sturziano mette in discussione la nozione di popolo declinata al singolare, per declinarla al plurale. Tale pluralismo salvaguarda e presuppone il valore della coscienza individuale e non si lascia assorbire in un indistinto misticismo politico di impronta tanto giacobina quanto organicistica: il brodo di coltura di ogni populismo.

Oliver Jens Schmitt, Gli albanesi – il Mulino, Bologna 2020, pp. 240, euro16,00
Gli albanesi dell’Europa sud-orientale non sono solo quelli d’Albania, ma anche quelli stanziati in Kosovo, Macedonia, Montenegro e Grecia. Dopo la quarantennale dittatura di Enver Hoxha in Albania (1944-1985) e la dissoluzione della Jugoslavia negli anni Novanta, dal 2008 esistono due stati albanesi (Albania e Kosovo), entrambi impegnati a fronteggiare seri problemi politici ed economici. La situazione attuale è frutto di una lunga storia piena di vicissitudini, che l’autore ripercorre dall’antichità a oggi, fornendoci così gli strumenti per una migliore comprensione della regione e delle sfide a cui deve rispondere.

Carlo Bastasin, Gianni Toniolo, La strada smarrita: breve storia dell’economia italiana – Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 168, euro 16,00
Il lungo percorso che aveva portato gli italiani dalla povertà al benessere è stato smarrito di fronte alle sfide dell’economia globale. Nonostante i rischi attuali, la storia recente mostra che l’Italia non è condannata.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento l’Italia inizia la rincorsa dei paesi più avanzati e alla fine del ventesimo secolo raggiunge un reddito per abitante non dissimile da quello di Germania, Francia e Regno Unito. È un percorso di successo, che crea un’economia moderna. Da un quarto di secolo, tuttavia, l’economia italiana cresce assai meno della media europea. I fattori di sviluppo che avevano funzionato nel dopoguerra si sono rivelati inadatti all’economia globale. Pesano mali antichi mai curati: bassi livelli di istruzione, prassi burocratiche e giudiziarie obsolete, gestioni aziendali poco trasparenti. Il reddito perduto con la crisi del 2008-2013 non è stato ancora recuperato. La differenza tra il benessere economico degli italiani e quello degli altri europei e dei nordamericani è tornata ai livelli degli anni Sessanta. Il clima di incertezza politica, finanziaria e istituzionale scoraggia gli investimenti, crea un ambiente ostile alla crescita e rischia di provocare un avvitamento dell’economia. Eppure, ci sono stati momenti recenti nei quali l’Italia sembrava potesse riprendersi, segno che non è condannata a un perenne ristagno. Con questo libro, Carlo Bastasin e Gianni Toniolo ripercorrono la strada di un robusto sviluppo e indagano i motivi che l’hanno fatta smarrire per capire come fare a ritrovarla.

Philippe Jullian, D’Annunzio: l’esteta eroe – Lindau, Torino 2020, pp. 396, euro 24,00
Cattiva e spregiudicata, questa biografia «francese» di D’Annunzio è scritta da un personaggio che gli assomiglia e che si dimostra alla sua altezza: coltissimo, brillante, volubile e salottiero, Philippe Jullian fu infaticabile nella caccia ai più azzimati artisti dell’Europa fin de siècle, da Oscar Wilde a Montesquiou, senza tralasciare Jean Lorrain, i simbolisti e Sara Bernhardt. Il libro che nasce dall’incontro di questi fattori risulta una tessitura fittissima e infuocata di aneddoti, notizie inedite, confidenze di prima mano, pettegolezzi al vetriolo, citazioni, lettere, memorie di illustri ignoti naufragati nel gorgo del Vate. E ancora: brani di romanzi, appunti, diari, poesie, epistole.
Jullian modella con mano felicissima la statua così poco barocca di quest’uomo che suscitò furibonde passioni, dalla contessa Anguissola che lo accoglieva a colpi di pistola dall’alto delle scale quando tornava esausto dalle «inimitabili» avventure ancillari, alla Duse che gli gettava nel letto, gelosa e masochista, la povera Madame Romains. Per tacere di Mussolini il quale, secondo la testimonianza dell’infermiera che gli comunicò telefonicamente la ferale notizia, proruppe in un urlo di trionfo all’idea di essersi liberato del poderoso rivale in demagogia spicciola.
La lettura di questa biografia diverte, sconcerta e, infine, commuove. Placato il brusio di tante voci, finita la musica di una lingua e di una vita «inimitabili» (ma molto imitate), sparite le creature «dai visi di luce», inghiottito nel passato l’orripilante show dei sanfranceschi, dei michelangeli, degli inauditi calchi che diventavano motti e dei motti che si facevano tappezzeria, resta l’immagine di un artista che, con tutte le sue rutilanti sfaccettature, seppe genialmente soffocare per mezzo secolo lo spettro del Realismo.

Maria Giuseppina Muzzarelli, Le regole del lusso: apparenza e vita quotidiana dal Medioevo all’Età moderna – il Mulino, Bologna 2020, pp. 300, euro 24,00
Dal 2007 è in vigore in Tagikistan una «legge sulla parsimonia» che regola gli sprechi in occasione di matrimoni, cerimonie e ricorrenze varie: onde evitare indebitamenti folli è fissato il numero massimo degli invitati, come pure quello delle portate. Il provvedimento, incongruo alle nostre orecchie, si richiama alla secolare storia del disciplinamento che, con apposite leggi suntuarie, ha temperato l’esibizione del lusso fra Medioevo ed età moderna. In una società rigidamente gerarchica, occorreva infatti vigilare affinché ognuno desse di sé un’immagine coerente con la propria condizione sociale. Nel mirino erano essenzialmente le donne, i loro abiti, i gioielli, i pizzi, i copricapi, le calzature, ma anche i banchetti e le feste. Attraverso una quantità di storie particolari in cui vediamo all’opera questa «polizia del lusso», l’autrice ci parla di costumi, mode e passioni e, in controluce, di un tema oggi sempre più sentito, ovvero «quando troppo è troppo».

Armand D’Angour, Socrate innamorato: la giovinezza perduta del padre della filosofia occidentale – UTET, Torino 2020, pp. 352, euro 20,00
«Conosci te stesso» recita l’iscrizione all’entrata del tempio di Apollo a Delfi. E forse, quando Socrate si recò in visita all’oracolo, riconobbe in quella frase la voce di un demone interiore, che lo invitava a sondare i propri limiti per poi metterli alla prova nella vita pubblica.
Infatti, che fosse ospite di simposi nelle case ateniesi più altolocate o a passeggio nell’agorà, Platone e Senofonte ce lo raccontano spesso sprofondato in uno stato di trance introspettiva. Da lì era però sempre pronto a innescare, candido e insieme sornione, le discussioni più serrate, inanellando una dopo l’altra domande, aporie e contraddizioni senza risparmiare nessuno, tantomeno i numerosi rivali che avrebbero poi avuto modo di vendicarsi con l’ausilio della famigerata pozione di cicuta.
Per ironia del destino, se siamo abbastanza informati sulle circostanze della morte, sulla vita del padre del pensiero occidentale sappiamo invece ben poco. Non avendo lasciato nessuna opera scritta, il Socrate che tipicamente ci immaginiamo è un anziano ed eccentrico signore dai lineamenti faunini, presentato ora nella variante di maestro carismatico per i dialoghi platonici, ora di cialtrone mistificatore per le commedie di Aristofane.
Rileggendo le fonti della tradizione alla luce di altri testi dimenticati e trascurati, il grecista Armand D’Angour ci porta indietro nel tempo e nello spazio, fino ai piedi dell’acropoli di Atene nel suo momento di massima fioritura. Tra le strade di questa mitica città, mai così vivida, incontreremo finalmente e per la prima volta il giovane Socrate: irresistibile scavezzacollo restio a proseguire l’arte paterna di scalpellino, cultore di musica in viaggio a Samo con l’insegnante Archelao, agile lottatore ed eroe di guerra che nella battaglia di Potidea porta in salvo l’amato Alcibiade. Ma non è tutto: una scia di indizi conduce D’Angour a scoprire persino uno spiazzante Socrate innamorato di Aspasia di Mileto, futura compagna di Pericle, dietro cui potrebbe nascondersi Diotima, la fascinosa etera del Simposio, «maestra di cose d’amore» e ispiratrice dell’amore più grande, la philosophia.

Bernhard Maier, Stonehenge – il Mulino, Bologna 2020, pp. 144, euro 13,00
Situato nell’Inghilterra sud-occidentale, Stonehenge è uno dei complessi monumentali più noti e misteriosi dell’Europa preistorica. Le sue origini risalgono al III millennio a.C.: come le grandi piramidi egizie, è diventato l’emblema di una civiltà, continuando a suscitare nel tempo infinite congetture e teorie. Il libro offre una visione d’insieme di ciò che sappiamo su Stonehenge grazie all’archeologia moderna, allo studio della preistoria e alla storia delle religioni, illustrando anche il contesto culturale in cui si sviluppò. Completa il quadro il racconto della fortuna di questo famosissimo sito megalitico nell’arte, nella letteratura e nel cinema.