In libreria: Genocidio armeno
Forget-me-not in inglese, Nontiscordardime in italiano, è un imperativo e finanche una prece. Questo piccolo e delicato fiore perenne è stato scelto come emblema del centenario del Genocidio Armeno, il Metz Yeghérn, che è stato definito il peccato originale del Novecento. Da allora a oggi, la Repubblica di Turchia, erede diretta dell’Impero ottomano, non è stata sanzionata né punita, come invece accadde alla Germania alla fine della Prima guerra mondiale, né tantomeno obbligata a fare i conti con la propria tenebra genocidaria, come avvenne successivamente alla caduta del nazismo. Gli armeni, ancora oggi sotto l’attacco di Ankara e di Baku, sono vittime di pulizia etnica e di etnocidio nei territori dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) nel silenzio quasi assoluto del mondo libero. Funzionale alle antiche e nuove politiche antiarmene è il negazionismo del Metz Yeghérn, un inquietante e mostruoso case study perdurante da oltre un secolo. Tale negazionismo, “di Stato” in Turchia e in Azerbaijan, grazie a politici, giornalisti e intellettuali compiacenti e a finanziamenti a dipartimenti accademici, trova insidiosa sponda anche in Occidente. Vittorio Robiati Bendaud non solo racconta e analizza la storia e le cause di questa colossale tragedia, ma ne mostra anche la bruciante attualità. In tal senso, quindi, il Genocidio Armeno è «tuttora in essere».
Vittorio Robiati Bendaud, Non ti scordar di me: storia e oblio del Genocidio Armeno – Liberilibri, Macerata 2025, pp. 216, euro 18,00
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Arnaldo Benini, “Tiro sassi alla finestra di Hitler”: i messaggi radiofonici di Thomas Mann in esilio (1940-1945) – Salerno Editrice, Roma 2025, pp. 128, euro 14,00
«Noi scrittori» – disse Thomas Mann esule in America dal 1938 – «siamo impegnati nella guerra contro Hitler con le armi delle parole». Queste armi presero la forma efficace di cinquantanove messaggi registrati a Los Angeles dallo scrittore stesso e trasmessi in Germania dalla BBC di Londra dal 1940 al 1945. Fino alla fine del 1942 Thomas Mann incitò i tedeschi, ritenuti schiavi rassegnati, a ribellarsi all’orrore del nazismo, ma prese poi coscienza che i suoi connazionali si impegnavano per la sua vittoria. Si sentì quindi non più solo esule, ma anche nemico della patria. Le trasmissioni radiofoniche e le note del suo diario, qui tradotte per la prima volta, sono la testimonianza di un’immensa illusione e della disperazione per una patria amata e perduta.
Giancarlo Cesana, L’interminabile ’68: un punto di vista cattolico – Liberilibri, Macerata 2025, pp. 129, euro 15,00
Come è cambiata la nostra società negli ultimi decenni? Come ha influito sulla sua struttura il radicale abbandono del cristianesimo? La scomparsa della religione cattolica dalle menti e dalla vita della maggior parte delle persone è un fenomeno storico di straordinaria importanza, troppo poco indagato nelle sue conseguenze sociali, politiche, morali. Giancarlo Cesana s’interroga su questo fenomeno con lucidità e spregiudicatezza, guardando agli ultimi sessant’anni di storia del nostro Paese, che l’hanno visto in prima fila in molti eventi importanti, da una prospettiva ormai sempre più minoritaria e proprio per questo originale e degna di riflessione.
Blythe Alice Raviola, Il Piemonte sabaudo: dal ducato transalpino all’Unità – il Mulino, Bologna 2025, pp. 192, euro 16,00
Tra Quattro e Cinquecento il ducato di Savoia, con la sua natura di dominio transalpino, si affacciò con sempre maggior vigore sullo scenario italiano ed europeo. Teatro delle guerre d’Italia, dopo la pace di Cateau-Cambrésis e durante il governo di Emanuele Filiberto, divenne un vero e proprio laboratorio di esperienze volte a consolidare lo Stato. La riorganizzazione delle milizie, la riforma della giustizia, il trasferimento della capitale da Chambéry a Torino furono fattori mediante i quali il ducato si rafforzò tanto internamente quanto in politica estera. Osservare questo processo significa però anche considerare la presenza determinante di altre realtà statuali in area subalpina – il marchesato di Saluzzo, il marchesato di Monferrato, numerosi feudi imperiali – e la complessa interazione con le grandi potenze, per prime la Spagna e la Francia. Analizzando le dinamiche territoriali e le riforme portate avanti dalla dinastia nel corso dell’età moderna, l’autrice ripercorre le vicende del ducato fino alle soglie dell’unità d’Italia, fra reggenze, guerre, alleanze, manifestazioni culturali che conferirono al Piemonte sabaudo un ruolo guida dopo l’incisiva parentesi napoleonica.
Tom Holland, Pax: guerra e pace nell’età dell’oro di Roma – Mondadori, Milano 2025, pp. 408, euro 28,00
La Pax romana è stata a lungo celebrata come l’età dell’oro di Roma. L’impero allora si estendeva dalla Scozia all’Arabia ed era lo stato «più ricco, formidabile e terrificante che fosse mai esistito». Prendendo in esame il periodo che va dal 69 d.C., quando quattro Cesari si avvicendarono in rapida successione al potere, fino alla morte di Adriano, settant’anni più tardi, lo storico britannico Tom Holland traccia un ritratto straordinario dell’Impero romano al culmine della sua grandezza e in tutta la sua gloria predatoria. Perché, per quanto la pace regnasse ovunque, nessuno ebbe mai dubbi su ciò su cui si fondava: «la pace era il frutto della vittoria – della vittoria eterna», ottenuta con l’esercizio di una violenza militare senza precedenti. Evocando un tempo in cui il mito andava fianco a fianco con la realtà e la predizione di un aruspice designava la sconfitta o la buona riuscita di una battaglia, Holland ci porta con sé nell’Urbe e oltre, nelle terre dei barbari, dalla Britannia alle rive del Danubio, dalla Giudea al Golfo Persico. Attraverso un sapiente intreccio di testimonianze storiche, colore e leggenda, ripercorre episodi tanto gloriosi e drammatici che la loro fama perdura ancora oggi: dall’assedio e la distruzione di Gerusalemme all’eruzione del Vesuvio che distrusse Ercolano e Pompei, dall’inaugurazione del Colosseo alle conquiste di Traiano. E ne mette in luce i protagonisti: imperatori, nobili e intellettuali, schiavi e soldati, falsi profeti e veri ribelli. Dalle strade della capitale ai regni oltre frontiera, Holland cattura la maestosità e le contraddizioni di un impero che fece ripetutamente sfoggio «della sua invincibilità, tanto che persino i suoi nemici arrivarono a credere che non avrebbe mai potuto essere sconfitto», guidando il lettore in una ricostruzione storica da cui emergono gli ingredienti di quella che, agli occhi futuri, sarebbe diventata l’idea di «romanità». Pax è un invito a esplorare l’Impero nel suo massimo splendore e nella sua inesorabile ferocia, illuminando un’epoca che continua a ispirare e affascinare.
Valeria Palumbo, La voce delle donne: pioniere e ispiratrici del giornalismo italiano – Laterza, Roma-Bari 2025, pp. 240, euro 19,00
La storia e le storie delle coraggiose pioniere – giornaliste, fotografe, inviate di guerra – che hanno dato un contributo importantissimo al giornalismo italiano e, con il loro impegno, hanno rivendicato forte il diritto delle donne, nel nostro Paese e non solo, a far sentire la loro voce. Già prima dell’Unità, per tutto l’Ottocento e sempre di più poi nel Novecento, furono numerose le italiane che vollero essere giornaliste, a tutti gli effetti e correndone tutti i pericoli, affrontando gli ostacoli di una misoginia ostinata e feroce. In questo la monarchia cosiddetta liberale e il fascismo si passarono il testimone e perfino la Repubblica, in barba alla sua Costituzione, fece fatica a cambiare passo. Di questo racconta questo libro: della scalata per appropriarsi di una voce pubblica, ma anche della libertà di movimento, del potere contrattuale, dell’autorevolezza che il giornalismo impone. L’esempio veniva dall’estero, da nomi grandissimi come George Sand e Nellie Bly. Ma, benché in Italia gli ostacoli furono spesso ceppi, molte furono anche da noi le protagoniste di un’epopea che è incredibilmente ricca di figure, alcune delle quali molto note: da Matilde Serao a Flavia Steno, da Olga Ossani a Oriana Fallaci. Era ora di raccontare questa storia e chiedersi se la parità di genere è stata raggiunta e grazie a quali battaglie.
Giuseppe Culicchia, Uccidere un fascista: Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio – Mondadori, Milano 2025, pp. 240, euro 19,00
Il 29 aprile 1975, dopo più di un mese e mezzo di sofferenze, moriva a Milano uno studente di diciott’anni di nome Sergio Ramelli. Il 13 marzo, mentre tornava a casa, era stato aggredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia. Sergio Ramelli era iscritto al Fronte della Gioventù, organizzazione di segno opposto, e aveva scritto un tema contro le Brigate Rosse, in cui sottolineava come i primi due omicidi politici commessi dalle Br non fossero stati condannati unanimemente dai partiti e dai giornali democratici: d’altra parte “uccidere un fascista non è reato” era lo slogan che, dopo le stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, infiammava cortei e manifestazioni antifasciste. Quel tema, finito nelle mani del collettivo della sua scuola, era stato affisso in bacheca con la scritta “Questo è il tema di un fascista”. E da quel momento Sergio Ramelli era stato ripetutamente oggetto di minacce e violenze. Fino all’agguato fatale di quel 13 marzo. A distanza di cinquant’anni, quella di Sergio Ramelli rimane una figura divisiva: un simbolo e un martire per coloro che condividono le sue idee e che a ogni anniversario della morte lo ricordano con la cerimonia del “Presente!”, oppure un fascista che, in quanto tale, anziché ricordato andrebbe rimosso. Ma chi era davvero Sergio Ramelli? Un picchiatore, com’è stato definito da coloro che cercano di giustificare i suoi aggressori? O uno studente come tanti che però aveva idee differenti da quelle della maggioranza dei suoi coetanei? Dopo i due volumi dedicati a Walter Alasia, brigatista che con Ramelli condivideva diverse cose oltre alla giovane età, Giuseppe Culicchia chiude la sua trilogia sugli anni di piombo con un libro che cerca di ricostruire la vita e la morte di un ragazzo ucciso dopo aver scritto un tema in classe, e di ricomporre le schegge di una deflagrazione che, cominciata con la bomba di piazza Fontana, ha attraversato tutto il paese e ha continuato a ferire e ammazzare per oltre un decennio.
Diego Zandel, Autodafé di un esule: nel ricordo delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata – Rubbettino, Soveria Mannelli 2025, pp. 96, euro 12,00
Il processo al capo della polizia politica a Fiume nel 1945, Oskar Piškulić, imputato di omicidio continuato e aggravato, avviato nel 1997, si concluse sette anni dopo, nel 2004. Diego Zandel, figlio di esuli fiumani fuggiti dalla Jugoslavia di Tito e nato in un campo profughi, venne a saperlo per caso quando un amico, giudice allo stesso processo, gli mandò per conoscenza la sentenza allo scopo di avere una sua opinione a riguardo. Diego scoprì così, con stupore, di non aver mai sentito parlare di quel processo, peraltro caratterizzato da clamorose reazioni mediatiche, politiche e diplomatiche. Perché? In Autodafé di un esule l’autore indaga sulle cause della propria ignoranza. E si chiede se fosse perché scriveva su «l’Unità» e «Paese Sera», giornali di una sinistra che giustificava le foibe e imputava gli esuli di essere fascisti fuggiti dal paradiso socialista di Tito. Gli sorge, così, il sospetto di aver ceduto a una sorta di anestesia che, opportunisticamente, lo abbia inibito dall’aprire una pagina che lo avrebbe reso malaccetto nell’ambiente. Con questo suo Autodafé di un esule Diego Zandel ripaga la sua “distanza” di allora, un buco della memoria che oggi ha per lui l’amaro sapore del tradimento e della complicità.
Gianni Mura, Il calcio di una volta – il Saggiatore, Milano 2025, pp. 96, euro 9,00
C’era una volta un calcio che oggi non esiste più. Era un calcio di eroi tragici e solitari. Di partite che finivano con il lancio di una monetina. Di carriere rapide e abbacinanti come la vita di una farfalla e di campioni che si preparavano alla partita con la serietà di chi andava in fabbrica. Era il calcio dei Gigi Riva, dei Paolo Rossi, dei George Best. Di Enzo Bearzot sulla panchina con in bocca una pipa di nervosismo, di Giovanni Galeone e Arrigo Sacchi, delle rocambolesche conferenze stampa di Giovanni Trapattoni. «Era un calcio impastato di ironia, di rabbia, di umanità…» Tra ritratti e ricordi, racconti e battute, le parole di Gianni Mura ci fanno vivere questa epopea come se ci trovassimo in mezzo al campo da gioco. Ecco allora che, trasfigurato dalla sua penna, Nereo Rocco diventa un «commissario Maigret» in cerca di successo, Maradona a Napoli si trasforma da uomo-squadra a «uomo-città», Michel Platini è uno «chansonnier » che non sa smettere di cantare, la Nazionale è l’incarnazione del tifo di un paese in cui «si vince in tanti e si perde da soli», mentre il suo maestro Gianni Brera diventa l’amico sagace con cui guardare la partita. Il calcio di una volta racchiude quarant’anni di passione vissuta sulla carta stampata: perché, come gli scrittori sanno bene, se è vero che ogni amore è impossibile da spiegare a parole, non per questo non vale la pena di tentare.