In libreria: Babij Jar

bj«Dio sia lodato, questo regime di pezzenti è finito» dice nonno Semerik, che il potere sovietico lo odiava con tutta l’anima, quando i tedeschi occupano Kiev nel settembre del 1941. «Ora si comincia a vivere». Tolik ha solo dodici anni, ma non gli ci vorrà molto per capire che le speranze del nonno sono vane. Ben presto Babij Jar, la forra nei pressi di Kiev, diventerà la tomba della popolazione ebraica, e poi di zingari, di attivisti sovietici, di nazionalisti ucraini, dei calciatori della Dinamo che si sono rifiutati di farsi battere dalla squadra delle Forze armate tedesche, di chi ha rubato del pane. E mentre da Babij Jar giungono senza tregua i colpi della mitragliatrice, mentre gli attentati organizzati dagli agenti dell ‘Nkvd devastano la via principale e persino la venerata cittadella-monastero, mentre cominciano le deportazioni, Kiev diventa una città di mendicanti a caccia di cibo. Per Tolik, che aveva conosciuto la terribile fame staliniana, non potrebbe essere più chiaro: tedeschi e sovietici si stanno scontrando «come il martello e l’incudine», e in mezzo ci sono gli insignificanti «omuncoli» – e lui, in preda a un «mare di disperata angoscia animale». L’unica via d’uscita è assecondare la furibonda vitalità che lo pervade, sopravvivere in barba a tutto, crescere. Crescere per odiare chi trasforma il mondo in una prigione, in un «frantoio per pietre per denunciare violenze e menzogne. Anche le ultime, atroci: dopo la liberazione di Kiev, Tolik e sua madre, in quanto persone «vissute sotto l’occupazione », verranno marchiati come «merce scadente» – e il massacro di Babij Jar cancellato.
Pubblicato nel 1966 dalla rivista “Junost” dopo essere stato sottoposto a una brutale censura dalle autorità sovietiche, Babij Jar è presentato nella versione integrale e ampliata apparsa nel 1970 in seguito alla fuga dell’autore in Occidente.
Anatolij Kuznecov, Babij Jar – Adelphi, Milano 2019, pp. 454, euro 22,00

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Gastone Breccia, Missione fallita: la sconfitta dell’Occidente in Afghanistan – il Mulino, Bologna 2020, pp. 176, euro 15,00
Il 7 ottobre 2001 gli Stati Uniti attaccarono l’Emirato Islamico dell’Afghanistan, allora recente creazione del movimento dei talebani che avevano ospitato e protetto il gruppo estremista al-Qa’ida e il suo capo Osama bin Laden, responsabili dell’attacco contro le Twin Towers. Oggi, la guerra sta per concludersi. Le speranze di costruire un paese stabile, democratico, capace di integrarsi nell’economia globale sono tramontate da tempo. Gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato non soltanto non sono riusciti a piegare la resistenza dei talebani e a produrre ordine e sicurezza in Afghanistan, ma hanno perso buona parte della loro credibilità militare e politica.

Giancristiano Desiderio, Croce ed Einaudi: teoria e pratica del liberalismo – Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020, pp. 102, euro 10,00
Nella storia della cultura italiana vi sono vicende di uomini e di idee molto citate ma molto poco davvero conosciute. La celebre polemica tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi sul rapporto tra liberismo e liberalismo è una di queste. Tutt’altro, infatti, che un duro scontro polemico senza volontà d’intendersi, la celebre polemica fu una civilissima discussione tra i due maggiori interpreti della cultura liberale italiana che ancora oggi, se conosciuta a partire dai testi e dal contesto, è in grado per noi abitanti del terzo millennio di essere un punto di riferimento per schiarire e ingagliardire il concetto di libertà e la nostra stessa fragile democrazia rappresentativa. Qui, nelle pagine che seguono, la discussione tra il filosofo e l’economista è ricostruita per la prima volta nella genesi, nello sviluppo, nella conclusione e nel suo significato considerando sia i testi sia le lettere sia gli avvenimenti degli anni Venti, Trenta, Quaranta del secolo scorso in cui i veri nemici di Croce e Einaudi, e di tutti gli uomini liberi, erano le varie forme di totalitarismo, dal nazionalsocialismo tedesco al comunismo sovietico. Non mancano le sorprese, sia perché le posizioni di Croce e Einaudi sono meno distanti di quanto non si immagini, sia perché la conclusione della polemica, mai realmente considerata, appare oggi come un inedito, sia perché la polemica trova una sua composizione nella relazione tra la teoria e la pratica del liberalismo che, non casualmente, dà il titolo al libro.

AA. VV, Il memoriale di Aldo Moro, 1978, Edizione critica – De Luca Editori, 2020, pp. 600, euro 60,00
Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (16 marzo – 9 maggio 1978) ruotano attorno a una sola azione dell’ostaggio: il suo scrivere. Quell’agire incise però su tutto ciò che accadde. Non si trattò solo delle circa cento lettere, poche delle quali giunsero ai loro destinatari, ma anche dei 237 fogli del cosiddetto Memoriale, ovvero i testi elaborati nell’ambito dell’interrogatorio condotto dal sedicente tribunale del popolo, ove Moro scrisse dei tre decenni precedenti giungendo fino alla sua stessa prigionia. L’originale è scomparso, ma è noto attraverso le fotocopie che dell’autografo fecero le Brigate rosse. Quel testo, mutilato e occultato per ben dodici anni dopo l’assassinio, lo si è potuto leggere sempre con enormi difficoltà e mai direttamente su quegli anomali “originali”. Divenuto pienamente un bene tutelato dal Ministero per i beni e le attività culturali e dalla sua Amministrazione degli archivi, il Memoriale può oggi essere studiato come una fonte della nostra storia. Qui per la prima volta è edito nella sua integrità: nelle sue cancellature, nelle sue revisioni, nei ripensamenti di un autore prigioniero e inquisito tra la vita e la morte. La ricostruzione del testo e della sua organizzazione, così come dei tempi della composizione degli scritti, permette di seguire Moro e le sue reazioni durante il sequestro, nei giorni in cui il Paese attraversò la crisi più grave del dopoguerra: il Memoriale acquista così il suo pieno significato. È accompagnato qui dai contributi di un gruppo autorevole di studiosi coordinato da Michele Di Sivo. L’edizione restituisce quindi le condizioni e il senso d’un testo drammatico e lucido per comprendere un evento decisivo della storia dell’Italia repubblicana.

Giovanni Marginesu, Il costo del Partenone, appalti e affari dell’arte greca – Salerno Editrice, Roma, 2020, pp. 172, euro 15,00
Il Partenone, il più celebrato dei templi greci, costruito sull’Acropoli nel V secolo a.C. in onore di Atena, custodiva una statua colossale della dea in oro e avorio, simbolo dell’egemonia della città sull’Egeo. Ma quanto costò alle casse pubbliche un’opera del genere? Un’ipotesi è che tempio e statua richiedessero 9.000.000 di dracme d’argento.  Era quanto occorreva per retribuire una giornata di lavoro di 9 milioni di operai specializzati, o quanto bastava per allestire una flotta imperiale di 1500 triremi.
La spesa enorme fece scandalo e innescò una polemica su costi e benefici. Con l’ispiratore del progetto, il grande Pericle, finì sotto accusa la gestione democratica di Atene. Eppure, nel parossismo della vicenda, si nascondeva una verità scomoda: la complicità dell’arte con uno degli aspetti più inesplorati del mondo greco, quello economico-materiale. Aprendo questo libro il lettore ripercorrerà le tappe di un percorso nell’arte attraverso i retroscena economici dei meccanismi di produzione. Avrà l’impressione di scoprire relazioni pericolose, perché, a partire dall’Acropoli di Atene, dietro l’esperienza della perfezione si cela una delle piú seducenti forme assunte dal denaro nel corso dei secoli: quella dell’arte.

Giorgio Pratolongo, «Noi conosciamo i sistemi di Hitler», Il ghetto di Varsavia e l’insurrezione del 1943: voci e volti di una rivolta antifascista – Red Star Press, 2020, pp. 96, euro 10,00
Il 19 aprile del 1943 il ghetto ebraico di Varsavia insorge. Uomini e donne, forti prima di tutto della loro determinazione, attaccano le SS. È solo il prologo di una rivolta destinata a restare nella storia: le strade del ghetto, trasformate in un dedalo di cunicoli segreti e di barricate, diventano una roccaforte decisa a lasciare sul terreno il maggior numero possibile di nazisti. Per oltre un mese, le milizie ebraiche, insieme a una parte della resistenza polacca, riescono a tenere testa a ciò che si credeva essere l’esercito più potente del mondo, facendo aleggiare sui soldati di Hitler il presagio della futura sconfitta. Una storia terribile a cui il libro di Pratolongo, ricostruendo le voci e i volti dei protagonisti, rende la dovuta giustizia.

Attilio Brilli, Le viaggiatrici del Grand Tour: storie, amori, avventure – il Mulino, Bologna, 2020, pp. 256, euro 16,00
Non solo occasione di formazione culturale e di svago, per il mondo femminile il Grand Tour ha rappresentato quasi sempre un momento cruciale dell’esistenza e spesso ha incarnato un drammatico gesto di liberazione. Parlando delle loro esperienze di viaggio, dame settecentesche e poi esponenti della borghesia, da Anne-Marie du Boccage a Madame de Staël, a Mary Shelley, raccontano romantiche storie d’amore, ma anche intrighi degni di un romanzo nero, sullo sfondo di panorami naturali e artistici che risaltano nella loro luminosa impassibilità. Come insegnano Sydney Morgan o Anna Jameson, le viaggiatrici manifestano una sensibilità che sa insinuarsi nelle pieghe più riposte di un paese per ascoltarne senza pregiudizi le voci, indagarne le condizioni politiche, gli usi e i costumi e scoprirne le insondate ricchezze.

Sarah Rey, Le lacrime di Roma: il potere del pianto nel mondo antico – Einaudi, Torino, 2020, pp. 164, euro 24,00
Tesi di fondo di questo libro è che nell’antica Roma il pianto è alquanto diffuso e accompagna gli avvenimenti della vita pubblica e privata. Si tratta di esercitare un potere politico e simbolico: per aumentare la loro autorità, senatori, imperatori e brillanti condottieri non esitano a versare lacrime. Esse vengono usate nelle piú svariate situazioni: per esprimere la sofferenza del lutto, la volontà di espiazione quando oscuri presagi appaiono minacciosi, la paura di un’esclusione sociale per cui si invoca la tradizione della propria famiglia; per manifestare la propria grandezza d’animo davanti agli sconfitti. L’autrice si sofferma poi sul messaggio politico che le lacrime diffondono, sul momento calibrato in cui compaiono. Esamina con cura testi e tradizioni, sconfessando l’immagine monolitica dei romani come un popolo duro e crudele. Il tema del libro ha un interesse generale, in un momento in cui si recupera lo studio delle emozioni, la loro spontaneità o la loro calcolata esternazione, il loro ruolo nelle traiettorie individuali nelle relazioni interpersonali.

Andrea Cotticelli, La Propaganda Italiana nella Grande Guerra – I libri del Borghese, 2011, pp. 130, euro 13,00
Dopo l’attentato di Sarajevo, quando ormai gli avvenimenti precipitano e l’Europa si appresta a diventare un campo di battaglia, in Italia si accende la disputa tra neutralisti ed interventisti e la stampa si divide tra i due schieramenti. Con l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio 1915, la stampa si prodiga in articoli pieni di entusiasmo volti a far rivivere negli animi sentimenti patriottici come il mai accantonato desiderio di portare a compimento il Risorgimento Italiano. Da questo momento entra in funzione la macchina della propaganda controllata dallo Stato. Gli avvenimenti vengono riferiti in modo strumentale a veicolare un’immagine ottimistica del conflitto. Ai freddi bollettini di guerra si alternano articoli con un misto di cronaca, impressioni generiche e descrizione dell’ambiente sempre in senso favorevole e sotto l’occhio vigile della censura, a tal punto che spesso si possono rinvenire sulle pagine dei quotidiani spazi completamente bianchi là dove l’inviato aveva scritto articoli non graditi. La stampa esalta con enfasi le truppe quando avanzano verso l’alto delle vette alpine e con altrettanta enfasi ne celebra le capacità di resistenza quando subiscono le controffensive nemiche.
«Vittoria! Vittoria! Vittoria» sono le parole che echeggiano sulle testate dei giornali quando i militari italiani entrano a Gorizia e le pagine si riempiono di articoli colmi di ammirazione per gli indomiti soldati, mentre cartoline di propaganda diffondono immagini satiriche sulla scomposta ritirata degli austriaci.
Nell’ottobre 1917, dopo Caporetto, i giornali non abbandonano i toni di incoraggiamento, nella consapevolezza che l’esercito, «al quale sono affidati l’onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il proprio dovere». Quando il 3 novembre 1918 le truppe italiane entrano a Trento e Trieste, la stampa, forse questa volta senza bisogno di toni propagandistici e tagli di censura, glorifica la gioia della Nazione intera: «L’impeto con cui i cittadini, anche senza conoscersi, hanno sentito il bisogno di abbracciarsi piangendo, ha ben dimostrato che queste emozioni saranno indimenticabili: e le generazioni future a cui ne tramanderemo il ricordo ci invidieranno queste ore sublimi nelle quali ci è sembrato di sognare».