IL SILOS DI TARČIN: UN LAGER BOSNIACO PER I SERBI

di Renzo Paternoster –

Tra il 1992 e il 1996 nell’ex Jugoslavia compaiono i campi di concentramento, allestiti da tutte le parti in conflitto. A Tarčin la minoranza serba viene incarcerata e torturata dalle milizie musulmano bosniache. Saranno 23 le vittime.

A seguito del referendum del 1° marzo 1992, che ha stabilito l’autodeterminazione della Bosnia ed Erzegovina dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, il 5 aprile i bosniaci si dichiarano indipendenti. I serbi sono fortemente contrari per la loro grande presenza nel nascente Stato, poiché minoranza. L’evento trascina così anche la Bosnia nella guerra di dissoluzione della Federazione degli Stati jugoslavi.
Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina è stato la tragedia più immane di tutto lo scontro bellico: una guerra civile in cui i tre principali gruppi nazionali del Paese (bosgnacchi, serbi e croati) si sono combattuti senza sconti, coinvolgendo la popolazione civile. Una guerra dipinta come scontro primitivo fra le diverse etnie del Paese, ma che tuttavia ha nascosto ben altro: interessi politici ed economici, ambizioni personali dei leader politici, convenienze di entità esterne.
Nel cuore dell’Europa ricompaiono i campi di concentramento, allestiti da tutte le parti coinvolte nel conflitto, senza eccezioni. I serbi istituiscono campi a Ke¬ra¬term, Manjača, Omarska, Vilina Vlas, Vojno e altrove. Croati e bosniaci creano campi a Sarajevo, Čelebić, Tarčin, Livno, Bradina, Odzak, Bihac (nel Je¬dinstvo Football Stadium) e in molti altri luoghi. Sono tutti campi per lo più improvvisati e di breve durata, predisposti in campi sportivi, scuole, vecchie fattorie, fabbriche dismesse, ex miniere, edifici abbandonati, magazzini e terreni incolti.

ubicazione-del-villaggio-di-tarcinA Tarčin, insediamento suburbano ubicato a circa 25 km dal centro di Sarajevo, i bosgnacchi (i bosniaci musulmani) aprono nel vecchio silos della comunità uno spazio in cui internare le persone, combattenti e civili di origine serba residenti nella ormai ex Repubblica della Federazione iugoslava di Bosnia ed Erzegovina.
Nella piccola cittadina di Tarčin i serbi rappresentano circa il 10% della popolazione, rispetto ai croati che sono pressappoco il 5%, la restante parte è composta da bosniaci musulmani.
Appena comincia il conflitto, tutti i serbi della piccola cittadina sono messi sotto controllo da una milizia di riserva del villaggio. All’inizio di maggio del 1992, i bosgnacchi iniziano improvvisamente a svuotare il grande deposito di grano di Tarčin, distribuendo il cereale alla popolazione. L’11 maggio attaccano la caserma “Žunovica” della JNA (Jugoslovenska narodna armija – Armata Popolare Jugoslava) di Hadžići, ubicata a circa 8 km da Tarčin. Undici soldati di riserva sono catturati e rinchiusi proprio nel vecchio silos di Tarčin. Inizia così la storia di questo campo di concentramento, uno dei 126 campi bosgnacchi presenti nell’area di Sarajevo durante la guerra del 1992-1996.
A partire dal 20 maggio, i musulmani iniziano a fermare i civili serbi delle località di Tarčin e Pazarić col pretesto di effettuare “colloqui informativi”. Tuttavia dopo gli interrogatori, i fermati sono portati nel vecchio silos della cittadina e qui internati. A giugno il piccolo magazzino di grano di Tarčin registra il sold out, così i bosgnacchi dirottano i prigionieri civili sia nella scuola elementare “9 maggio” di Pazarić, trasformata ora in luogo di prigionia, e nella caserma Krupa.
“Ripuliti” dai serbi i villaggi di Tarčin e Pazarić, i bosgnacchi si rivolgono a quelli che abitano nelle comunità di Korča, Donja Bioča, Doljani, Odžaci, Deovići, Češće, Sokolovića kolonija, Zeović, Raštelica, Ramići. Gli internati sono civili serbi e alcuni croati di questi villaggi. Qualche internato proviene anche da Sarajevo.
Il campo è inizialmente sotto il controllo della 109a Brigata di montagna dell’esercito di Bosnia-Erzegovina, ma dal 1995 passa sotto la XIV Divisione. Primo comandante del campo è Bećir Hujić, ex guardia nella prigione centrale di Sarajevo, mentre suo vice è Halil Čović, anche lui ex guardia nel carcere di Sarajevo, che dalla metà del 1994 lo sostituisce, mantenendo questo incarico sino alla chiusura del campo.

Il campo di Tarčin

Il campo di Tarčin

Il Logor Silos di Tarčin è diverso dai tradizionali campi di concentramento. Poiché è un deposito di frumento adattato a luogo di internamento, le celle sono ricavate direttamente nel magazzino. Queste sono di circa 9,50 x 4,50 metri, con un’altezza tra i 5 e 5,50 metri, ma senza soffitto singolo. Al di sopra di esse una sporgenza di cemento, larga circa cinquanta centimetri, sulla quale le guardie possono controllare sia gli internati sia i corridoi. Unica fonte di luce è quella che proviene da una finestra posta al livello superiore dell’edificio, a circa dieci metri d’altezza.
Le celle del campo sono trentadue, ognuna completamente spoglia: nessun letto, nessuna sedia, solo un secchio per i bisogni fisiologici. Una cella è riservate alle poche donne internate.
Ogni cella ospita anche trentasette prigionieri, costretti dalle guardie a stare sdraiati per terra pure durante il giorno. Tutti hanno dormito sul pavimento di cemento nudo per i primi due mesi di attività del campo, senza alcuna coperta e cuscino. Solo in seguito alcuni pallet di legno larghi circa 120 centimetri, formati da listelli larghi 8-10 cm e uniti in reticolato, sono diventati il giaciglio degli internati, uno ogni tre. L’unica cella riservata alle donne ha tuttavia in dotazione una sola coperta e un tappetino di spugna per ogni internata.
Si stima che circa 550 internati siano passati attraverso questo campo, tra cui undici donne, una delle quali era incinta di sei mesi. Gli internati sono tutti serbi, tranne un bosgnacco e un croato, dichiarati filoserbi.
Il più giovane tra gli internati è stato il quattordicenne Leo Kapetanović, il più anziano l’ottantacinquenne Vaso Šarenac.
La stragrande maggioranza dei deportati del campo di Tarčin non ha mai ricevuto una formale incriminazione e una conseguente decisione da parte di un tribunale riguardo l’arresto e la detenzione. Solo alcuni di essi sono stati portati in un tribunale allestito nella scuola di Tarčin, lì processati, senza assistenza legale, e condannati dal giudice Mladen Veseljak di Zenica, da due a tre anni di reclusione. Tuttavia, queste persone, dopo aver scontato la pena, sono state ancora trattenute nel campo.
Le condizioni di vita all’interno del lager di Tarčin sono descritte dagli ex deportati, durante il processo agli aguzzini del campo per crimini di guerra contro civili.

Nessuna donna pare sia stata oggetto di violenze sessuali, così come ha riferito ai giudici la testimone 385/96-3, che afferma di essere stata una sola volta costretta a restare nuda per venti minuti in presenza dei carcerieri. Tuttavia, anche le donne, al pari dei maschi, subiscono percosse e supplizi quasi quotidianamente. Il primo supplizio è la “dieta da fame”. All’inizio dell’attività del campo è davvero misera: un solo pasto giornaliero, consistente in una piccola ciotola di brodaglia ogni cinque detenuti, con una pagnotta di pane raffermo di peso compreso tra 350 e 500 grammi da dividere sino a dodici internati. Dal 12 luglio 1992 è inserita la colazione: una piccola scodella fredda di latte in polvere ogni cinque detenuti. Dal 19 ottobre dello stesso anno è concessa anche la cena, una piccola dose di brodaglia distribuita nel primo pomeriggio, poiché la mancanza di elettricità non permette la dosatura la sera. In diverse occasioni gli internati sono rimasti digiuni per giorni. Chi soffre di più per l’inedia voluta nel Silos di Tarčin sono i più anziani, già deperiti dalle percosse. I carcerieri sono soliti rilasciare quelli completamente esausti, ormai sull’orlo della morte, permettendo loro di andare a casa, dove regolarmente muoiono dopo pochi giorni.
Il secondo supplizio è la totale clausura degli internati nelle celle. Solo ogni tanto, secondo l’umore delle autorità del campo sono concessi piccolissimi intervalli d’aria aperta nello spiazzale. Gli internati della prima ora, ad esempio, riescono a fare una piccola passeggiata nel cortile dopo mesi di detenzione, nel novembre del 1993. Riescono a uscire dalle celle quotidianamente solo chi è incaricato di svuotare i secchi che fungono da latrina. In genere si esce dalle celle per essere interrogati con la tortura o per ricevere percosse.
Il terzo supplizio riguarda proprio le torture e le percosse. Botte, schiaffi, pugni, calci, bastonate, randellate, sono all’ordine del giorno. Ci sono anche umiliazioni, come l’immersione della testa nei secchi colmi di urina. Il sadismo dei carcerieri non ha regole, come quando si mettono a urinare sulle teste mentre sono di guardia sulla sporgenza che sovrasta le celle.
Una degli eventi che gli ex deportati del Silos di Tarčin raccontano con terrore nelle loro testimonianze al processo contro i loro aguzzini, è il pestaggio di massa avvenuto il 4 giugno 1992. “Era giovedì, il giorno dell’Ascensione serba. Il direttore Bećir Hujić è venuto nella nostra cella verso le 8.30 del mattino e ci ha detto di consegnare tutte le cose che avevamo tranne i vestiti che indossavamo. Ci ha detto che alcuni membri del corpo di Rijeka ci stavano per fare visita. Verso mezzogiorno arrivò Enver Dupovac [ispettore capo del Ministero degli Interni di Bosnia ed Erzegovina], seguito da circa trenta uomini in uniforme, inclusa una donna. Alcuni indossavano uniformi con insegne HOS [Forze di difesa] e HDZ [il partito nazionalista bosniaco]. Tra di loro c’era anche un gruppo di musulmani di Sanjak, che conoscevo di vista, avendo visto loro il traffico di valuta straniera a Baščaršija e a Sarajevo. Inizialmente hanno iniziato a insultarci, dicendo che noi serbi eravamo porci sporchi, che puzzavamo. Poi si udirono le urla dalla cella n. 1 e via via dalle altre. Dopo il pestaggio di giugno ci ordinarono tutti di allinearsi davanti al muro della cella e dall’alto, da una sporgenza su cui potevano camminare, urinarono su di noi”. Dopo il 4 giugno 1992 non ci sono più pestaggi di massa, ma continuano quelli individuali.
Riferiscono anche gli ex deportati che “molti musulmani dei dintorni sono arrivati al deposito per il grano e la direzione o le guardie del campo hanno permesso loro di entrare nelle celle e picchiare gli internati”.
Il quarto supplizio è l’obbligo di pregare come fanno i musulmani: gli internati, quasi tutti cristiani-ortodossi, sono quindi costretti a inginocchiarsi, allargare i piedi e toccare il suolo con la fronte, pronunciando frasi come: “Crediamo in Allah” o “Allah akbar”.
Il quinto supplizio è la mancanza di igiene. Le celle non sono mai ripulite e gli internati sono costretti a tenere per mesi e mesi gli abiti che indossano nel giorno del loro arresto. Molto raramente è concesso un bagno con acqua, che è sempre fredda.

Le autorità musulmane nascondono il campo di Tarčin alle organizzazioni internazionali, ma il 26 novembre 1992, la Croce Rossa Internazionale, guidata dallo svizzero Mark de Perot, effettua una visita al campo. Nonostante le autorità del campo “preparino” i prigionieri anche elargendo pasti supplementari, la situazione è descritta dai visitatori come inumana. Paradossalmente la comunicazione tra gli internati e i rappresentanti della Croce Rossa è tradotta da un interprete musulmano, un certo Suad di Mostar. Ovviamente, la vicinanza dell’interprete ai bosgnacchi non ha permesso agli internati di riferire cosa stava realmente accadendo nel campo: la paura e il terrore di ritorsioni ha prevalso tra i detenuti che hanno preferito non parlare apertamente. Tuttavia la visita dell’organizzazione umanitaria ha i suoi effetti: gli internati sono registrati, sono concesse coperte, acqua in dosi maggiori e il recapito di pacchi con generi di prima necessità a giorni alterni. Agli internati è anche concesso di uscire dalle loro celle e fare il giro del cortile del Silos, di utilizzare un bagno all’aperto ma, riferiscono i testimoni, solitamente chi si recava a questa latrina è solitamente picchiato e offeso.
In una seconda visita da parte della Croce Rossa Internazionale è riferito che tutti gli internati avrebbero dovuto essere liberati grazie a uno scambio di prigionieri con gli internati del campo serbo di Manjača, ma questo non avviene. Infatti, nella terza visita del 20 dicembre è riferito agli internati del Silos che lo scambio non sarebbe più avvenuto poiché i serbi avevano chiuso Manjača.

Inizialmente nessun internato è utilizzato per lavori, poi sono destinati a scavare trincee sulle prime linee di guerra, nella logistica di guerra. I detenuti sono utilizzati anche per costruire un eliporto nei pressi del campo, luogo in cui più volte approda Alija Izetbegović, presidente della Bosnia ed Erzegovina dal 1990 al 1996, e altri alti funzionari bosniaci di passaggio nei loro viaggi in elicottero durante la guerra.
Le condizioni durante il lavoro sono proibitive, tanto che almeno sedici di loro non sopravvivono.
In totale sono ventiquattro i serbi deceduti nel Silos di Tarčin, morti per abusi fisici, percosse, torture, fame e rappresaglia. Infatti, quando quattro prigionieri sono fuggiti dal luogo di lavoro forzato nei pressi di Hrasnica, i soldati hanno fucilato per rappresaglia alcuni internati.
La Commissione serba per la raccolta di dati sui crimini effettuati contro l’umanità e il diritto internazionale riporta i nomi di ventitré degli internati deceduti per le condizioni assurde del campo o a causa dei lavori forzati:
Bogdan Vujović, la prima vittima del campo di Tarčin, originario del villaggio di Doljani, morto per le percosse il 6 giugno 1992;
Petko Krstić, di Raštelica, deceduto a causa delle torture e della fame il 14 ottobre 1992;
Obren Kapetina, di Deovići, deceduto l’8 novembre 1992 nel Silos per non aver ricevuto nessuna cura medica;
Gojko Varagić, del villaggio di Donja Bioča, deceduto dopo essere stato rilasciato il 20 dicembre 1992 a causa del deperimento fisico;
Svetozar Krstić, di Hadžići, picchiato a morte dalle guardie e rilasciato nel dicembre 1992 ormai morente;
Vaso Šarenac, di Lokve, morto nel dicembre del 1992 a causa dell’inedia e delle torture;
Dragiša Davidović, di Sarajevo, morto nel 1993 durante il lavoro forzato sul monte Igman;
Jadranko Glavaš, di Sarajevo, sgozzato nel febbraio del 1993 dalla guardia Nedžad Hodžić perché aveva lo stesso cognome del capo della polizia di Ilidža (nel Cantone di Saraievo) con il quale non era affatto imparentato;
Milinko Milanović, del villaggio di Deovići, morto per inedia il 17 febbraio 1993 nell’ospedale di Suhodol, dove è trasferito;
Ranko Varagić, di Donja Bioča, ucciso per rappresaglia il 22 aprile 1993 dopo la fuga di quattro internati da Hrasnica;
Milan Krstić, originario di Domašinec, fucilato dopo la fuga di quattro internati da Hrasnica;
Slaviša Kapetina, del villaggio di Zeović, fucilata il 22 aprile 1993 dopo la fuga di quattro internati da Hrasnica;
Andjelko Golub, del villaggio di Odžaci, morto il 25 maggio 1993 durante il lavoro forzato sul monte Igman;
Branislav Njegovan, di Češće vicino a Tarčin, deceduto il 26 maggio 1993 a causa delle ferite che si era procurato durante il lavoro forzato sul monte Igman;
Ranko Vitor, del villaggio di Korča morto il 26 maggio 1993 durante i lavori forzati;
Slobodan Krstić, di Raštelica, morto il 16 giugno 1993 mentre scavava trincee a Hrasnica;
Milomir Petrić, del villaggio di Pazarić, morto il 28 giugno 1993 durante il lavoro forzato sul monte Igman;
Vojo Šuvajilo, di Odžak, morto il 18 luglio del 1993 durante il lavoro forzato a Hrasnica;
Momo Kovačević, di Sokolovića kolonija, ferito durante i lavori forzati in una trincea a Hrasnica, è deceduto per mancanza di cure mediche il 28 luglio 1993;
Slobodan Nikolić, di Sokolovića kolonija, morto il 28 luglio 1993 in seguito alle ferite non curate durante i lavori forzati;
Goran Andrić, del villaggio di Korča vicino Tarčin, morto il 16 agosto 1993 a Donji Kotarac presso Hrasnica, mentre lavorava in una trincea;
Zdravko Samouković, di Pazarić, morto il 1° aprile 1994 dopo aver contratto la tubercolosi nel Silos e non essere stato curato;
Dane Čićić, del villaggio di Ramić, deceduto nell’agosto del 1995 durante i lavori forzati nelle trincee sulla linea di guerra a Sarajevo.

Un momento del processo

Un momento del processo

A seguito dell’accordo di Dayton, più precisamente l’“Accordo Quadro Generale Per la Pace in Bosnia ed Erzegovina”, con il quale ebbe termine la guerra in Bosnia ed Erzegovina, il campo di concentramento Silos di Tarčin è chiuso il 27 gennaio 1996.
Nel luglio 2013 inizia il processo per otto carnefici del Silos di Tarčin, della scuola elementare “9 maggio” e della caserma di Krupa. Sono: Mustafa Dželalović, autorità del comune di Hadžići e capo del cosiddetto quartier generale della crisi; Bećir Hujić, primo comandante del campo Silos; Halid Čović, guardia carceraria in pensione della prigione centrale di Sarajevo e, durante la guerra, prima vice e poi comandante nel Silos di Tarčin; Fadil Čović, ex capo della stazione di pubblica sicurezza di Hadžići; Mirsad Šabić, ex vigile urbano prima della guerra e poi comandante della polizia bosgnacca di Hadžići; Nezir Kazić, comandante della 109a Brigata di montagna (prima 9a Brigata); sotto il cui comando diretto era il campo di Tarčin, e responsabile dei lavori forzati degli internati; Šerif Mešanović, ex secondino della prigione centrale di Sarajevo e poi uomo di fiducia del primo direttore del campo, poi ancora comandante del campo-caserma di Krupa; Nermin Kalember, guardia nel Silos. Tutti sono accusati di aver partecipato a un sistema di abuso di cittadini serbi nel campo di Tarčin e a Hadžići, basato sull’arresto e sulla detenzione illegale di civili, privazione del diritto a un processo giusto ed equo, trattamento disumano dei prigionieri (tra cui la detenzione in celle senza luce e riscaldamento adeguato e comunque in luoghi senza neppure i requisiti minimi per una dignitosa reclusione), utilizzo della tortura, adozione della pratica del lavoro forzato.
Durante il processo l’accusa ha sottolineato che l’istituzione del campo di Tarčin, di quello della scuola “9 maggio” e di quello della caserma di Krupa, sono stati un progetto nato per volontà di persone del luogo, ma in seguito si sono inseriti in un quadro statale.
Gli otto imputati sono stati giudicati, a vario titolo, colpevoli di crimini di guerra contro civili, per aver volontariamente consentito e organizzato la detenzione di civili serbi e croati, di aver negato ai prigionieri i diritti fondamentali e di aver permesso o praticato trattamenti disumani, inflitti con gravi lesioni fisiche e psichiche, di aver autorizzato e permesso il lavoro forzato dei prigionieri.

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Per saperne di più

M. Biondich, The Balkans. Revolution, War, and Political Violence Since 1878, Oxford University Press, Oxford 2001

G. Carter, Muslims Sentenced to 60 Years in Prison for Torture, Rape and Murder of Serbs in Silos, July 6, 2018, https://mightynose.wordpress.com/2018/07/06/muslims-sentenced-to-60-years-in-prison-for-torture-rape-and-murder-of-serbs-in-silos/

D. Suvajlo, 1335 Days, Association of Camp Inmates of Republic Srpska, branch of New South Wales – Australia, Doonside 2013.

J. Ugljesa, J. Starr, Concentration camps, prison and brothels, «ZBook», November 12, 2009.

The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY), http://www.icty.org/.

R. Paternoster, La politica dell’esclusione. Campi: deportare e concentrare, Tralerighe, Lucca (di prossima pubblicazione).