IMRE NAGY: LA MEMORIA E IL FORMIDABILE ’89

di Romano Pietrosanti -

 

Trent’anni fa, il 16 giugno 1989, più di 200.000 persone si riunirono a Budapest per i funerali di Imre Nagy, i cui resti erano stati rinvenuti pochi mesi prima. La sua memoria era stata tenuta viva negli anni da una pattuglia di oppositori al regime di Kadar e dagli esuli sparsi in tutta Europa. Romano Petrosanti ha ricostruito in una bella biografia (“Imre Nagy, un ungherese comunista”, Le Monnier, 2014) le vicende postume del leader della rivoluzione antisovietica del 1956. Per gentile concessione dell’editore offriamo ai nostri lettori il capitolo intitolato “La vita dopo la morte”.

cover-pietrosantiImre Nagy non perse la speranza nemmeno alle ultime battute del processo, e lo espresse con una delle sue ultime frasi: «Io credo che verrà un tempo nel quale queste questioni saranno considerate sotto condizioni più tranquille, con un’ appropriata ampiezza di visione e con un migliore rispetto dei fatti, cosicché in un caso come il mio la giustizia possa prevalere». Così egli dimostrava di credere che nella sua Ungheria la società ed i tribunali un giorno sarebbero stati in grado di svolgere il loro ruolo riguardo alla giustizia, sia nella sua personale causa che verso la rivoluzione del 1956. Ovviamente, per le ragioni già esposte, il regime di János Kádár mantenne per circa trent’ anni l’idea della ‘controrivoluzione del 1956’[1] e quindi dell’‘alto tradimento di Imre Nagy’. Per come la rivoluzione era considerata, la leaderhip kádárista tendeva ad identificarsi sempre più con l’era di Rákosi, dalla cui ‘cattiva reputazione’ aveva comunque cercato di distaccarsi e contro la quale il popolo aveva fatto scoppiare la rivoluzione. Così la valutazione del 1956 e l’atteggiamento di legittimazione di Kádár e del suo regime divennero inseparabili. Tale singolo obiettivo rimase un qualcosa di politico, ben più che di storiografico, fino agli anni Ottanta: la versione storiografica era solo un mezzo, come ben visto nel caso del Libro bianco.
Nulla poteva cambiare la valutazione della rivoluzione del 1956 se non il cambiamento delle premesse dello stesso regime di Kádár. Il regime era costruito su parecchi fattori stabilizzanti: gli effetti psicologici della capitolazione della società nel 1957-1958 a seguito della repressione postrivoluzionaria, la diminuzione del potenziale, pur non completamente svanito, di una guerra nel quadro della guerra fredda e l’accettazione parziale di un sistema che aveva comunque assicurato il miglioramento del tenore di vita. Sull’abile coniugazione di accettazione di un passato drammatico, anzi criminoso, ed un compromesso per il presente tipico del regime di Kádár si veda il saggio di Shawcross[2]. E’ degli anni Sessanta riferita all’Ungheria di Kádár la sua descrizione a mo’ di battuta come ‘la più allegra baracca del gulag sovietico’, o del suo comunismo come ‘comunismo al goulasch’. Quando tutto cominciò a cambiare, all’inizio degli anni Settanta, la classe al potere fu di nuovo messa a confronto col problema della sua legittimità e con la questione di Imre Nagy. Con i primi sintomi dell’indebolimento del potere, János Kádár cercò di rispondere introducendo un nuovo concetto. In occasione del suo sessantesimo compleanno[3], egli affermò che, sebbene tutti i comunisti sapessero che ‘controrivoluzione’ era la ‘definizione scientifica’ di ciò che era accaduto nel 1956, c’ era un’ altra possibilità: «Possiamo tutti ottenere la comprensione che era stata una tragedia nazionale»[4]. Questo concetto non fu applicato, comunque, alla repressione, alle esecuzioni degli anni 1957-1959, al processo ed al verdetto contro Nagy ed i suoi compagni. La ‘controrivoluzione del 1956’ rimase la formula standard ed obbligatoria nei libri di testo e nelle scuole insieme all’affermazione che Imre Nagy era stato giustamente condannato e giustiziato per il suo alto tradimento. Nei giorni degli anniversari del venticinquesimo (1981) e del trentesimo (1986) della rivoluzione, con János Kádár ancora primo segretario del MSZMP come il 1° e poi il 4 novembre 1956, furono trasmessi ‘speciali’ televisivi e la versione ufficiale del verdetto della corte del 1958 fu riproposta in prolissi articoli giornalistici. Ma, comunque, tutto era studiato per allontanare eventuali polemiche e né la retorica politica, né il discorso ‘simbolico’ disturbarono il silenzio imposto in modo ufficiale.
E’ improbabile, però, che la classe dirigente credesse davvero che la società ungherese, pur mantenendo il silenzio, avesse dimenticato la rivoluzione ed Imre Nagy. Non potevano immaginare che veramente credessero alle spiegazioni ufficiali. Il silenzio, in questo caso, non era certo segno di assenso, ma piuttosto di quella «totale amnesia nazionale»[5] che significava che la gente era venuta a patti con la situazione di fatto. Il silenzio non implicava automaticamente che il popolo ungherese dichiarasse Imre Nagy innocente, come egli aveva sperato. Il passare del tempo e la ‘vita vivibile’ rimandarono – in modo permanente, come poté sembrare in seguito – quel giorno nel quale il popolo dell’Ungheria pronunciò il suo verdetto: ‘Non colpevole!’.

Fu l’opposizione democratica che cominciò ad organizzarsi alla fine degli anni Settanta, sulla scia dell’atto finale siglato ad Helsinki il 1° agosto 1975 al quale aderì anche l’Unione Sovietica con tutti i paesi del blocco orientale, a rompere finalmente il silenzio. I suoi rappresentanti riportarono in auge la memoria della rivoluzione del 1956 e diedero rilevanza alla sua eredità. Il giustiziato Imre Nagy, che restava sepolto nel remoto angolo quasi boscoso del cimitero municipale di Rákoskeresztúr insieme a centinaia di altre vittime della repressione, senza una tomba, né un simbolo d’ identificazione, divenne un simbolo che svelava la vera natura del regime di János Kádár, la sua reale origine e fondazione, il suo mito fondativo si potrebbe dire, tutto basato sulla rimozione della rivoluzione del 1956, come abbiamo ampiamente visto; non a caso il potere in Ungheria era rimasto come ‘congelato’ nelle sue mani, cioè alla sconfitta della rivoluzione del 1956, per quanti progressi di contorno si fossero fatti[6].
Cogliendo l’occasione del venticinquesimo anniversario dell’esecuzione di Nagy, il suo vecchio amico, addetto stampa nei giorni della rivoluzione e poi coimputato al processo del 1958, Miklós Vásárhelyi scrisse così in «Irodalmi Úiság»[7]: “Tombe anonime, croci di legno esposte all’aria, una pianta in vaso, garofani in un vaso, un mazzo di rose. Questo è tutto. Altrimenti, silenzio mortale. Imre Nagy, il premier legale del paese, e migliaia di altre vittime, sono private di ciò che è garantito a qualunque assassino; una tomba, una lapide, una scritta col proprio nome nel cimitero dei prigionieri. Chi si assumerà la responsabilità di tutto ciò?”
A Budapest, in occasione del venticinquesimo anniversario dell’esecuzione di Nagy, il più ampiamente letto tra i giornali stampati in proprio e che circolavano clandestinamente, i samizdat, ossia «Beszélő», pubblicò un numero speciale. Una delle figure leader dell’opposizione democratica, il filosofo János Kis, scrisse[8]: «La massima parte della concezione del processo […] è oggi abbastanza irrilevante. Ma manca ancora una rivalutazione. Quello è un segno del grado col quale il regime fondato dopo il 1956 ancora si mantiene saldo alla menzogna che è stata la sua levatrice». Gli editori sottolinearono che era solo giusto e corretto che quei giustiziati ricevessero una sepoltura decente. Ma quando un giovane poeta, Gáspár Nagy, in un giornale letterario, nascondendo le iniziali di Nagy in una costruzione grammaticale, scrisse[9]: «Una sola volta egli deve essere sepolto/E noi non dobbiamo dimenticarlo/E dare un nome agli assassini», il giornale venne sequestrato e l’autore ridotto al silenzio. I familiari avevano fatto questa domanda, quella della decente sepoltura, costantemente fin dal 1958. György Krassó, storico, uno dei condannati dopo la rivoluzione, scrisse[10]: «E’ mia opinione che solo la nazione ungherese può cambiare le condizioni nella parcella 301 [il più lontano angolo del cimitero]». Imre Nagy aveva avuto pressappoco gli stessi pensieri venticinque anni prima.

Per il trentesimo anniversario della rivoluzione nel 1986, l’opposizione organizzò una conferenza di studio sul 1956. L’iniziativa partì da Ferenc Donáth, un altro dei collaboratori di Nagy, poi coimputati nel processo[11], ed i partecipanti si riunirono per età e secondo l’appartenenza politica sull’intero spettro del movimento di opposizione[12]. A causa della particolare configurazione mondiale, la crescente crisi del regime nel paese ed i chiari segni di riforma all’interno della sfera sovietica stessa, perestroika (‘ristrutturazione’) e glasnost (‘trasparenza’) apportate dal nuovo segretario generale del PCUS Michail Sergeevič Gorbačëv, in carica dall’11 marzo 1985, l’interesse in Ungheria andò intensificandosi. La cupa descrizione della troppo cresciuta ‘parcella 301’ apparve come una sorta di ‘lapide tombale politica’ sulla rete televisiva BBC e sulla prima pagina del «New York Times». In patria e all’estero si andò formando un movimento per richiedere una conveniente sepoltura delle vittime, specie di Imre Nagy. Nella primavera del 1988 alcuni vecchi prigionieri politici fondarono il Comitato per la giustizia storica[13], presieduto da Miklós Vásárhelyi, che nel trentesimo anniversario del processo Nagy rivolse un appello all’opinione pubblica[14]. Si domandava la riabilitazione dei giustiziati, la loro conveniente sepoltura, una rivalutazione della storia recente e l’accesso alle fonti ed ai materiali che avrebbero reso possibile una ricerca storica non contaminata[15]. Il 16 giugno 1988 l’opposizione democratica ungherese in esilio dedicò una tomba simbolica ad Imre Nagy a Parigi nel cimitero di Père-Lachaise. Alla stessa ora, molte persone scesero in strada nel centro di Budapest scandendo il nome di Imre Nagy. La dimostrazione fu dispersa brutalmente dalla polizia[16]. L’obiettivo di un degno e conveniente funerale era diventato una richiesta politica che mobilitava le masse in modo tale da non poter più essere ignorata e contribuì in modo significativo ad accelerare la fine del regime.

Quando János Kádár fu destituito dalla sua carica di primo segretario del MSZMP dopo 31 anni e mezzo di ‘regno’ ininterrotto, col pieno accordo di Gorbačëv, nella riunione del politburo del 19-22 maggio 1988[17], la via fu aperta per la nuova leadership del partito, in primo luogo il nuovo primo segretario Károly Grósz ed il nuovo primo ministro designato, l’economista Miklós Németh, per affrontare gli argomenti simbolizzati da Imre Nagy ‘insepolto’[18]: le radici storiche della crisi e la rivoluzione del 1956. Era stata, per così dire, rimossa l’anomalia, sgombrato il campo dalla ‘menzogna originaria’ sulla quale il regime era nato e doveva per forza di cose continuare a fondarsi, pena la sua caduta. I leader del MSZMP istituirono una commissione per indagare sul passato recente e pianificarono di formulare un programma di un nuovo partito sulle basi delle conclusioni delle ricerche della commissione. Dopo una lunga discussione e molto scavo nel passato, il politburo nel novembre 1988 diede il suo permesso alla risepoltura delle vittime[19]. Tale permesso era riservato ad un ristretto circolo familiare. Il partito cercò di trattare, inutilmente come si vedrà subito, l’occasione come una vicenda umanitaria e di evitarne le implicazioni politiche e pubbliche. Comunque, fu lo stesso presidente della succitata commissione storica, Imre Pozsgay, importante membro del politburo, a rilasciare una dichiarazione che si rivelò dirompente per il regime: sabato 28 gennaio 1989 in un popolare programma radiofonico, «168 ore», Pozsgay dichiarò che gli avvenimenti del 1956 andavano interpretati come «rivolta popolare»[20]. Era la sconfessione della lettura ufficiale della ‘controrivoluzione’. Così il tema del 1956 e di Imre Nagy, finora riservato ad una ristretta cerchia, divennero ora improvvisamente di dominio pubblico. La dichiarazione si rivelò esplosiva ed ebbe un effetto molto più forte di quello che la stessa leadership del partito, o forse il gruppo di Pozsgay, aveva previsto. Il tentativo di legittimare il partito su una base nuova e più ampia aveva avuto, clamorosamente per la sua leadership, l’effetto opposto.

Il nome di Imre Nagy e la data del 1956 divennero di nuovo in un colpo solo temi di centrale importanza nella politica ungherese. Il 28 marzo 1989 si iniziò la precisa localizzazione delle tombe e la riesumazione in vista della cerimonia della sepoltura ufficiale[21]. Nello stesso tempo, Nagy ed i suoi coimputati furono aggiunti all’elenco delle vittime dello stalinismo, sul quale, considerando i giustiziati prima del 1956, era possibile discutere solo dall’anno precedente in Ungheria. Prima che il partito giungesse ad una qualsiasi sorta di valutazione unitaria, poiché il dibattito apertosi nel febbraio 1989 non raggiunse mai alcuna conclusione, la leadership dovette fronteggiare una massiccia opposizione morale focalizza sulla personalità e sul destino di Imre Nagy. Così diveniva sempre meno praticabile un controllo sulla stampa e sugli altri media e la riabilitazione di Nagy divenne un fatto compiuto agli occhi dell’opinione pubblica. Parecchi leader del MSZMP sarebbero stati orgogliosi di associarsi al nuovo corso. Alcuni cercarono di presentare il riseppellimento come ‘un giorno di riconciliazione nazionale’ al fine di minimizzare il pericolo potenziale che avrebbe potuto accompagnare l’evento. Alcuni nutrirono l’idea di arrivare ad un consenso nazionale attorno al concetto di socialismo democratico, ottenuto il quale si sarebbe potuto sostituire Kádár con Nagy. La sua intera carriera politica dopo il 1945, non eccettuata la rivoluzione del 1956, avrebbe potuto offrire l’immagine di una figura eccezionale che sosteneva le sue convinzioni socialiste e l’amore per il suo paese fino alla tomba. Ma non se ne fece nulla. Invece, Károly Grósz, ultimo leader di quel partito, decise ora[22], dopo decenni di silenzio, di fare un discorso dal titolo eloquente: L’ agente Volodia del NKVD. Ma la presentazione di questo discorso, preparato col ‘fraterno aiuto’ di Mosca, in particolare del capo del KGB, il generale Vladimir Kriuchkov, già subalterno di Andropov all’ambasciata sovietica di Budapest, destinato a denigrare il martire divenuto ormai un simbolo, richiamo ad un cambiamento decisivo per l’Ungheria, non raggiunse lo scopo, come lo stesso Grósz riconobbe.

Venerdì 16 giugno 1989 più di 200. 000 persone si riunirono a Budapest in piazza degli Eroi per tributare il loro ultimo saluto ad Imre Nagy ed alle altre vittime della repressione. Erano presenti le cinque bare delle vittime del processo al primo ministro della rivoluzione ed una sesta, anonima, dedicata ad un ignoto martire, rappresentante di tutti i caduti nel corso della rivoluzione. Erano presenti il primo ministro Miklós Németh, guida di un governo che stava traghettando l’Ungheria verso il cambio di sistema politico in modo molto diplomatico ed incisivo allo stesso tempo, e dirigenti importanti del partito, come Imre Pozsgay, il cui ruolo significativo nel processo riformista era già emerso[23]. La televisione di stato trasmise tutta la manifestazione in diretta nel corso della giornata. La sera precedente, sia la radio che la televisione trasmisero la voce di Nagy che pronunciava le sue ultime parole al processo. Le cassette registrate erano emerse nel corso della revisione del processo, che, comunque, procedeva a rilento, malgrado gli sforzi della corte suprema. Così il ‘messaggio finale’ di Nagy raggiunse finalmente l’uditorio che lui stesso intendeva.
Il funerale rituale organizzato dal Comitato per la giustizia storica dovette diventare una causa comune per tutte le forze che chiedevano un cambiamento democratico[24]. Uno dei significati più emblematici dell’evento fu ben espresso due mesi dopo dallo storico e giornalista britannico Timothy Garton Ash[25]: “Un nome non è mai stato menzionato nei discorsi, anche se è nella mente di tutti. E’ il nome di János Kádár, che non è ricordato come capo di un paese comunista «liberale» e ben visto dall’Occidente negli anni Settanta, ma come quello del traditore che ha preso il posto di Nagy con la forza dei carri armati sovietici, dell’uomo direttamente responsabile del suo assassinio. Dov’ è ora quel vecchio monarca malato? Sta guardando la televisione? Vede lo spettro di Banquo celebrato nella Piazza degli Eroi? Ma questo non è il funerale di Imre Nagy, è la sua resurrezione. Questo è il funerale di János Kádár”.

Gli oratori in piazza degli Eroi furono il coimputato di Nagy Miklós Vásárhelyi, presidente del Comitato per la giustizia storica; il vecchio comandante della guardia nazionale Béla Király; Tibor Zimány, rilasciato dal carcere sotto il primo governo Nagy; lo studente rivoluzionario Imre Mécs, condannato a morte nel 1958, la cui pena fu poi commutata all’ergastolo; Sándor Rácz, il vecchio presidente del consiglio operaio centrale di Budapest, arrestato ‘in diretta’ da Kádár nel corso di pseudo trattative[26] l’11 dicembre 1956; ed il giovane studioso politico Viktor Orbán, 26 enne[27]. Tutti elogiarono le vittime e si riferirono alla rivoluzione, ma non in termini di rinnovo o continuazione dell’insurrezione. Parlarono invece di una transizione pacifica che avrebbe realizzato gli obiettivi del 1956. I discorsi furono politici, come ci si poteva aspettare, ma, dal momento che la maggior parte richiamavano le vittime e gli eventi del 1956 con tristezza e riverenza, Mécs, Rácz e soprattutto Orbán, l’unico nato dopo la rivoluzione[28], parlarono apertamente della pertinenza delle richieste del 1956, ma soltanto Orbán si riferì esplicitamente al ritiro delle truppe sovietiche, ancora di stanza in Ungheria. L’ umore in piazza degli Eroi era festoso, ma sobrio, persino un po’ teso, ma non c’ era nessuna spaccatura. Dagli altoparlanti vennero diffuse alcune frasi tratte dal discorso radiofonico di Nagy del 30 ottobre 1956 nel quale egli invitava a mantenere la pace e l’ordine.
Il 16 giugno 1989 divenne un punto di svolta storico e psicologico nel processo solitamente descritto come un cambio di sistema, di trasformazione democratica in Ungheria. Come scrisse qualche mese dopo Péter Kende[29]: “il più importante fattore di animazione nel collasso [del vecchio ordine] fu, nel 1956, di natura morale. […] Oso dire che quest’ occasione fu come l’elevazione dell’ostia in chiesa, che permette al male di uscire, sicché i credenti stupiscono, allo stesso tempo deliziati e confusi: ‘Dov’ è andato il Diavolo?’”
János Kis riassunse l’umore di quel giorno in questo modo[30]: «Si potrebbe non dire più, agli altri e a sé stessi, che quelli che sono gli ingannatori, i bugiardi e gli assassini sono sicuri, ma io credo che godano ancora di relativa prosperità nel loro ruolo». Tre giorni prima del riseppellimento, il MSZMP incontrò i partiti dell’opposizione che già avevano intrapreso la loro strada nella cosiddetta ‘tavola rotonda’. Tre settimane dopo, come già accennato, dopo il collasso morale del suo regime, giovedì 6 luglio 1989, János Kádár morì. La sua morte avvenne proprio nel corso della udienza della corte suprema che cancellava il verdetto del 15 giugno 1958 del giudice Ferenc Vida e dichiarava non colpevoli Imre Nagy ed i suoi coimputati[31].

Nel periodo precedente il riseppellimento, Imre Nagy era diventato inequivocabilmente un simbolo per il rinnovamento ed il cambiamento. Ciò non avveniva tanto per il suo ruolo politico- storico in quel momento, ma piuttosto perché veniva visto come una vittima nella quale la morte e la esecuzione illegale facevano svelare il vero volto del regime comunista fin dal 1948 tutto in una sola persona ed una sola occasione: Imre Nagy, un’ ipostasi dell’illegalità e dell’arbitrio del regime. Attraverso la persona di Imre Nagy la memoria di uno dei periodi più ricchi di speranza del dopoguerra, il 1956, veniva risvegliata e attraverso la sua morte l’esplodere della speranza veniva reso ovvio, insieme con la scoperta del fondamento obsoleto del compromesso che aveva caratterizzato l’appena defunta era Kádár. Ora si poteva considerare a cuor leggero il vecchio dittatore e si poteva anche facilmente dimenticare come la vasta maggioranza lo aveva accettato per gli ultimi dieci o vent’ anni. Il macabro atto della riesumazione era un gesto appropriato per permettere al popolo di ‘dimenticare di dimenticare’ e quindi ricordare! I turpi dettagli – che i corpi erano stati avvolti nella carta incatramata e poggiati a faccia in giù nelle tombe, che queste non avevano nessuna identificazione, o, nel caso di Nagy, erano identificate con un nome falso nei documenti di sepoltura – permisero al popolo di riconoscere la viltà del regime di Kádár. Sì, avevano saputo tutto delle esecuzioni – quello che era stato insegnato nelle scuole – ma il fatto che ci fossero morti come questi nessuno lo avrebbe pensato.
La società ungherese, almeno quella sua parte maggioritaria che per parecchi anni prima del 1989 aveva allontanato e temuto il confronto con il regime eretto sulle rovine della rivoluzione, era ora occupata a rispondere a tutti quegli avvenimenti che ora le permettevano di definirsi come attuale o potenziale oppositrice del regime. Richiamando gli anni feroci del regime di Rákosi, gli anni della repressione dopo il 1956 e l’ottobre 1956 stesso, la memoria selettiva e tardiva riscopriva un atteggiamento di opposizione che poteva collocare la sepoltura di Nagy come il grande momento che aveva, a dispetto di tutto, la funzione di un’ esperienza catartica e purificatrice, a mo’ di una tragedia classica greca. Insieme col funerale, già lo notavamo en passant, erano il regime ed un’ intera era a venire sepolti. Naturalmente, però, e presto, la questione si ripropose necessariamente: chi poteva correttamente e a buon diritto reclamare Imre Nagy e/o il 1956 come base di legittimazione? Al posto del ricordo ad ‘un solo binario’ delle pie celebrazioni, ne emerse uno divergente[32] e questo processo, una frammentazione della storia del 1956 in molte storie individuali, non ha ancora terminato il suo corso.

Il giorno della risepoltura l’ultimo messaggio di Nagy fu davvero ascoltato così come egli lo pronunciò dichiarandosi innocente di tutte le accuse e chiamando a giudice il popolo ungherese. Ma questa celebrazione del ‘dopo vita’ di Nagy non era del tutto libera da contraddizioni, così come era stato tipico della sua vita. La celebrazione denunciò il socialismo sovietico che Nagy aveva sia criticato che favorito, che aveva servito sia come ricercatore di una via nazionale che come combattente per il suo movimento internazionale. Sebbene nessuno ne parlasse a quell’epoca, ‘il socialismo ungherese dal volto umano’ di Nagy veniva anch’ esso sepolto. Infatti, il suo proprio destino era la migliore evidenza dell’impraticabilità del suo modello sociale. Così, la figura che il 16 giugno 1989 appariva tanto credibile come personificazione della transizione alla democrazia in Ungheria era in effetti una figura costruita. Al centro dell’affresco storico del ‘primo ministro della rivoluzione’ stava – e sta ancora – la lotta per l’unità nazionale e la libertà da lui personificata. La sua esecuzione lo fissò per sempre in un ruolo permanente e definitivo che i dimostranti in piazza Kossuth la sera del 23 ottobre 1956 avrebbero voluto vedere, ma non poterono riconoscere. Per riconoscere il significato della sua morte ogni cosa slittò avanti fino al 1989: la sua adesione agli ideali marxisti-leninisti, il suo ruolo, nello stabilire il regime sovietico in Ungheria e lo sforzo riformista del 1953 col suo primo governo. Non era ora, primariamente, questione dei suoi scopi politici, ma era piuttosto la sua personalità, il suo carattere ed i suoi tratti umani e la sua intera storia basata su di essi a spiegare perché, nella battaglia unitaria per cercare un simbolo per il cambiamento[33] nel 1989, Nagy ereditò lo stesso ruolo che aveva avuto da vivo nel 1956. Quella della rivoluzione era una storia viva nella quale ogni ungherese poteva scoprire la parte migliore di sé, per quanto la storia viva finita tragicamente rivelasse una storia completa nella quale la natura speciale dell’atto finale era già adombrata in ogni episodio del racconto. Per l’eroe di questo dramma, in un periodo nel quale ogni cosa gli era favorevole, egli si trovava ad essere virtualmente l’unico dei rappresentanti del suo movimento politico che, in momenti così grandi e decisivi appariva di una eccezionale statura e determinazione morale.

La tomba di Nagy al cimitero di Budapest

La tomba di Nagy al cimitero di Budapest

Sono passati più di vent’ anni dalla risepoltura dei resti di Imre Nagy e dal cambio di regime in Ungheria. Il vertice drammatico del suo ‘dopo vita’, appunto il 16 giugno 1989 stesso, non ha più avuto in seguito un momento memorabile, invece già diventava storia. La forma che questo ‘dopo vita’ andava prendendo è dipesa soprattutto dalla ‘rete’ della storia ungherese contemporanea, specie dalla comprensione dell’ottobre ungherese.
La rivoluzione ungherese del 1956, insieme con la sua più eminente personalità, è sulla via della canonizzazione, cioè di ricevere un posto degno nel pantheon nazionale, ovvero, in termini moderni, di insediarsi nella memoria collettiva. Nagy viene presentato, più o meno in rispondenza ai fatti, in tutti i testi scolastici come una figura storica significativa, luoghi pubblici sono intitolati a lui e statue che lo raffigurano sono state erette in occasione del centenario della sua nascita nel 1996, in particolare a Budapest, e poi in molti altri luoghi. Egli è stato celebrato in discorsi ufficiali, articoli di giornali riguardanti gli anniversari della rivoluzione del 1996 e del 2006, il quarantesimo ed il cinquantesimo, e della sua morte, analogamente nel 1998 e nel 2008; corone di fiori vengono deposte sulla sua tomba da rappresentanti del governo della Repubblica Ungherese e soprattutto da molti cittadini ordinari. Chi scrive può testimoniare personalmente di aver partecipato di aver partecipato il 16 giugno 2011 al cimitero di Rákoskeresztúr ad una manifestazione organizzata da diversi dei figli dei coimputati con Nagy nel processo del 1958 deportati anch’ essi a Snagov nonostante la giovanissima età o addirittura nati in deportazione, la cui associazione è perciò chiamata ‘bambini di Snagov’. Pochi minuti prima un sottosegretario del governo Orbán aveva deposto una corona a nome del governo ungherese, ma a questa manifestazione spontanea, che in anni passati si diceva essere frequentata da 200-300 persone, non ne erano presenti più di una cinquantina. La manifestazione ufficiale si svolgeva, con più solennità e presenza di autorità, in piazza dei Martiri presso il Parlamento. Tutto ciò per dire come ci sia già una tendenza all’affievolimento del ricordo, specie tra le fasce più giovani, ed un uso abbastanza politico del ricordo stesso. Non va comunque dimenticato che in Orsó utca 43, la sua ultima abitazione dal novembre 1949 fino ai giorni della rivoluzione, sulle colline di Buda, è stata insediata una fondazione culturale che custodisce come museo quell’ultima sua residenza e ne fa un attivo centro di studi e ricerche[34]. Nel secondo periodo legislativo del Parlamento libero il suo nome e le sue conquiste vennero iscritte in una legge speciale[35]. La sua persona ed i suoi meriti vennero commemorati in un atto parlamentare e nel 2002[36] il governo di sinistra-liberale presieduto da Péter Medgyessy istituì un ‘Ordine di Imre Nagy’ che viene conferito annualmente il 23 ottobre. Ma tutto ciò resta dentro il quadro di una convenzionale cultura della memoria. Non c’ è nessun culto di Imre Nagy oggi.

Ma presto dopo il 1989, si aprì un appassionato, quasi isterico dibattito politico sul significato della rivoluzione del 1956. Il tema centrale del dei commentatori politici e degli strateghi di partito riguardava il ‘corretto’ significato. Questi argomenti erano il risultato naturale della ricuperata libertà di parola e segno dell’evidente discredito nel quale erano caduti i vecchi ruoli. Ma questi argomenti discussi erano anche condizionati dal carattere specifico del sistema ungherese e dalla straordinaria importanza attribuita a tutto ciò che riguardava gli avvenimenti del 1956.
Come strumento storico-politico il ricordo del 1956 dovette svolgere una duplice funzione. Da un lato, l’ottobre 1956 funzionò come una tradizione storica positiva, non da ultimo come antitesi al regime sovietico ovvero comunista. I protagonisti del cambiamento ritennero che la rivoluzione era un evento storico che non solo delegittimava il vecchio regime, ma anche garantiva la legittimazione a tutte quelle forze che si erano battute per qualcosa di più che una mera riforma del socialismo di stile sovietico. Il giorno della risepoltura di Nagy, in tal modo, servì come giorno della sepoltura di un’ intera epoca[37]. Sul versante positivo si offriva l’occasione di compiere bene ‘l’atto di pentimento’ che era stato omesso in precedenza e, allo stesso tempo, di alleviare l’angoscia per lo stigma della collaborazione.
Comunque, il tema del 1956 durante il periodo della transizione democratica figurò anche come una sorta di ‘programma negativo’. In rapporto con questo aspetto, tutti quei politici, inclusi quelli del partito-stato ed i loro eredi, con l’eccezione solo di un piccolo gruppo radicale, condivisero l’opinione che ora, a differenza della rivoluzione ‘non pacifica’ del 1956, ci doveva essere una transizione pacifica, non si doveva ripetere ciò che era accaduto nel 1956! Durante la transizione democratica questo consenso non venne mai messo in dubbio, ma il simbolismo attraverso il quale esso doveva avere luogo ebbe pesanti conseguenze sul tipo di cambiamento di sistema che, chiaramente, apparteneva alla categoria della trasformazione rivoluzionaria. Questa contraddizione tra la prassi politica desiderata e la sua espressione simbolica si rivelò decisiva per il significato storico-politico attribuito al 1956. Gli attori politici della transizione ungherese nella loro retorica fecero assegnamento sul 1956 come base per la legittimazione, ma lo fecero senza mai domandarsi come regolare ‘ordinatamente’ la transizione negoziata.

E’ un fatto altamente incerto se sarebbe stato possibile cambiare il contesto simbolico, ossia o ‘svuotarlo’ o riempirlo di un contenuto diverso. Sarebbe stato necessario rendere chiare certe espressioni su determinate materie: prima di tutto, che tutti volevano non solo evitare una rivoluzione, ma anche che, ora che i parametri erano fondamentalmente cambiati, che gli scopi della rivoluzione del 1956 non rappresentavano più aspirazioni di rilievo nel disegno della transizione in Ungheria; in secondo luogo che il 16 giugno 1989 non costituiva in nessun modo la fine del legame della storia del sistema sovietico con l’Ungheria, ma, specialmente rispetto all’era di Kádár, un nuovo inizio. Inoltre, il funerale rituale non poteva fungere da forte agente purificatore che avrebbe rimosso qualsiasi difetto e la ‘repressione’ dalla fine della seconda guerra mondiale al 1989 non era stata sempre uniforme nel suo impatto: non tutti erano stati allo stesso grado ‘vittime della tirannia’. Tutti coloro che si espressero, in qualche momento o in qualche luogo, si pronunciarono a favore, probabilmente nella maggioranza credendovi, della validità di quell’assioma. Una chiarificazione appropriata ed una valutazione corretta avrebbe richiesto un dibattito storico che comunque non avvenne. La maggior parte dei gruppi politici attivi nella transizione democratica non voleva abbandonare la retorica del 1956 o la storia del 1956 come fonte di legittimazione. Un terzo importante punto, anch’ esso evitato, riguardò il ruolo dei tecnocrati e riformatori che dopo il periodo del 1956 supportarono il regime di Kádár e, come quadri guida del MSZMP nei tardi anni Ottanta divennero importanti elementi per la transizione. In ordine ad una loro attività con successo nel nuovo ordine democratico essi avrebbero dovuto aver bisogno di ‘un surplus di legittimazione’ e ciò sarebbe stato possibile solo se si fossero confrontati col loro passato in modo aperto ed avessero mostrato un’ onorevole disponibilità e prontezza a venire a patti con esso dal punto di vista storico e morale. Ci furono certamente alcuni esempi di tali atteggiamenti, ma non furono espressi con chiarezza e senza ambiguità. La prontezza ad una rielaborazione sistematica del passato rimase, nel migliore dei casi, debole[38].
I partecipanti attivi alla rivoluzione, sopravvissuti alla repressione, rappresentarono un problema speciale. Questi vecchi membri delle organizzazioni rivoluzionarie ed insorti armati, ‘i senza nome’, trovarono principalmente voce dopo il 1989. Non figurarono nei ranghi della nuova élite della transizione coordinata, tranne qualche caso[39], fino a quando credettero, sulla base dell’esperienza o del torto sofferto, di avere il diritto di partecipare. Questi ‘veterani’ mostrarono poca inclinazione a prendere parte ad una revisione degli eventi del 1956. Si riunivano piuttosto tra di loro e formavano associazioni proprie nelle quali si riunivano un piccolo numero di critici radicali e vocianti del nuovo sistema politico pronti ad alzare rapidamente il tono[40].

Il Parlamento eletto liberamente alle elezioni del 25 marzo e 8 aprile 1990 iniziò il suo programma legislativo proprio con l’esame della legge sull’Eredità della rivoluzione e della lotta per la libertà del 1956. Questa legislazione, introdotta dal governo di coalizione, era preceduta da una bozza di legge approvata con larga maggioranza nella quale Imre Nagy era citato per nome. Ma all’ultimo minuto il suo nome fu espunto. Fu un chiaro segnale che il governo guidato dal Forum democratico ungherese, in sigla MDF, il partito del primo ministro József Antall, insieme con i nazional-populisti e le forze cristiano-democratiche conservatrici, tutti fautori della ‘terza via’, desideravano distanziarsi dal contenuto di sinistra e dalla valutazione di sinistra della rivoluzione e dalla sua figura simbolica comunista. Già nell’estate di quello stesso anno durante la discussione sulla divisa nazionale delle forze armate e sul 23 ottobre come festa nazionale, divenne chiaro che i partiti di governo preferirono sottolineare la tradizione e la ‘continuità del millenario stato dell’Ungheria’ piuttosto che ‘l’eredità del 1956’ o qualsiasi altro memorabile momento democratico della storia recente ungherese. La ‘nuova’ divisa nazionale delle forze armate non fu ‘la divisa di Kossuth’, un emblema ‘repubblicano’ usato dal 1945 al 1949 e reintrodotto nel 1956 come un simbolo importante[41], ma piuttosto la divisa delle forze armate del Regno di Ungheria dell’era anteguerra, con la ‘sacra corona’ posta in alto. Per un’ usanza coerente a tali scelte la festa nazionale più importante non era allora né il 15 marzo, memoriale della prima rivoluzione del 1848, né il 23 ottobre, la nuova ricorrenza che richiamava il 1956, ma il 20 agosto, la tradizionale festa di santo Stefano, che richiamava ‘il fondatore dello stato’ che aveva mostrato alla nazione ungherese già mille anni addietro ‘la via verso l’Occidente cristiano’.
Tra i problemi legati all’era comunista ed al 1956, tornò presto al centro dell’attenzione quello di ‘onorare la nostra giustizia’. Già durante il 1989-1990 si era levata la richiesta che coloro che erano stati impegnati nei processi-spettacolo del periodo stalinista o avevano ordinato i massacri di inermi dimostranti nel 1956[42] o nel periodo repressivo seguente, dovessero essere perseguiti. Ma al momento la discussione pubblica era così dominata dalla nozione di ‘transizione pacifica’ che nessuna forza politicamente rilevante si era preparata a far posto a questo tema nella propria agenda. La transizione pacifica, conformemente agli stretti principi delle regole del diritto, garantiva alla vecchia élite una via d’ uscita, e così tutti coloro che avevano perseguitato e torturato il popolo ungherese sotto il regime comunista poterono eludere la giustizia. Vengono in mente, solo per esempio, i nomi di Antal Apró e Béla Biszku. Pare che solo nel 2011, alla tenera età di 90 anni, quest’ ultimo, ex ministro dell’interno, responsabile tra i principali del processo Nagy, ma soprattutto di molta parte della repressione dell’era Kádár, sia stato chiamato in causa per il suo passato: il 27 gennaio venne depositata una richiesta di incriminazione nei suoi confronti, ma già il 24 febbraio essa è stata archiviata come incostituzionale. Invece il primo, famigerato capo dello staff militare del MDP, già coinvolto nel caso Rajk e nel massacro di piazza Kossuth, è morto tranquillamente il 9 dicembre 1994 senza guai con la giustizia. Questo deficit morale fu un serio fardello, una seria responsabilità per la nuova democrazia ungherese. In parte per questa ragione, ma anche per controbilanciare le difficoltà della transizione, molti nei partiti che vinsero le prime libere elezioni fecero campagna elettorale per affrontare la ‘questione della colpa’.

Nei primi anni Novanta, mentre la campagna per la ricerca e la punizione dei crimini dell’era comunista sembrava scomparsa, si potevano sentire solo occasionali richieste repressive. Il Partito socialista ungherese, successore del MSZMP, naturalmente si oppose a questa campagna investigativa e/o ai processi temendo che sarebbero potuti risultare pericolosi per la sua leadership politica attiva: ad es. Gyula Horn, presidente del Partito socialista negli anni Novanta e primo ministro dal 1994 al 1998, cominciò la sua carriera politica nelle forze di sicurezza comuniste dopo il 4 novembre 1956. Non tennero un comportamento diverso i liberali, che pure venivano principalmente dall’opposizione politica dell’era di Kádár. Sebbene molti di loro fossero convinti della giustificazione morale della richiesta di una applicazione della giustizia, basarono la loro posizione sui principi delle regole della legge. Quelli che stavano per la pulizia e la punizione e quelli che potevano essere testimoni per i processi che erano in corso venivano dai ranghi dei vecchi insorti. Tuttavia il dibattito non era realmente attorno al 1956. Infatti le dispute erano motivate dagli attuali obiettivi politici e davano luogo ai conflitti di interesse tipici di ogni cambio di sistema. Coloro che erano più altisonanti nel chiedere restrizioni legali nel rielaborare il passato succedettero nei posti guida nelle organizzazioni dei veterani e rimproverarono come comunisti coloro che non accettavano i loro argomenti. Quello stigma di ‘comunista’ era applicato non soltanto all’opposizione parlamentare, ma anche agli alleati di Nagy nell’opposizione interna al partito prima del 1956, che erano ben lontani dall’essere comunisti. Non c’ era differenza per i liberali, un tempo i più accaniti oppositori del regime comunista. Il presidente della Repubblica d’ Ungheria Árpad Göncz[43], che si era opposto alla legge sulla punizione, fu cacciato dalla tribuna degli oratori dalle proteste dei suoi vecchi compagni prigionieri durante la cerimonia del 23 ottobre 1992[44].
Il conflitto sul ‘tema della giustizia’ diede alla storia della rivoluzione una nuova dimensione. Stava nascendo una nuova ortodossia che avrebbe presto abbracciato l’intera storia dell’Ungheria dopo il 1945. Questa nuova ‘vera storia’ non si riferì più tanto alla rivoluzione, in primo luogo a causa della sua connotazione in ogni caso marxista/comunista del termine, ma cercò di evitare anche gli atteggiamenti conservatori un po’ fondamentalisti, anti-rivoluzionari. La rivoluzione del 1956 era quindi compresa semplicemente come una lotta nazionale per la libertà, il combattimento della nazione contro ‘i russi’; era tratteggiata ora come una battaglia per l’indipendenza priva di ogni contenuto sociale, ora come una rivolta in favore della restaurazione di un regime anteguerra, o simile, piuttosto indefinito. Qualcosa, insomma, che si poteva vagamente accostare, di volta in volta, al discorso del 3 novembre 1956 del cardinale Mindszenty o alle sue interpretazioni di parte datene poi dai sovietici e dal partito ungherese. Per questo orientamento di pensiero, l’opposizione interna al partito ed Imre Nagy stesso avrebbero potuto giocare solo un ruolo subordinato. Allo stesso tempo era stato creato un nuovo mito, quello di una massiccia resistenza nazionale al regime di Rákosi.

 Alla fine del secolo questi dibattiti persero la loro veemenza, tranne riaccendersi in occasione dei giorni memoriali come il 23 ottobre ed il 16 giugno o nel corso delle campagne elettorali. I politici di stampo nazional-conservatore vollero porsi come i soli veri eredi della battaglia per la libertà del 1956. Dipinsero i loro oppositori di sinistra come ‘post-comunisti’ ed eredi della sanguinosa soppressione di quella lotta. All’altro capo dello spettro politico, le correnti socialiste cercarono ora di preservare i resti dell’eredità ‘social-liberale’ della rivoluzione, ma con successo sempre piuttosto scarso, forse perché quell’eredità era inesistente. In seguito al cambio di sistema, la retorica politica si è insediata dentro la fabbrica della memoria del 1956, certo per un lungo periodo, forse indefinitamente. Forse è questa la ragione per la quale la gioventù, venuta alla maturità o addirittura nata dopo la caduta del regime comunista, rigetta i festival della memoria, come abbiamo avuto modo di accennare.
Imre Nagy come figura storica contemporanea si pone in evidenza in grado progressivamente calante nel dibattito politico attuale. Anche i conservatori, che negano che i comunisti nazionali o riformisti abbiano avuto un ruolo decisivo nella rivoluzione, evitano la domanda sul ruolo personale di Nagy. La ragione di tale comportamento è chiara: di fronte alla sua statura umana e morale, sigillata dalla sua esecuzione e dal martirio, il suo credo di sinistra e comunista crea imbarazzo e va ignorato. Secondo un sondaggio sociologico dei primi anni del XXI secolo, Imre Nagy è considerato come una delle più significative personalità ungheresi del XX secolo, ma si colloca leggermente indietro rispetto a János Kádár[45]. Comunque la memoria di Nagy è più universale di quella del suo accolito. Sebbene sia risultato un po’ meno popolare nel sondaggio appena citato, la sua immagine crea molto meno divisioni: gli apprezzamenti per lui vengono da un ampio ventaglio di soggetti interrogati e si avvicinano molto a quelli per i grandi riformatori e per i protagonisti del 1848 István Széchenyi e Lajos Kossuth[46]. La morte di Nagy sembra così aver dato la risposta generale alla domanda sulla sua vita. L’analisi più profonda e la percezione della sua vita può portare, come abbiamo visto in questo lungo percorso, a risultati diversi e non necessariamente definitivi. Al massimo, come ogni buona ricerca storica, si possono suggerire alcune possibili risposte a molte domande, vecchie e nuove, legate ad un periodo storico e ad eventi della storia mondiale.

Note

[1] Oltre il Libro bianco, cit., cfr. il pamphlet di J. BERECZ, La controrivoluzione ungherese, cit., ristampato in ungherese ancora nel 1986, scritto da un importante funzionario del MSZMP, che dopo l’uscita di scena di Kádár ambirà anche alla sua successione.

[2] W. SHAWCROSS, Crime and Compromise…, cit. Un testo che creò tensioni istituzionali tra Ungheria socialista e Gran Bretagna.

[3] La data esatta era il 26 maggio 1972.

[4] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., pp. 227s. nota 1 del cap. 16, dove si citano queste parole dalla biografia di Kádár di Gyurkó in ungherese.

[5] Con parole dello psicanalista Ferenc Merei.

[6] Su tali ‘cause ed antecedenti’ della trasformazione del regime nel 1989, come li definisce I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., p. 1, cfr. F. FEJTÖ, La fine delle democrazie popolari…, cit., pp. 140-48; I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., pp. 1-81.

[7] «Irodalmi Úiság», [Paris], 1, 1983. Il titolo dell’articolo, scritto in ungherese, suonava: Quattro tombe senza nome; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, p. 189; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 2. Lì si ricorda che Tibor Méray, redattore capo della rivista, ha confermato all’autore della citazione l’identità dell’autore dell’articolo, pubblicato anonimo.

[8] «Beszélő», 8. Anche qui traduciamo il titolo dell’articolo ungherese, che suonava: Processo spettacolo – dietro porte chiuse; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 189; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 3, dove, insieme al titolo originale, c’ è anche l’impaginazione nella raccolta dei volumi di «Beszélő», 1, p. 444.

[9] «Új Forrás», (‘Nuova fonte’), pubblicato a Tatabanya nell’ottobre 1984; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 189; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 4.

[10] «Hírmondó», 4, 1984. Anche qui traduciamo il titolo ungherese dell’articolo, che suonava: Ricordando il morto; riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 189; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 5 col titolo originale.

[11] Donáth non visse abbastanza per vederla realizzata, morì proprio in quell’anno.

[12] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 6 per la pubblicazione che ne raccoglie gli atti edita nel 1992 da András B. Hegedűs, il vecchio vicesegretario del circolo Petőfi.

[13] Történelmi Igazságtétel Bizottsága, in sigla TIB.

[14] Su tutto questo periodo che va dall’inizio del 1988 alla proclamazione della Repubblica Ungherese del 23 ottobre 1989 da parte di Mátyás Szűrös, presidente dell’Assemblea Nazionale cfr. F. FEJTÖ, La fine delle democrazie popolari…, cit., pp. 148-50.216-23; I. ROMSICS, Hungary in the Twentieth Century, cit., pp. 412-35; IDEM, From Dictatorship to Democracy…, cit., pp. 82-223.

[15] Prima pubblicazione in «Beszélő», 25; cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 7. Vi si trova anche il luogo nella raccolta di «Beszélő», 3, pp. 603s.

[16] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 8 per due pubblicazioni che documentano questo avvenimento

[17] Cfr. R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., pp. 238-40; T. HUSZÁR, Kádár…, cit., pp. 301s.

[18] Cfr. in bibliografia il titolo del film diretto nel 2004 da Márta Mészáros.

[19] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 9.

[20] Cfr. H. NYYSSÖNEN, The Presence of the Past…, cit., pp. 158-63; I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., p. 150; J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 10.

[21] Per tutto questo percorso, dalla situazione originaria del cimitero di Rákoskeresztúr a tutta la cerimonia del 16 giugno 1989, cfr. 1989. Június 16…, cit., splendido volume commemorativo, quasi unicamente di fotografie dei diversi momenti che hanno portato al funerale del 16 giugno 1989 e lo hanno preparato.

[22] Il 1° settembre 1989, dopo che il documento era stato reso pubblico proprio il giorno del funerale.

[23] Per il loro ruolo, specie quello di Miklós Németh, nelle trasformazioni del 1989 cfr. I. ROMSICS, Hungary in the Twentieth Century, cit., pp. 428-42; IDEM, From Dictatorship to Democracy…, cit., pp. 141-259; M. MEYER, L’ anno che cambiò il mondo…, cit., pp. 47-61.75-78.85-99.106-10.114-16.118-28.135-38.168-70.231s.

[24] Per il significato storico di questo importantissimo passaggio, vero snodo di nascita della nuova Ungheria democratica, formalmente proclamata come ‘Repubblica Ungherese’, la Terza Repubblica Ungherese, non più ‘Popolare’, il 23 ottobre successivo, nel 33° anniversario della rivoluzione del 1956, cfr. I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., pp. 178-95, dove il titolo Two Funerals accosta il funerale simbolico di Nagy e quello fisico di János Kádár, morto giovedì 6 luglio 1989 alle 9, 16 del mattino, proprio mentre la corte suprema concludeva la seduta nella quale dichiarava nullo il processo del 1958, e seppellito il 14 luglio successivo nel cimitero di Kerepesi con la partecipazione di 50.000 persone. Per le reazioni di Kádár al funerale di Nagy cfr. R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., p. 248; I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., p. 94; I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., p. 189. Per una presentazione e valutazione del funerale di Nagy cfr. anche F. FEJTÖ, La fine delle democrazie popolari…, cit., pp. 219s.; J.M. RAINER, Nagy Imre…, cit., pp. 448s.; M. VÁSÁRHELYI, Verso la libertà, cit., p. 201; J.M. RAINER, The Reburial of Imre Nagy…, cit., in The Ideas of the Hungarian Revolution…, cit., pp. 287-310; I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., pp. 318-27; K.P. BENZIGER, Imre Nagy…, cit., pp. 17-32. Per la morte di Kádár cfr. pure R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., pp. 256-58; T. HUSZÁR, Kádár…, cit., pp. 316.24.

[25] T. GARTON ASH, Le rovine dell’Impero…, cit., p. 300; cfr. pure R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., p. 248. A p. 294 nota 35 si indica la fonte della prima pubblicazione di Garton Ash avvenuta nell’agosto 1989. Si noti che il testo inglese indica Kádár come Macbeth.

[26] Così care alla tradizione ungherese, dette ‘alla turca’, vista l’usanza turca di trattare in apparenza, per subito arrestare la parte debole che tratta.

[27] Per una sintesi di questi interventi, tutti pubblicati integralmente su «Magyar Nemzet» del 17 giugno 1989 e riportati anche in 1989. Június 16…, cit., pp. 119-28, cfr. I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, pp. 385-97. Si noti che uno degli architetti che preparò la scenografia di piazza degli Eroi di quel giorno fu László Rajk jr, figlio omonimo dell’ex ministro degli interni degli anni Quaranta, vittima del più clamoroso processo spettacolo ungherese.

[28] L’ attuale primo ministro ungherese è nato nel 1963.

[29] Riportato in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit. p. 192; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 12 con la citazione dell’originale ungherese dello scritto di Kende.

[30] Riportato in IBIDEM; cit. in IBIDEM, p. 228 nota 13.

[31] Cfr. The Secret Trial of Imre Nagy, cit., pp. 119-60; cit. in J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 14. In A Per Nagy Imre…, cit., pp. 231-324, si possono leggere in ungherese tutti i documenti dalla prima richiesta di revisione del processo presentata dal TIB nel maggio 1988 fino alla sentenza definitiva del 6 luglio 1989. In I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., p. 65 nota 3; I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit., p. 187 si riporta che durante la sessione della corte suprema si vede circolare un bigliettino tra i giudici e si saprà poi che riportava proprio la notizia della morte di János Kádár. R. GOUGH, A Good Comrade…, cit., p. 256; T. HUSZÁR, Kádár…, cit., p. 316 notano la stupefacente coincidenza cronologica che sa di vera nemesi storica, ma senza il dettaglio del bigliettino. Si ricordi che Dornbach, curatore di entrambi gli scritti citati sul processo, era uno dei membri di quel collegio della corte suprema.

[32] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 15.

[33] Pacifico davvero stavolta, non come ebbero a definire ‘pacifica’ anche l’invasione sovietica del 1956 i politici sovietici e filosovietici, compresi quelli italiani, con spudoratezza partigiana spiegabile solo col contesto della guerra fredda, ma non per questo accettabile.

[34] Chi scrive ha avuto modo di visitarla ed apprezzarla, grazie alla competenza e cortesia di chi vi lavora. Oggi, dopo la morte di Erszébet Nagy, figlia di Imre, nel 2008, la presidenza della fondazione che gestisce la casa museo è passata a Péter Kende, con l’attiva partecipazione di Katalin Jánosi, figlia di Erszébet, quindi nipote di Imre Nagy.

[35] Su questo provvedimento e sulle discussioni relative cfr. I. RÉV, Giustizia retroattiva…, cit., pp. 95-104.

[36] E’ una peculiare tradizione parlamentare in Ungheria commemorare in Parlamento con sedute speciali i grandi personaggi: cominciando da Lajos Kossuth nel tardo Ottocento fino a Stalin nel 1953, e come vedemmo, toccò proprio a Nagy la commemorazione ufficiale del dittatore sovietico scomparso; cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 16.

[37] In questo senso si esprime anche il già citato I. ROMSICS, From Dictatorship to Democracy…, cit. pp. 178-95 con l’eloquente paragrafo Two Funerals dove non si paragonano solo i funerali di Nagy e Kádár, ma si presta attenzione al valore simbolico del primo.

[38] Prendiamo qui lo spunto per inserire, data l’importanza del fattore economico sia nel regime di János Kádár, sia nella transizione democratica del 1989, col primo ministro dell’epoca, Miklós Németh economista, la citazione di un saggio di raffronto tra i due momenti storici: B. POLESE, Il ’56 ungherese e la ‘rivoluzione’ dell’’89: riflessioni storico-economiche, in UNGHERIA 1956. La cultura si interroga, cit., pp. 117-36. Naturalmente la bibliografia sulle rivoluzioni del 1989 nei paesi dell’ex impero sovietico è sterminata: qui, a mo’ di esempio, citiamo solo, T. GARTON ASH, Le rovine dell’Impero…, cit.; F. FEJTÖ, La fine delle democrazie popolari…, cit.; G. DALOS, Giù la cortina. Il 1989 e il crollo del comunismo sovietico, Donzelli editore, Roma, 2009; M. MEYER, L’ anno che cambiò il mondo…, cit.

[39] Abbiamo citato il ruolo di Miklós Vásárhelyi, presidente del TIB, e di Péter Kende, oggi presidente della Nagy Imre Alapítvány.

[40] Cfr. un esempio di tale atteggiamento in G. PONGRÁTZ, Passaggio Corvin…, cit., pp. 277-90.305-15.

[41] Si ricorderà che nella manifestazione del 23 ottobre sostituiva la stella rossa, odiato simbolo comunista strappato via.

[42] Questi davvero quasi sempre ‘inermi’, non come quelli che la versione ufficiale comunista del 1956 attribuisce alla responsabilità di Nagy, ma che erano in buona parte membri di forze armate.

[43] Condannato all’ergastolo per la sua partecipazione alla rivoluzione del 1956, in carica come presidente tra il 1990 ed il 2000 per due mandati quinquennali.

[44] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., p. 228 nota 17 che riporta il sarcastico commento privato sull’episodio dell’allora primo ministro József Antall: «Avrebbe dovuto degnarsi di fare una rivoluzione!».

[45] Cfr. J.M. RAINER, Imre Nagy…, cit., pp. 228s. nota 18. Il sondaggio risale agli anni 2001-2004 ed è stato condotto in collaborazione dall’accademia ungherese delle scienze, gruppo di teoria della comunicazione, e dall’università Eötvós Loránd di Budapest. Il team di ricercatori è stato guidato da Mária Vásárhelyi, figlia di Miklós. Su una scala da 1 a 5 il gradimento per Kádár è risultato di 3,5, quello per Nagy di 3,4. Chi scrive ha avuto modo d’ incontrare la prof.ssa Vásárhelyi a Budapest nel giugno 2011. Un altro sondaggio, più popolare, nel 2007, collocò Kádár al terzo posto dopo Széchenyi e Kossuth e Nagy al sesto tra i migliori politici di tutta la storia ungherese.

[46] In tema di apprezzamento popolare, la decenza ci fa appena accennare al trattamento che, abbiamo appreso ex auditu a Budapest, viene riservato alla tomba di János Kádár nel cimitero di Kerepesi, costante oggetto di scherno e compimento di particolari funzioni fisiologiche, la cui deprecabile profanazione con rapimento dei resti il 2 maggio 2007 e recuperati il 29 novembre successivo, costituisce un significativo culmine.