IL SAHEL IN UN VICOLO CIECO

di Max Trimurti -

La Francia, attribuitasi il riservato dominio dell’area africana del Sahel, si trova in un vicolo cieco per carenza di uomini e mezzi tecnici, ma anche per la reale volontà africana di mettere fine a questi conflitti. Le tribù e le etnie hanno preso il sopravvento sugli stati e nessuna soluzione sembra efficace per chiudere un conflitto che dura da più di trent’anni.

Dopo il successo dell’Operazione Serval contro i gruppi jihadisti nel Mali (2013), la Francia sperava di proseguire con altrettanta efficacia la lotta contro i GAT (Gruppi Armati Terroristi) facendo entrare nel gioco gli altri attori internazionali. Nel febbraio 2014 viene fondato, per iniziativa della Mauritania, il G5 Sahel, a cui partecipano Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, paesi che condividono gli stessi problemi di sicurezza. Questo raggruppamento viene immediatamente sostenuto dall’ONU, dall’Unione Europea e dalla Francia, al fine di ottenere un contesto amministrativo internazionale e legale per l’operazione francese Barkhane, lanciata nell’agosto 2014.

L’illusione della vittoria (2013-2014)

Di fronte alla logica transfrontaliera della minaccia dei GAT, il G5 Sahel adotta una risposta pragmatica e transnazionale, accettando di diluire le sue forze nello spazio del Sahel. Di fatto, contro il rischio di fuga dei GAT al di là delle frontiere, il G5 Sahel offre un diritto di inseguimento transfrontaliero; contro zone rifugio a cavallo di diversi paesi, come, ad esempio, la foresta di Uagadu (Mauritania-Mali), il G5 Sahel valida gli interventi comuni, battezzati, ben presto, come operazioni congiunte.
Gli obiettivi sono puramente operativi: impedire qualsiasi possibilità di recupero ai GAT, evitare la formazione di santuari di guerriglia, limitare le capacità di rigenerazione jihadista, tagliare i flussi logistici. Tuttavia, l’operazione Barkhane è, teoricamente, solo un appoggio agli attori del Sahel, le cui forze armate hanno il compito di condurre il combattimento vero e proprio.
Ma in uno spazio nove volte più grande della Francia, qualche migliaio di uomini (di cui poco più di tremila francesi) non risultano sufficienti né adeguati a garantire la fine dei flussi jihadisti. Nonostante ciò, i successi dell’Operazione Barkhane e delle forze speciali sono netti e manifesti. I resoconti delle missioni indicano che, dal 2014, sono state scoperte numerose basi logistiche, sono stati neutralizzati un grandissimo numero di pickup e arrestati molti uomini. Diversi dirigenti dei GAT sono stati uccisi in combattimento o sono stati arrestati.

Il rischieramento dei GAT (2014-2016)

Eppure i gruppi armati sono comunque riusciti a delocalizzarsi e a rischierarsi. Numerosi membri dell’AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) si sono nascosti fra la popolazione, mentre altri hanno lasciato il Mali per il sud della Libia, dove hanno potuto ricostituirsi, reclutare e riarmarsi. I leaders del Mujao (Movimento per l’Unicità ed il Jihad nell’Africa dell’Ovest), che raccoglie popolazioni Peul e Songhai e quelli dei Signatari per il sangue di Mokhtar Belmokhtar hanno unito le loro forze nel 2013 (circa 300 unità) nel movimento denominato Al Murabitun.
I GAT sono sopravvissuti, seguendo una strategia di basso profilo. Piuttosto che ricercare lo scontro con le truppe francesi o maliane, essi hanno sviluppato una strategia di imboscate e di usura sistematica, spesso notturna, adottando una condotta d’azione asimmetrica (attentati con bombe, veicoli al tritolo, posa di mine artigianali). A partire dal 2015 hanno persino potuto attaccare frontalmente alcune guarnigioni dell’esercito maliano nel nord-est del paese, così come anche alcune caserme della missione dell’ONU (MINUSMA), inviata sul posto a sostegno dello stato del Mali. Bersaglio di quaranta attacchi registrati nel corso del 2014, il Mali ne ha ricevuti addirittura novanta nel corso dell’anno seguente. Questi attacchi sono stati rivendicati per il 40% da AQMI e per il 60% da Al Murabitun. Di fatto quest’ultimo risultava capace di intervenire a sud del fiume Niger, come in effetti dimostrano gli attentati all’Hotel Radisson di Bamako (20 novembre 2015), di Uagadugu (15 gennaio) e di Grand Bassam nella Costa d’Avorio (13 marzo 2016).
Fra il 2015 e il 2017 il jihadismo è diventato sempre più aggressivo nel Mali, attaccando anche le stesse basi francesi, e ha potuto migrare verso il sud della fascia sahelo-sahariana. Nel gennaio 2015 il gruppo jihadista del Fronte di Liberazione del Macina (FLM) è comparso sulla scena con l’obiettivo di estendere l’azione del jihad nel sud del Mali e restaurare l’antico impero Peul nella regione del Macina. L’evento ha messo in evidenza l’arruolamento delle popolazioni Peul del Mali, strette fra i Tuareg e gli agricoltori maliani del sud, che rimproverano ai Peul le loro tradizioni pastorali. Con la creazione dell’ISIS nel Medio Oriente, viene costituita nel Mali una sua filiale, l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara), insediato nella regione delle tre frontiere, fra il Niger, il Mali e il Burkina Faso, in una zona abitata da popolazioni povere, in maggioranza Peul. Il gruppo ha ucciso quattro soldati americani a Tongo Tongo nell’ottobre 2017 e messo a segno un attacco contro la guarnigione maliana d’Inates, nel dicembre 2019, con ben settantuno morti.

La diffusione dell’incendio dopo il 2017

La maggior parte degli attentati al di fuori del nord-est del Mali, fra il 2015 e il 2020, sono stati realizzati da sub-sahariani che non hanno nulla del combattente, giovani di una quindicina di anni, apparentemente radicalizzati, ma remunerati e spinti al martirio. Il jihadismo è dunque sceso verso il Golfo della Guinea, dove i GAT hanno potuto ricostituire un nuovo punto di ancoraggio.
Alcuni GAT si avvalgono di una base etnica e regionale (Il Movimento Nazionale dell’Azawad, di origine tuareg, o l’FLM che si basa sul popolo Peul), altri sviluppano una retorica ideologica e religiosa jihadista (AQMI o Ansar ed Din). Tutti si finanziano con traffici illeciti o imponendo tasse sulla popolazione che controllano e si legittimano con la pretesa di incarnare la resistenza contro la brutalità dello Stato, contro gli stranieri e la presenza francese.
L’arruolamento è volontario: esso è connesso con la presenza di gruppi armati in prossimità dei luoghi di vita e della struttura della loro rete clandestina; essi portano, a livello locale, sicurezza, stipendi e armi. Il processo di radicalizzazione o di indottrinamento religioso risulta un elemento secondario in questo contesto.
I GAT eccellono nelle operazioni di sovversione (terrorismo, imboscate), ma falliscono nell’azione di appropriarsi durevolmente di un territorio. In tal modo, la l’influenza del Salafismo negli spiriti appare come la loro arma migliore, in quanto offre la tacita complicità degli abitanti. La loro seconda possibilità si trova nella rete dell’internazionale jihadista, le cui connessioni hanno avuto un sensibile miglioramento a partire dal 2014. Il 2 marzo 2017 è stata annunciata la formazione di una nuova organizzazione, il Gruppo per la Vittoria dell’Islam e dei Mussulmani (GVIM), che è una fusione artificiale di Ansa ed Din, di AQMI, di Al Murabitun e dell’FLM. La nuova struttura è diretta da Iyad Ag Ghali, ben consolidato localmente. Attraverso questa associazione, i GAT mettono in comune le loro reti di collegamenti, le loro esperienze e il frutto delle loro operazioni. In tale contesto, il 13 agosto 2017, un attacco coordinato dal GVIM ha ucciso 18 persone, fra le quali un francese ad Uagadugu (capitale del Burkina Faso), città fino a quel momento risparmiata dalla minaccia.

La questione Tuareg

La questione Tuareg, che è stata al centro di tutte le rivolte del Mali e del Niger e che ha provocato la crisi del 2012, non è stata minimamente risolta. L’MNLA si è dissociato dai GAT islamisti al momento opportuno (gennaio 2015) al fine di apparire nel conflitto come un oppositore disposto al dialogo. I Gruppi autonomisti, associati per diversi mesi ai jihadisti, si sono riuniti in una Coordinamento dei Movimenti dell’Azawad (CMA), che afferma il suo supporto al federalismo, con grande danno dei Maliani del sud. A causa dell’influenza dei movimenti tuareg, la città di Kidal è stata occupata dai soldati francesi e ciadiani e non dall’esercito nazionale del Mali. Questa vittoria nei confronti di Bamako è stata uno schiaffo per i Maliani del sud. Inoltre, la firma dell’Accordo di Pace di Uagadugu, il 18 giugno 2013, è stata considerata, da parte di molti attori locali, poco più di un foglio di carta destinato a rassicurare la Francia. Il 20 giugno 2015 è stato, comunque, firmato l’Accordo finale di Pace di Bamako, che prevedeva il disarmo dei combattenti, la loro integrazione nei ranghi dell’esercito e una decentralizzazione del potere. Promesse già concesse in precedenza e ormai abbandonate da 20 anni.
Bamako ha dunque cercato di giocare sulle divisioni fra i Tuareg, servendosi del colonnello Gamou, promosso generale. In tale contesto, con l’aiuto di militari provenienti dagli Imghad, gli antichi servi dell’aristocrazia tuareg, egli ha costituito il Gruppo di autodifesa tuareg imghad e alleati (Gatia), che opera in coordinamento con l’esercito maliano contro l’MLNA.
I Tuareg costituiscono il 4% della popolazione del Mali, che, ovviamente e sebbene male delimitato, non può essere ulteriormente suddiviso, solo su questa base demografica, tanto più che i tuareg non si associano all’MNLA, né al CMA. I leaders tuareg non sono rappresentativi dell’insieme delle correnti dell’etnia, come lo hanno dimostrato la costituzione del Gatia e gli scontri fra Tuareg a Kidal, nell’agosto del 2016.
La questione tuareg riamane ancora oggi largamente insoluta. I Maliani del sud credono ancora nella sopravvivenza della nazione maliana, spesso a danno dei Tuareg, i quali non sono un blocco unito e la cui aristocrazia ha accettato tutte le forme di compromesso per far rinascere il loro sogno di indipendenza: accordi con i trafficanti di uomini e di droga, briganti di strada, islamisti e jihadisti.

L’assenza dello stato

La minaccia nel Sahel africano è diventata multiforme. Tutti i fattori tradizionali di fragilità sociale e politica si sono accumulati e coniugati: le crisi agricole, la povertà endemica, le rivendicazioni regionali, le ingiustizie sociali, la debolezza degli stati, le dirigenze corrotte e, più ancora, le tensioni etniche, che rallentano la costruzione nazionale e l’iniziativa individuale. Il jihadismo non è dunque che l’aspetto più saliente delle fratture accumulate e l’ultraviolenza risulta un arma fortemente condivisa da tutti gli attori del conflitto: da parte delle ribellioni tuareg, degli Stati, dei trafficanti e dei gruppi etnici che si sentono minacciati.
La nocività dei GAT prolifera sulla frammentazione sociale e approfitta del minimo segno di debolezza degli stati del Sahel: dopo il tentativo di colpo di stato, nel settembre 2015, nel Burkina Faso, le forze armate sono state messe da parte con il parziale smantellamento delle truppe speciali. Ma è proprio questa lacuna di sicurezza che ha consentito poi ad Al Murabitun di montare l’operazione di Uagadugu nel 2015.
I Gruppi armati giocano anche sulla sensazione di abbandono vissuto dalle popolazioni locali nelle regioni di frontiera, come anche nel Tillabery nigeriano o nella zona delle Tre Frontiere e sul vittimismo delle popolazioni di fronte a uno stato giudicato iniquo. Le lagnanze associano dunque la violenza dello stato, la sua cieca repressione e l’assenza di servizi pubblici. Lo stato lascia vaste aree del suo territorio in abbandono, senza provvedere in alcun modo alla sicurezza dei suoi abitanti. Nel Niger, con tremila chilometri di frontiere senza sorveglianza, i combattenti ribelli si possono spostare liberamente lungo la frontiera algerina. Il sistema di intelligence dei GAT e la loro capacità di sfruttare le tensioni sociali, canalizzando, in particolar modo, le frustrazioni della popolazione. Tutti giocano sulla dimensione religiosa, anti-occidentale e strumentalizzano le divisioni etniche, i vecchi conflitti rurali e cittadini, fra pastori e agricoltori.

La frammentazione comunitaria (2017-1019)

Dal 2017 l’insicurezza, la strutturazione per milizie della popolazione hanno influenzato tutto il sud del Mali, il Burkina Faso, il Niger e la Nigeria. La minaccia implica ormai il nord della Costa d’Avorio, l’est della Guinea Conakry ed il nord del Benin e del Togo, dove pattuglie miste israeliane e togolesi cercano di impedire l’intrusione di gruppi armati.
Ma il jihadismo non è più lo stesso e costituisce nella maggior parte dei casi una facciata per le bande armate e i flussi illegali. Nel Tibesti ciadiano, la vecchia ribellione dei Tubus è in fase di rinascita, ravvivata dall’esca dell’oro (scoperta di miniere). Ovunque si sviluppano il contrabbando e i traffici illegali, dalla Libia fino al Mali, con la complicità tacita dell’esercito algerino. In definitiva l’area vive ormai in questa confusione di terrorismo, di popolazioni dedite alla pastorizia e di trafficanti. L’MSA (Movimento per la Liberazione dell’Azawad, rappresentato in maggioranza dall’etnia Dussak Tuareg) e il Gatia dei Tuareg Imghad approfittano dell’instabilità per attaccare il loro nemici Peul e Dozo, senza la minima prova che tali popolazioni siano realmente implicate nel jihadismo. Nel marzo 2019, il villaggio maliano di Ogossagu è stato devastato da cacciatori Dozo della milizia tradizionale Dan Nan Ambassagu, che ha condotto una caccia ai Peul nella zona, facendo più di 130 morti fra i civili.
L’ibridità totale sul terreno (criminalità, jihadismo, pastoralismo, traffici) rende praticamente vane le operazioni contro il terrorismo: di fronte al numero impressionante di soldati uccisi, i governanti del Sahel vogliono operazioni rapide ed efficaci, al fine di mostrare la loro legittimità, ma senza concepire soluzioni durature. Essi coltivano sottobanco lo sviluppo di un sentimento antifrancese (aiutato non poco dalle recenti vicende dello scandalo del franco CFA), per salvare la faccia di fronte alle loro opinioni pubbliche, ambiguità che il presidente francese non ha mancato di sottolineare nel suo discorso del gennaio 2020.

E’ giunto il momento delle soluzioni?

Tutti gli attori ufficiali hanno ormai preso atto della dimensione molto complessa della situazione, ma la maggior parte di essi operano ancora in ordine sparso.
Parigi, da parte sua, ha fallito nel tentativo di coinvolgere nella questione i suoi colleghi europei (eppure noi italiani, questa volta, avremmo tutto l’interesse di bloccare i trafficanti di uomini verso la Libia). In effetti, la maggioranza dei paesi europei non vogliono ritrovarsi in un nuovo vespaio di tipo “afghano” e, soprattutto, non vogliono favorire la Francia nel suo gioco geopolitico in Africa (vedi Libia). Occorrerebbe investire massicciamente nello sviluppo rurale, ma le condizioni non lo permettono in alcun modo. Si parla di macadamizzare la strada fra Gao e Kidal, ma, purtroppo, se ne parla da trent’anni.
Le operazioni militari continuano, ma senza una vera via di uscita a lungo termine. La Francia insiste per far rispettare l’accordo di pace del 2015 e nel gennaio 2020 ha creato la Forza Takuba, un raggruppamento di unità speciali internazionali. L’idea è quella di rinforzare le capacità di combattimento dell’esercito maliano.
Dal lato dei Tuareg, i negoziati con il governo di Bamako hanno fatto dei progressi, consentendo all’esercito maliano di recuperare, nel febbraio 2020, la città di Kidal, da cui erano dovuti fuggire dal 2013. Ma questo ritorno dello Stato nella zona settentrionale potrebbe rivelarsi provvisorio, in quanto tutto dipende dall’atteggiamento del CMA e degli autonomisti tuareg.
Lo Stato del Mali è sempre più tentato da negoziati pericolosi: dal 2017 ha autorizzato la costituzione di milizie comunitarie (Bambaras, Songhai e Dozo) per ridare sicurezza alle regioni abbandonate dalla gendarmeria e dall’esercito, con il rischio, però, di lasciare spazio ad un clima di vendette di tipo etnico. Dal gennaio 2020, Bamako ha espresso il proposito di negoziare direttamente con Iyas Ag Ghali, il maliano che sperano di riportare alla ragione. Ma il capo del GVIM, che si trova in posizione di forza, esige come atto preliminare l’uscita di scena dei francesi e delle forze armate straniere.
Altre soluzioni: soffiare sul fuoco esistente fra i diversi GAT per incitarli allo scontro fratricida. In effetti, proprio a partire dal 2019 le tensioni fra il GVIM e l’EIGS sono diventate sanguinose. Il primo cerca di interpretare il ruolo di attore ragionevole nel conflitto, mentre il secondo rifiuta qualsiasi compromesso e recluta sempre di più fra i giovani. In seno all’FLM, i più agitati vorrebbero allearsi all’EIGS. In tale contesto, più i negoziati fra Bamako e Iyad Ag Ghali procederanno, più i gruppi si divideranno.
Infine, un’ultima ipotesi non è stata ufficialmente evocata, anche se determinati attori vi fanno un pensiero: la partenza pura e semplice, vale a dire il ritiro delle truppe francesi dal Sahel, lasciando i governi locali di fronte a una situazione ingestibile. In questo caso, però, sarebbe come accettare il crollo dell’intero Sahel nell’anarchia e nelle mani dei fondamentalisti: un’eventualità certamente indesiderabile per la Francia, ma anche per l’Occidente.