In libreria: Antitotalitari d’Italia

teodoriMassimo Teodori, già docente di storia e istituzioni degli Stati Uniti in vari atenei, è stato nel 1962 tra i rifondatori del Partito radicale dopo lo scioglimento di quello nato nel 1955 da una scissione dal Partito liberale. Parlamentare radicale per tre legislature, si è distinto per le battaglie sui diritti civili. In questo libro, che non vuole essere un saggio teorico ma solo “un memoir senza pretese sistematiche”, ricapitola i leader, gli intellettuali, i gruppi e i movimenti che in Italia hanno apertamente espresso una visione antitotalitaria della realtà nazionale e internazionale, nel senso che ritenevano i tre sistemi politici e ideologici affermatisi nel Novecento – fascismo, nazismo e comunismo – non solo antitetici alla democrazia, ma anche affini per un intenso controllo ideologico sulla popolazione. Secondo Teodori gli scenari politici contemporanei, nei quali si affermano spesso regimi autocratici e forme variegate di populismo illiberale, inducono a una riflessione sul peso che l’opposizione al totalitarismo ha avuto nella storia del nostro paese.
Nel secondo dopoguerra si è tentato di identificare l’antifascismo con il Partico comunista e l’anticomunismo con una posizione reazionaria. Nella visione di gran parte degli intellettuali di sinistra, scrive l’autore, la storia d’Italia del Novecento è stata rappresentata come una dialettica tra il rosso e il nero, tra i comunisti e i fascisti, “in cui non c’era posto per altre posizioni come quelle degli anticomunisti democratici che pure avevano giocato un ruolo significativo nella nascita della Repubblica”. Peraltro, in Italia, nella seconda decade del Novecento, di fronte al fascismo alcuni importanti leader politici (tra i quali ad esempio Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Luigi Salvatorelli) avevano ben compreso che il regime che stava sostituendo lo Stato liberale era nuovo e di tipo “totalitario”. E usarono il termine “totalitario” per connotare il fascismo in parallelo al bolscevismo. Negli anni Trenta, all’esplosione del nazismo, il termine “totalitario” fu esteso al sistema che aveva preso il potere in Germania.  Anche altre personalità con diversi orientamenti politici – liberali, radicali, repubblicani, cristiani, socialisti – negli anni Venti e Trenta del Novecento avevano individuato nelle dittature fascista e nazista e nello stalinismo comunista caratteri simili.
È nella Resistenza che sul totalitarismo si divarica la linea politica degli antifascisti a guida comunista da quella degli antifascisti democratici. Sconfitto il nazifascismo, il ruolo del nuovo Partito comunista guidato da Palmiro Togliatti restava ambiguo sulla questione internazionale della libertà. Furono gli antifascisti democratici a contestare il legame con Mosca di un Pci che presentava il duplice volto nazionale-parlamentare da un lato e ossequioso verso l’Unione Sovietica di Stalin dall’altro.
L’espansionismo culturale del Pci si rivolgeva agli intellettuali di ogni orientamento con l’agitazione delle parole d’ordine pacifiste, antiatomiche e antiamericane. Nel 1948 il Cominform lanciava in Polonia il “Congresso mondiale degli intellettuali per la pace” patrocinato da personalità come Julien Benda e Pablo Picasso, e tra gli italiani Emilio Sereni, Salvatore Quasimodo, Goffredo Petrassi e Antonio Banfi.
In reazione alla incalzante iniziativa comunista, gli intellettuali antitotalitari si organizzarono per avere un sufficiente peso nelle scelte politiche.  Nel 1950 si costituì a Berlino il Congress for Cultural Freedom, alla cui nascita contribuirono intellettuali provenienti da diversi orizzonti, ex comunisti che avevano combattuto il fascismo, resistenti antinazisti, federalisti europei e reduci dai gulag di Stalin. Fece seguito al Congresso internazionale la nascita a Roma della “Associazione italiana per la libertà della cultura” (AILC) promossa da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte alla quale aderirono noti intellettuali laici e cattolici, tra i quali Guido Calogero, Mario Ferrara, Adriano Olivetti, Mario Pannunzio, Ferruccio Parri, Ernesto Rossi e Lionello Venturi, e che fu sostenuta da autorevoli figure quali Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Edoardo Ruffini, Luigi Salvatorelli e Umberto Zanotti Bianco. L’associazione fu subito bersagliata da Togliatti con l’intento di delegittimare quegli intellettuali di sinistra democratica che erano stati antifascisti e si dichiaravano antitotalitari per prendere le distanze dal Pci.
Importanti le esperienze del “Mondo” e di “Tempo presente”. Fondato da Pannunzio nel 1949, “Il Mondo” divenne il luogo privilegiato di confronto per la cultura di democrazia laica che si richiamava all’eredità dell’azionismo e vedeva al tempo stesso in Croce e Salvemini dei sicuri punti di riferimento.  Teodori sottolinea come “Il Mondo”, pur accettando la scelta atlantica, non mancasse di denunciare il maccartismo (un “ridicolo anticomunismo” scrisse Calogero) e il coinvolgimento degli Stati Uniti nell’affermazione dei regimi autoritari sudamericani.
Nel 1956 nacque “Tempo presente”, rivista diretta da Silone e Chiaromonte, che si aggiunse alla costellazione dei periodici del movimento internazionale antitotalitario: “ci preoccuperemo più della verità che delle sue conseguenze. Siamo infatti convinti che la verità, quale che sia, rende liberi e che la libertà mantenuta e difesa è la miglior prova che l’intellettuale possa dare alla sua solidarietà con i propri simili”.
In un bilancio delle personalità antitotalitarie che nella Repubblica hanno avuto un ruolo importante, l’autore dedica ampio spazio anche a molti politici. Tra di loro s’incontrano De Gasperi, Nitti, Einaudi, Sforza, e quindi La Malfa, Saragat, Pacciardi, Malagodi, Spinelli, Pannella, Amato, Craxi, Zanone. Ma “non si può omettere” scrive l’autore “di parlare anche di alcuni intellettuali (storici, giornalisti, opinionisti) che hanno contribuito alla riflessione antitotalitaria su fascismo, nazismo, comunismo e sugli altri autoritarismi”.  E ricorda Leo Valiani, l’intellettuale che dopo avere avuto tentazioni giacobine divenne un occidentalista convinto; Nicola Matteucci, uno dei più qualificati esponenti del pensiero liberale in Italia e animatore del gruppo del “Mulino”; Emilio Gentile, lo storico del fascismo al quale si devono le lucide pagine sul carattere totalitario del regime mussoliniano; Giovanni Sartori, che ha illustrato il significato della democrazia come cardine della civiltà su cui si fonda l’Occidente e come la migliore forma di governo possibile. Teodori ricorda anche con cenni biografici concisi Eugenio Montale, Guido Calogero, Leonardo Sciascia, Sergio Ricossa, Luciano Pellicani, Francesco Compagna, Aldo Garosci, Enzo Bettiza, Piero Ostellino, Domenico Settembrini, Geno Pampaloni, Alberto Ronchey.
Secondo Teodori, dopo il 1994, nella cosiddetta “seconda Repubblica”, a seguito dell’estinzione dei partiti di democrazia laica sono scomparsi dalla grande scena le personalità, i gruppi e i partiti in qualche modo riconducibili alla politica antitotalitaria. Dapprima nella contrapposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani, e poi con l’esplosione del grillismo, gli indirizzi antitotalitari sono sostanzialmente venuti meno, mentre sempre più si affermava in Italia, in Europa e negli Stati Uniti l’alternativa del populismo sovranista in contrapposizione alla democrazia liberale. Trump s’imponeva nel 2016 negli Stati Uniti aprendo la strada a derive anticostituzionali e in tutta Europa comparivano partiti populisti neo-autoritari. La maggior parte di questi partiti, estranei alla democrazia liberale, condividono tratti anti-élite, anti-immigrati e anti-europei.
Ma l’aggressione all’Ucraina della Russia dell’autocrate Putin, con l’inaspettata resistenza del popolo di Zelensky sostenuto dall’Occidente, e l’irruzione terroristica dell’integralismo islamista fanno sì che l’antitotalitarismo sia di nuovo divenuto una necessità, quando sembrava che nel mondo occidentale, pacificato nel benessere, non vi fossero più forze pronte a resistere all’aggressività totalitaria. (Massimo Ragazzini)
Massimo Teodori, Antitotalitari d’Italia – Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2023, pp. 116, € 15,00

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Bruno Maida, Sciuscià: bambini e ragazzi di strada nell’Italia del dopoguerra 1943-1948 – Einaudi, Torino 2024, pp. 324, euro 27,00
Le pagine che si leggono in questo libro raccontano le vicende di quei bambini e ragazzi di strada chiamati «sciuscià». Non è quindi in senso stretto la storia dei lustrascarpe che nei primi anni del dopoguerra popolano le grandi città italiane, in particolare Roma e Napoli, invase dai militari alleati a cui di fatto si deve il nome. Non è neanche la storia del film di Vittorio De Sica, vincitore del premio Oscar come migliore pellicola straniera nel 1948, che ha reso la parola «sciuscià» famosa in tutto il mondo. Eppure questo libro è anche la storia dei lustrascarpe e del film di De Sica, per tre motivi. Il primo è politico e culturale. L’intreccio di creatività e avversità di cui parla la motivazione dell’Oscar al film sembra dipingere il tradizionale stereotipo dell’italiano che se la cava in qualche modo, si arrangia e alla fine o sparisce nel gorgo luciferino della miseria o, baciato dalla fortuna, conquista il successo. Il secondo motivo è che «sciuscià» è una sineddoche. I lustrascarpe sono la parte visibile di una massa di bambini e ragazzi orfani, poveri e profughi che vivono e sopravvivono nelle strade delle città italiane del dopoguerra. Il terzo motivo è il valore per cosí dire universale, nel tempo e nello spazio, dello sciuscià. La sua figura di bambino è quella che aggruma l’idea di tutte le infanzie vissute ai margini della società nel corso del Novecento: vittime dei cambiamenti che investono le comunità dopo guerre e catastrofi oppure espressioni icastiche dell’umanità dimenticata e offesa a ogni latitudine.

Paolo Frascani, L’altro Novecento: società, economia e cultura – Laterza, Roma-Bari 2024, pp. 208, euro 20,00
Il Novecento, il ‘secolo breve’, viene raccontato tradizionalmente attraverso la politica e l’economia. Come se queste due grandi ruote motrici della storia producessero un cammino necessario e inevitabile. Esiste però un altro Novecento, spesso lasciato ai margini, da cui è necessario ripartire per scoprire le radici del nostro presente. È il Novecento che vede la transizione definitiva dalla società contadina a quella industriale. Quello che vede la nascita e l’evoluzione della società dei consumi di massa e la costruzione, in senso antropologico, di un nuovo modo di vivere e pensare. Quello che vede il crescente e inarrestabile dominio della tecnica, la costruzione di un sistema di produzione e comunicazione su scala globale, la dinamica delle crisi economiche e dei loro effetti. Quello che imprime come ‘marchio’ indelebile una diversa manifestazione dei sentimenti collettivi e privati. Un libro destinato a soddisfare le domande e le curiosità di quanti si interrogano sulla storia dei mutamenti sociali di massa e di costume.

Matthias Egeler, Il Santo Graal: storia del calice di Cristo da Artù a Indiana Jones – il Mulino, Bologna 2024, pp. 144, euro 15,00
Un’affascinante storia d’avventura lunga ottocento anni: è la leggenda del Santo Graal, nata con la letteratura medievale del ciclo di Artù e giunta fino a noi, che possiamo riviverla nella saga dell’impareggiabile Indiana Jones. Il libro ricostruisce l’appassionante vicenda seguendo le tracce di questo oggetto di profondo desiderio religioso, che più e più volte ha acceso l’immaginazione di scrittori e artisti d’Europa. Ogni epoca ha avuto il suo Graal. In Robert de Boron è il calice dell’Ultima Cena che smaschera i peccatori. In Wolfram von Eschenbach è una pietra magica che anticipa il banchetto del regno dei cieli. Il Lohengrin e il Parsifal di Wagner riuscirono persino a ispirare i nazisti avidi di mito inducendoli ad andare a cercare la sacra coppa nei Pirenei. Una storia che continua ancora oggi, seminando tracce nella cultura pop internazionale e nella religiosità neopagana del nostro tempo.

Klaus Dodds, Guerre di confine: i conflitti che determineranno il nostro futuro – Einaudi, Torino 2024, pp. 342, euro 32,00
Le frontiere, insieme alle architetture che le rendono possibili, ci accompagnano da millenni. E da tempo altrettanto immemore scatenano guerre. Le piú antiche mura erette a scopo difensivo di cui abbiamo testimonianza risalgono a 12 000 anni fa. E poi ancora le fortificazioni di Gerico, di Atene e Costantinopoli, fino ad arrivare ai progetti di scudi spaziali. L’istinto di proteggersi arroccandosi ed erigendo steccati ha dunque radici profonde. I confini però di naturale e istintivo, malgrado siano talvolta segnalati da fiumi o montagne, hanno ben poco. Cosí nel corso delle epoche è di volta in volta mutato il nostro atteggiamento nei loro confronti. Nel 1989, per esempio, quando crollava il muro di Berlino, sembrava che il mondo fosse pronto a diventare uno solo, sulla spinta della globalizzazione degli scambi. Trent’anni dopo gli scambi continuano a essere sempre piú liberi, ma i confini sono rimasti ben saldi sulle carte geografiche, anzi sono persino aumentati. E ovunque, dagli Stati Uniti all’Italia, si parla di difendersi dagli invasori, di costruire nuovi recinti e barriere. Ovunque i confini sono oggetto di strumentalizzazioni volte a risvegliare rigurgiti sovranisti e nazionalisti. E in futuro? Klaus Dodds ci offre un quadro storico e politico dei conflitti di frontiera di oggi e di quelli che verranno. Conflitti relativi a zone da decenni in situazione di stallo; conflitti che incendieranno confini destinati a spostarsi e a mutare geograficamente, a causa del surriscaldamento globale; e conflitti inediti, legati a nuovi spazi di conquista aperti dalla tecnologia. Un quadro che tiene conto da un lato dell’estrema complessità di una materia che è un vero e proprio microcosmo della geopolitica nazionale e internazionale. E dall’altro della necessità sempre piú urgente di sfatare il pericoloso mito della sovranità esclusiva e dell’immutabilità delle frontiere: la necessità di coltivare una visione radicalmente diversa, che tenga conto dei rapidi cambiamenti della Terra e delle migrazioni di massa che si profilano all’orizzonte.

Giorgio Caponetti, Quando l’automobile uccise la cavalleria – UTET, Torino 2024, pp. 464, euro 18,00
Sul finire dell’Ottocento, mentre l’Europa è attraversata da un febbrile processo di innovazione tecnica, all’Accademia militare di Modena si incrociano le vite di tre personaggi leggendari. Federigo Caprilli, il “cavaliere volante”, ha un talento cristallino per l’equitazione, è un seduttore audace e sfrontato, amante segreto di principesse e aristocratiche annoiate. Vive immerso nell’alta società, così come il suo grande amico Emanuele Cacherano di Bricherasio, detto “il conte rosso”, nobile illuminato ed eccentrico, che è invece di tutt’altra pasta: vicino agli ideali socialisti, amico di Edmondo De Amicis e mecenate di Pellizza da Volpedo, Bricherasio è elettrizzato dal progresso tecnologico e ama i motori. Anche il terzo cavaliere è appassionato di automobili. Giovanni Agnelli arriva da una ricca famiglia di Villar Perosa, è spregiudicato e maniacale, e non ha problemi a sporcarsi le mani tra ingranaggi e manovelle. Insieme a Bricherasio firma l’atto fondativo della F.I.A.T., dando il via alla produzione di automobili su vasta scala. Ma le loro idee appaiono subito contrastanti: Bricherasio sogna un’industria attenta ai lavoratori, nella produzione di automobili vede un principio di uguaglianza sociale, Agnelli invece spinge per un’innovazione costante, studia il mercato, fiuta i venti che spirano sull’Europa e non è disposto a perdere la corrente. È l’inizio di una storia oscura e romanzesca, perché due dei tre promettenti cavalieri moriranno in circostanze sospette. Bricherasio viene trovato morto poco dopo la sua messa in minoranza nel consiglio di amministrazione della F.I.A.T., apparentemente per un suicidio, ma il fatto è accaduto nella villa di un cugino del re, quindi qualunque ulteriore indagine viene proibita. Caprilli, ormai tra i cavalieri più famosi al mondo, campione di salto e maestro di equitazione, muore per un banale incidente a cavallo, dopo aver ricevuto le carte segrete di Bricherasio. È il 6 dicembre 1907. Con lui muore la cavalleria. Giorgio Caponetti, grazie a una vivida capacità narrativa, ricostruisce e rimodella una storia misteriosa e insolita, componendo il delicato ritratto di un’epoca ormai al tramonto.

Dieter Hertel, Sigrid Deger-Jalkotzy, La Grecia micenea – il Mulino, Bologna 2024, pp. 176, euro 16,00
Quando Heinrich Schliemann avviò i suoi scavi a Micene, scrisse un nuovo capitolo non solo della storia greca ma della storia culturale europea in generale. Infatti, fino a quel momento, nessuno aveva sospettato che, molto prima dell’antichità classica, in Grecia fossero stati creati monumenti e opere d’arte di altissima qualità e complessità estetica e tecnica, e che fossero state intrattenute relazioni diplomatiche con le corti delle antiche civiltà più avanzate. In questo volume due studiosi di fama internazionale spiegano la storia e l’archeologia della leggendaria Micene e della cultura micenea nel complesso.