In libreria: Deportare e concentrare

copertina-paternosterL’autore di questo libro è Renzo Paternoster, storico collaboratore della nostra rivista. Il suo nuovo lavoro offre un’attenta e ampia analisi sugli universi concentrazionari, un saggio meticoloso che parte da Fenestrelle e si conclude a Guantánamo, passando per i Lager, i Gulag, i campi europei, asiatici, latinoamericani e africani.
Questo è un libro che non si può leggere tutto d’un fiato senza avere capogiri, perché necessita di pause, di respiro, per non lasciarsi trascinare nel vortice dell’orrore. Le testimonianze crudamente trascritte imbarazzano, creano sentimenti di sgomento e orrore, sconfinando nell’incredulità di storie abbondantemente piene di dolore umano, perché nei campi “tutto è possibile”.
Paternoster, basandosi sulla più recente storiografia, non si limita ad analizzare la genesi e la storia dei campi ma, attraverso testimonianze, alcune inedite da lui stesso raccolte, descrive il male dei campi e le condizioni di “non-vita” al loro interno. Nel saggio, come lo stesso autore avverte, il termine “campo” è usato in senso simbolico, poiché sono descritti anche altri luoghi come fortezze e prigioni in cui il fine appare identico a quello dei campi.
Nell’immaginario degli orrori che la storia politica ha prodotto, i campi occupano una posizione privilegiata. Nati e predisposti in un contesto di necessità militare, i campi si evolvono diventando la più alta forma di ingegneria sociale per rimodellare un ordine socio-politico.
Come tutti i lavori di Paternoster, anche questo si apre con un Prologo (Spiegare per conoscere) e si conclude con un Epilogo (Conoscere per capire), in cui rispettivamente l’autore avverte che «la sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico» [p. 15], concludendo che «i sistemi concentrazionari non sono buchi neri della storia moderna» [p. 406], ma strumenti “logici” di un potere che esclude, «il luogo perfetto dove disintegrare la pluralità, la soluzione ideale che permette di ri–territorializzare persone considerate “fuori posto”, la cui vita fisica e morale diventa irrilevante» [p. 407]. I campi, avverte Paternoster, non costituiscono neppure una prerogativa di regimi politici non democratici, manifestandosi in tempi, luoghi e contesti politici molto diversi.
Nel primo capitolo l’autore spiega il processo che ha portato dalle prigioni agli universi concentrazionari, illustrando la “forma campo” e le sue funzioni: «La logica dei campi di concentramento per civili risponde a sette criteri: isolare, punire, eliminare, sfruttare, correggere, terrorizzare, economizzare» [p. 26].
I campi, così come noi li conosciamo – un pezzo di terra recintato dove “parcheggiare” in massa persone considerate estranee e/o nemiche di un ordine politico-sociale – nascono tradizionalmente a Cuba nel 1896, durante la guerra ispano-americana. Il professor Paternoster, tuttavia, anticipa la loro genesi di una trentina d’anni, almeno come idea. In pratica è durante il Risorgimento italiano che compaiono luoghi come Fenestrelle, San Benigno in Genova, Livorno, Alessandria, Milano, Bergamo, San Mau­rizio Canavese e così via, dove si internano in massa i duosiciliani per “convincerli” e “rieducarli” al nuovo corso della storia d’Italia. Certo non sono campi in senso classico, ma l’idea dell’internamento in massa al fine di “rieducare” nasce proprio con i Savoia.
Il secondo capitolo tratta della deumanizzazione dei nemici, pratica indispensabile per decidere del loro futuro nei campi: internamento, lavori forzati o sterminio. Dopo i luoghi di internamento dei Savoia, la lunga storia prosegue con i primi classici modelli di campi di concentramento, tutti di origine coloniale (Cuba, Filippine, Sudafrica, Africa sudoccidentale), continuando con quelli istituiti durante la Prima Guerra Mondiale, quelli per gli armeni, quelli creati dalla dittatura portoghese di Salazar, i campi repubblicani e franchisti della Guerra di Spagna e quelli francesi della Repubblica di Vichy, sino a quelli fascisti di Mussolini.
L’autore presenta gli altri campi suddividendoli secondo le loro funzioni e includendoli in capitoli specifici: campi per sterminare (capitolo IV), come quelli nazisti e ustascia nell’Europa occupata; campi per rieducare e punire (capitolo V), come quelli degli Alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale, i Gulag sovietici, i Laogai cinesi, i campi e le prigioni dell’Europa comunista; i Gulag titini; i campi asiatici del Vietnam, Laos, Cambogia, Corea del Nord, Indonesia; le UMAP cubane; i campi del fascismo ellenico; i centri clandestini di detenzione latinoamericani.
Un capitolo, il sesto, è dedicato ai campi in cui gli internati diventano cavie umane per gli esperimenti scientifici per una guerra bio-batteriologica (Lager nazisti e Unità scientifiche giapponesi).
Infine il capitolo VII descrive i campi per isolare, da quelli creati da statunitensi, canadesi e inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale per separare dalla società gli alien enemies (i cittadini stranieri o di origine straniera residenti), a quelli istituiti durante la guerra nella ex Jugoslavia, sino ai campi prigione di Guantánamo e Israele.
La copiosa bibliografia conclude il lavoro.

In anteprima per i lettori di Storia in Network il Prologo, intitolato “Spiegare per conoscere”.
«Se vi dicono che la storia ha conosciuto fantasmi in carne e ossa voi direte che è falso. Eppure la storia non mente. Gli universi concentrazionari possono, da questo punto di vista, suggerire qualche risposta.
I campi (di internamento, di concentramento, di lavoro forzato, di sterminio) sono un prodotto della politica che si fa totalitaria, dispotica, violenta, padrona; manifestando la volontà di dominare la storia, per accelerarla, deviarla, modificarla, indirizzarla. Sono politica oscena, che cerca il trionfo anche nella carne e nel sangue. Sono il paradigma biopolitico della modernità. Infatti, è con la modernità che la violenza politica si esprime in forme sempre più degradanti dell’essere umano in quanto tale.
Attraverso la violenza si assegnano nell’ordine della politica determinati valori alla vita e alla morte, e si decide quale posto è dato alla vita, alla morte, al corpo umano (in particolare al corpo da uccidere, al corpo–cadavere, al corpo violentato, al corpo imprigionato, al corpo scomparso, al corposuppliziato). La politica, così, si trasforma in biopolitica, e il corpo dell’indi­viduo diventa la posta in gioco delle strategie politiche. La biopolitica negativa non è solo morte, ma anche un lavorio sul corpo della vittima, che va ben al di là della morte stessa.
La peculiare esperienza dei campi di concentramento e affini è direttamente connessa alla volontà di dominare la storia, anche attraverso la coincidenza tra il corpo biologico dell’individuo e la sua dimensione politica.
Nella storia, i campi di concentramento sono serviti per demolire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per annichilire l’essere umano nel corpo e nella personalità. Insomma, si è trattato «di costruire un’umanità riunificata e purificata, non antagonista» [S. Courtois, Perché?, in S. Courtois (a cura di), Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, Lafont, Paris 1997, trad. it., Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 2000, p. 698]. In questo modo, «da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso una ideologia dell’eliminazione e […] dello sterminio di tutti gli elementi impuri» [Ibidem], oppure della loro rieducazione e del loro controllo.
Di fronte a questi contesti di violenza politica totale, due importanti aspetti sembrano intrecciarsi: la necessità di spiegare per conoscere, il bisogno di conoscere per capire. Naturalmente conoscere e capire non devono essere equivocati: non si tratta di giustificare (conoscere non vuol dire legittimare e, soprattutto, capire non è assolvere), ma di intenderli come comportamenti prettamente umani, contro la comune concezione che riconduce la violenza a inumanità, malvagità, follia, qualcosa che sta di là dalla cultura e dalla civiltà. La violenza e la crudeltà politica non sono categorie residuali della civiltà e della cultura, esse appartengono a ogni epoca e continente: «Quando l’uomo si riunì in comunità e si diede istituzioni e leggi, divenne, a detta di Aristotele, un «animale politico» e le sintesi politiche si susseguirono, buone o cattive, prosperando o degenerando, ma diffondendo anche violenza provocata da corse al potere e spietate competizioni fra nuovi aspiranti […]. La minaccia e, come estrema risorsa, l’uso della violenza, oggi come ieri, fanno parte del «bagaglio» con cui individui o gruppi cercano di determinare il cambiamento o di salvaguardare lo status quo». [E. Cecchini, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1994, pp. 6–7.]
Attraverso i campi, la violenza politica si è espressa e si esprime in forme sempre più degradanti e criminali.
È ragionevole creare una scala di valori al negativo sui campi? No, rispondo subito, non ci può essere una gerarchia dell’or­rore, non c’è nessuna possibilità di stabilire una graduatoria del male. Ogni campo rappresenta una precisa forma di barbarie, al di là del progetto politico che può averla indotta.
Che il razzismo nazista si esprimesse su base antropologica e quello comunista su fondamenti socio–economici, cambia i fatti, ma non i termini della questione, e nemmeno la sostanza delle moda­lità criminali. Si perdeva la dignità di esseri umani tanto ad Auschwitz quanto a Kolima, Phnom Penh, Goli Otok, Pitesti e così via. La sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico, rientrando nella legalità giuridica e morale di quello regime. Perciò ogni classificazione crea confusione e disturba, facendo perdere l’uguale dignità alle vittime.
Prima di procedere nel repertorio dell’arbitrio dell’uomo sull’uomo, credo sia utile fare una precisazione. In questo lavoro, non mi propongo di intraprendere una ricostruzione completa della storia di tutti i campi in tutti i Paesi in cui essi sono esistiti o ancora sopravvivono. Vorrei invece esporre il senso del fenomeno concentrazionario, indagando sulla sua evoluzione, sulla non–vita al loro interno, lasciando anche spazio alle memorie dei sopravvissuti, di chi è sceso negli abissi dell’Umanità e ha avuto la fortuna di risalire. Per questo ho utilizzato il termine “campo” in senso simbolico, per rappresentare nel suo insieme una variegata e complessa realtà fatta non solo di campi, così come la storia ci ha fatto conoscere, ma anche di altri luoghi come prigioni e fortezze in cui l’intenzione appare identica come nei campi.
Il saggio che il lettore ha tra le mani è frutto di lunghissimi anni di ricerca e studio. Tutto è iniziato dopo l’incontro casuale in Romania con il signor Petru, ex prigioniero del carcere di Pitesti. Non volevo credere a quello che egli mi stava raccontando, dei terribili supplizi e delle blasfeme parodie per rieducare anche l’anima del prigioniero, subite in quello che egli ha definito “la prigione di concentramento del corpo e dello spirito”. È seguita così una lunga maturazione. L’emozione provata durante una visita ad Auschwitz e Birkenau mi ha dato l’impulso definitivo. Ho così iniziato una lunga ricerca dei sopravvissuti, non tanto dei Lager nazisti (esiste un’ampia memorialistica riferita ai campi nazisti), quanto di altri luoghi di internamento e concentramento.
Ho così trovato chi ha vissuto l’esperienza dell’assurdo, ma molti non hanno voluto raccontare per vergogna e per “mancanza intenzionale” di memoria. Di quelle persone che lo hanno fatto, alcuni hanno voluto restare anonimi, pregandomi di non citarli, nemmeno con un nome di copertura. Non vi nascondo che ho provato imbarazzo ad ascoltare l’inimma­gi­nabile. Nei confronti di queste persone ho dunque contratto impagabili debiti umani e di riconoscenza. Allo stesso tempo mi scuso con loro, per avergli testardamente fatto rivivere i tormenti, interrogando le loro profonde ferite.
In questi lunghi anni di ricerca e studio, ho anche contratto debiti affettivi e intellettuali con persone che mi hanno offerto premurosa attenzione attraverso la ricerca e il contatto con ex internati, significativi suggerimenti e spunti di riflessione, mettendomi pure a disposizione le loro conoscenze e i loro materiali. Tra questi Gaetano Paolillo, Slavica Mitić, Julio Mariangel Toledo, Bosko Gajic, Mila Mihajlovic, Vasso Ana e il signor Xiong. A tutti esprimo la mia gratitudine.
Ovviamente ringrazio gli autori dei saggi che ho preso in considerazione e che ho, con piacere e dovere, citato nelle note e nell’ampia bibliografia.
La mia riconoscenza va pure a tutte quelle persone, sono davvero tante, che mi hanno aiutato a tradurre testi da lingue per me incomprensibili, beneficiando anche della loro pazienza.
Un ulteriore prezioso supporto mi è stato offerto da Concetta Tortora, che ringrazio per la lettura della bozza alla ricerca di errori e imperfezioni. Ovviamente tutte le pecche rimaste nel testo, come ogni sconvenienza e omissione sono, naturalmente, mia esclusiva responsabilità.
Ora prepariamoci a scendere negli abissi dell’Umanità».
Renzo Paternoster, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione – Aracne, Roma 2017

 

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J. Chapoutot, Il nazismo e l’Antichità – Einaudi, Torino 2017, pp. 536, euro 34,00
«Non abbiamo un passato», diceva Hitler, rammaricandosi che gli archeologi SS si ostinassero in ricerche nei boschi della Germania, per poi trovarvi soltanto delle brocche orrende. Il passato della razza, quello che doveva riempire d’orgoglio i tedeschi, era da rintracciare in Grecia e a Roma. Cosa c’è di meglio di Sparta per costruire una società e un uomo nuovo? Quale miglior esempio di Roma per costruire un Impero? E quale piú efficace avvertimento delle guerre che opposero la razza nordica agli assalti della Persia e di Cartagine? L’Antichità greca e romana insegnava come perpetuarsi attraverso una memoria monumentale ed eroica, quella del mito. Il Reich succedette ad Atene e Roma in questa lotta millenaria, nella quale dovette fronteggiare gli stessi nemici e pericoli. Dai canoni dell’ideologia nazista, a partire dal Mein Kampf, agli edifici di Norimberga, passando attraverso i manuali scolastici, il cinema e le arti plastiche, l’Antichità greca e romana venne riletta e riscritta per fornire al lettore, alunno, studente, spettatore e suddito del nuovo Impero, un paradigma ideologico saldamente impiantato sulle due grandi civiltà del mondo classico. Johann Chapoutot esplora il cuore del progetto totalitario nazista: annettersi non solo gli spazi fisici del mondo, ma impadronirsi, per forgiare l’uomo nuovo, anche del passato, assegnandogli una funzione di esaltazione, modello e profetico avvertimento.

P. Paci, Caporetto andata e ritorno. Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave – Corbaccio, Milano 2017, pp. 288, euro 19,60
Dove si trova Caporetto? Pochi lo sanno. Il villaggio nella valle dell’Isonzo, oggi conosciuto con il nome sloveno di Kobarid, è un buco nero della geografia e della storia d’Italia. Il Piave e il Monte Grappa invece tutti sanno dove sono: sotto casa. Impressi per sempre nella toponomastica dei nostri paesi e città. Memorie censurate, nomi trasfigurati dal mito della Vittoria. Ma Caporetto, Piave, Monte Grappa sono (anche) luoghi reali. Sono il punto di partenza e il traguardo di un viaggio durato un anno, dall’ottobre 1917 al novembre 1918. Un anno di invasione, di stragi, di fame, durante il quale l’Italia ha rischiato di perdere sé stessa. Per ritrovare infine, contro ogni previsione, una sua controversa identità.
Paolo Paci ci conduce passo passo nell’itinerario dalle Alpi Giulie ai contrafforti delle Prealpi venete, seguendo le tracce di un esercito in rotta e di un altro in trionfale avanzata. Tra ossari e diari di guerra, canzoni e trincee, film e musei spontanei, ritroviamo la verità geografica dei luoghi. Scoprendo, nel racconto degli abitanti (nipoti e pronipoti degli antichi soldati), come la memoria della Grande Guerra sia ancora straordinariamente viva. Un po’ business, un po’ nostalgia. E, in fondo, frammento del nostro Dna.

H Abdel-Samad, Fascismo islamico – Garzanti, Milano 2017, pp. 234, euro 16,00
Il 4 giugno 2013, lo storico Hamed Abdel-Samad torna in Egitto, il paese in cui è nato, per tenere una conferenza sulle relazioni tra islamismo contemporaneo e fascismo. È la sua condanna a morte: un professore dell’università al-Azhar del Cairo e i leader del movimento terroristico al-Gama’at al-Islamiyya lanciano una fatwa contro di lui, accusandolo di eresia. Da quel momento Abdel-Samad vive sotto scorta in Germania. Fascismo islamico è l’ideale continuazione di quella conferenza, e approfondisce la sua analisi storica sui punti in comune condivisi dall’islamismo e le terribili ideologie del Novecento di Hitler e Mussolini: sogni imperialisti di dominazione mondiale, fede nella propria superiorità e disprezzo per il resto dell’umanità, violenza, antisemitismo. In questo libro, Hamed Abdel-Samad traccia inoltre quelle che lui considera le tendenze fasciste dell’estremismo islamico contemporaneo, quelle fondamenta su cui si basano organizzazioni come i Fratelli Musulmani, Hamas, Hezbollah, ISIS, documentando una tesi tanto provocatoria quanto oggi necessaria.

M. Serena Mazzi, Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo – il Mulino, Bologna 2017, pp. 184, euro 14,00
«Si può fuggire inseguendo un miraggio, una speranza di vita e di lavoro migliore. Si voltano le spalle a mariti violenti. Si schiude il battente di un convento nel quale non si voleva entrare e dove ogni giorno impone la sua pena. Si tenta di andare lontano da creditori e sfruttatori. Si scappa dalle case altrui, dalla servitù e dalla schiavitù, dalle mani rapaci dei padroni, dalla mancanza di diritti. Oppure si abbandona una casa, una famiglia, per tentare la sorte in un altrove indefinito, per un richiamo di curiosità, per non rimirare ogni giorno lo stesso limitato orizzonte».
Nel Medioevo le donne vivevano in una rigida sottomissione. Non assecondare la volontà della famiglia, non ubbidire agli uomini, padri, mariti o padroni, manifestare indipendenza di giudizio o di comportamento facevano di loro delle ribelli. Ma non sono mancate sante, regine, badesse, semplici monache, umili contadine, serve, schiave, eretiche, streghe, prostitute che hanno scelto di sottrarsi a destini segnati, resistendo, opponendosi, fuggendo. Donne decise a viaggiare, conoscere, insegnare, lavorare, combattere, predicare. O semplicemente a difendersi da un marito violento, da un padrone brutale. O a salvarsi la vita, scampando ai roghi dell’Inquisizione. Da Margery Kempe a Giovanna d’Arco, da santa Brigida a Eleonora d’Aquitania, alle tante ignote o dimenticate donne in fuga verso la libertà.

C. Merridale, Lenin sul treno – UTET, Torino 2017, pp. 320, euro 20,00
Il 3 aprile 1917, dopo anni di esilio, Vladimir Il’ič Ul’janov, noto tra i rivoluzionari come Lenin, parte da Zurigo per far ritorno in Russia. Ad accoglierlo alla stazione Finlandia di Pietrogrado un’enorme folla festante. Dopo un lungo ed estenuante viaggio attraverso la Germania, la Svezia e la Lapponia, Lenin non appare affatto stanco. Attende questo momento da anni e a giudicare dal tripudio di bandiere rosse e manifesti che ricoprono le vie intorno alla stazione il suo arrivo è celebrato come quello di un messia.
Nell’Europa sfiancata dalla Grande guerra, la Triplice alleanza e la Triplice intesa si fronteggiano ormai da anni e il conflitto sembra trascinarsi senza una fine. Gli uomini al fronte sono esausti e i governi ossessionati dalla ricerca di nuovi armamenti, nuove strategie, nuove alleanze.
Spezzare le coalizioni è diventato un obiettivo primario e la contropropaganda nei paesi nemici l’arma principale. Nella Germania del Kaiser Guglielmo II, un gruppo di funzionari ha un’idea brillante: perché non alimentare il caos che domina in Russia favorendo il ritorno di Lenin e dei suoi compagni?
Mentre il treno piombato messo a disposizione dai tedeschi taglia da sud a nord l’Europa dilaniata dalla guerra, le grandi potenze occidentali danno il via alle loro macchinazioni: agenti segreti, loschi affaristi, militari ribelli e idealisti appassionati, cominciano a vorticare intorno all’impassibile leader bolscevico.
Cento anni dopo, Catherine Merridale ha scritto un libro di storia che si legge come un’avvincente spy story. La grande epopea della rivoluzione e il racconto di un viaggio si intersecano, restituendoci il ritratto di un uomo che si apprestava a rivedere il suo paese dopo molti anni. Un semplice ritorno a casa destinato a cambiare il mondo intero.

M. Liverani, Assiria. La preistoria dell’imperialismo – Laterza, Roma-Baro 2017, pp. 402, euro 22,00
L’imperialismo è la tendenza al dominio con sfruttamento e ogni civiltà che si vuole costituire in impero ha bisogno di dotarsi di una propria ideologia. Pensavamo fosse un fenomeno della modernità, portato della concentrazione economica e finanziaria, dei monopoli e delle multinazionali. Invece è una storia che comincia nell’antica Assiria. Un impero è una formazione politico-territoriale che si assegna lo scopo di allargare incessantemente la propria frontiera, di assoggettare (per conquista diretta o per controllo indiretto) il resto del mondo, fino a far coincidere la propria estensione con quella dell’ecumene tutto. La sua ‘missione’ è un progetto ideale che si fonda su una teoria politica (quando non teologica) e si articola in principi ideali. Questi variano nel tempo, oscillando soprattutto tra il fondamento religioso e quello civile. Mario Liverani, uno dei maggiori studiosi del Vicino Oriente antico, rivoluziona la storia dell’antica Assiria, mostrando come qui siano emersi per la prima volta alcuni dei tratti caratteristici comuni a tutti gli imperi comparsi nella storia del mondo. Da Roma a Bisanzio, dall’impero britannico all’egemonia USA: il dominio con ogni mezzo disponibile per ricavarne vantaggi, la colpevolizzazione del nemico, l’attribuzione di una valenza universale alla propria missione hanno sempre accompagnato la vita di ogni impero.

G. Ravegnani, Galla Placidia – il Mulino, Bologna 2017, pp. 136, euro 11,50
Nella storia avventurosa di Galla Placidia (ca. 392-450) si rispecchia il dissolvimento dell’impero romano d’occidente. Figlia dell’imperatore Teodosio I, nel 410 fu presa in ostaggio dai Visigoti, condotta in Gallia, e maritata al re Ataulfo. Restituita alla corte di Ravenna, sposò il generale romano Flavio Costanzo. Morto questo, fu esiliata dal fratellastro Onorio. Riparò a Costantinopoli e rientrò in Italia al seguito di un esercito inviato dall’Oriente per deporre l’usurpatore insediatosi sul trono alla morte di Onorio. Divenuto imperatore il figlio Valentiniano in minore età, Galla Placidia si trovò ad esercitare il potere supremo, mantenendo poi anche in seguito una notevole influenza sulla vita politica.

Ahron Bregman, La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati – Einaudi, Torino 2017, pp. 346, euro 33,00
Nella breve ma decisiva Guerra dei sei giorni del 1967, Israele, con una mossa che avrebbe modificato per sempre la mappa del Medio Oriente, ha conquistato la Cisgiordania, le Alture del Golan, la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai. La vittoria maledetta è la prima storia completa delle turbolente conseguenze di quella guerra: un’occupazione militare dei territori palestinesi che compie adesso cinquant’anni. Fondato su documenti tratti da fonti di alto livello finora inaccessibili, il libro offre una cronaca cruda e avvincente di come la promessa di Israele di una «occupazione leggera» rapidamente sia stata disattesa e di quali siano stati i tormentati tentativi diplomatici di concluderla. Bregman porta nuova luce sui momenti critici del processo di pace, conducendoci dietro le quinte delle decisioni che hanno determinato il destino dei Territori. Ci svela inoltre come siano state mancate opportunità cruciali di risolvere il conflitto e la fine dell’occupazione.