IL REVANSCISMO RUSSO, TRA CRISI UCRAINA E PAMPHLET DI PARTE

di Alessandro Vitale –

Ma Mosca è veramente vittima dell’espansionismo euro-atlantico? Le semplificazioni e i luoghi comuni usati in un recente volume dallo storico Eugenio Di Rienzo non tengono conto della realtà di un Paese bruciato sull’altare della logica imperiale. Alessandro Vitale, docente di Studi strategici all’Università degli Studi di Milano, smonta l’ipotesi “reattiva” e quella del presunto “diritto storico” russo a mantenere lo status di grande potenza.  

 

Il libro di Di Rienzo, che ha un titolo impreciso ma di sicuro impatto (voluto dall’Editore, come dichiarato dall’Autore: Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale, Rubbettino, 2015), si presenta come un’agile sintesi e questo è il suo pregio indiscutibile. Tuttavia questa ammirevole capacità di sintetizzare questioni così complesse si scontra con la sua natura evidente di pamphlet che dà per scontate definizioni e supposizioni usate di frequente nella pubblicistica, ma che derivano anche da luoghi comuni e da eccessive semplificazioni. Il suo nucleo centrale è la relazione fra il decision making e l’azione della politica estera delle potenze occidentali da una parte e, dall’altra, la conseguente “reazione” della Russia, di fronte a una proditoria sfida, impostale nel suo “cortile di casa”. Tale “risposta inevitabile” della Russia dà per scontate molte cose che non lo sono per nulla.

Si tratta infatti di un semplificato meccanismo stimolo-risposta che colloca la Russia in posizione esclusivamente “reattiva” ed è però anche un sofisma post hoc, propter hoc: un argomento fallace (poiché il fenomeno A ha preceduto B, A ha causato B) basato sull’ordine degli avvenimenti, dimenticando altri fattori che possono anche escludere quella relazione causale. Un errore frequente, questo, nell’interpretazione storica (l’antecedente temporale è anche la causa del fenomeno successivo), che rischia di generare luoghi comuni. Uno di questi, molto diffuso e spesso usato in forma monocausale (già di per sé rischiosa, come ha insegnato Max Weber) è proprio che la Russia agisce nel suo near abroad (blizhnee zarubezhe) rispondendo al tentativo di allargamento delle istituzioni euro-atlantiche e all’espansione della loro sfera di influenza. In realtà, il problema principale per la Russia, ossia gestire un declino catastrofico – a partire dal crollo dell’URSS alla fine degli anni Ottanta – cercando di mantenere lo status di grande potenza (parte integrante della sua identità) inscindibile dalla dimensione imperiale – questione esplosa nel 1991 con le indipendenze delle Repubbliche – non solo è stato precedente ai progetti di allargamento e di influenza occidentale (ma questo non fa uscire dal sofisma), ma era anche indipendente da quelli. A uno studio approfondito si scopre, infatti, una forte linea di continuità nella politica estera della Russia dalla fine dell’URSS in poi, stimolata dal fastidio generato dalla percezione di non essere più considerata come una superpotenza (sverchderzhava), di rango globale.

Boris Eltsin - Kremlin.ru

Boris Eltsin – Kremlin.ru

Il recupero di status internazionale, inteso come riscatto e compensazione, ha fatto da sfondo a tutti i progetti sia di tamponamento del collasso dello Stato territoriale russo (Cecenia, Ciscaucasia, ecc.), ritagliato per differenza dall’Impero collassato, che di ricomposizione imperiale, succedutisi a partire dallo shock della disintegrazione. Fin dall’aprile del 1993, infatti, (con il Nuovo concetto di politica estera di Eltsin) la politica estera russa ha assunto un carattere attivo (trasformando il Paese in “soggetto” geopolitico) e niente affatto “reattivo”: quest’ultimo sarebbe equivalso a un ruolo subordinato e al riconoscimento della perdita definitiva di status di velikaja derzhava (“grande potenza”). Difendendo quel carattere, invece, la Russia ha incominciato a ripiegarsi sulla sua diversità, sul suo “eccezionalismo” storico e “bicontinentale” euroasiatico, a rigettare una convergenza con l’Occidente e a porsi come priorità principale di politica estera lo spazio ex sovietico, nei confronti del quale, “predestinata a essere una grande potenza”, si assumeva diritti e speciali responsabilità da trasformare in “integrazione” regionale – naturalmente “alla russa”, come rilevano ironicamente i popoli “ex sovietici” dell’estero vicino. Incomprensioni e tensioni fra Europa-Occidente e Russia, che continuava ad percepirsi come potenza di rango superiore, risalgono ai primi anni Novanta, prima e del tutto indipendentemente dagli allargamenti a Est o dalle (tendenziali) “invasioni di campo”. Del resto il libro riconosce, facendo largo uso della dottrina geopolitica, una spinta interna alla Russia verso questa esigenza di estendere la sua influenza nel near abroad, del quale l’Ucraina – considerata già nel 1991 come “in vacanza temporanea” dalla “naturale” sfera imperiale a guida storica grande-russa (per non parlare della Crimea!) – che è stata da subito il principale problema per Mosca.

Questo riconoscimento dell’Autore, tuttavia, pone in contrasto la sua ipotesi “reattiva” con quella, teorizzata nella seconda parte del libro, di un’azione autonoma e “ineluttabile”, di carattere “geopolitico” e basata su un presunto “diritto storico”, volta a mantenere lo status di grande potenza, che rimane in effetti il vero collante identitario della classe politica e intellettuale post-sovietica russa e degli strati popolare più poveri e frustrati. Se già esistevano da molto tempo profonde e cogenti cause “geopolitiche” del riaccorpamento imperiale e condizionamenti storici di lungo periodo, come sottolinea il libro, far riferimento alla “reazione” a progetti di influenza o agli allargamenti è cercare una causa non solo non dimostrata, ma anche irrilevante. Che quella reazione sia presente o meno, infatti, non cambia nulla nella politica estera russa, già di per sé guidata dall’autoconcezione di velikaja derzhava e orientata al recupero, prima o poi, del proprio “cortile di casa”. Indimostrata lo rimane, nonostante gli sforzi dell’Autore di dimostrare il contrario, perché mentre questa politica estera russa è apparsa presto chiara, UE e istituzioni euro-occidentali, contrariamente alla prima tesi del libro, non hanno saputo per vent’anni che pesci pigliare nei confronti dell’Ucraina (nonostante i progetti di quanti “falchi” si voglia: anche la Polonia ha dovuto dimenticarsene molto a lungo, pena la sua esclusione dall’allargamento a Est dell’UE), confinandola come una patata bollente (anche per “non disturbare la Russia”) nella sua posizione di Pufferstaat espulso da Occidente e da Oriente.

Parata sulla Piazza Rossa a Mosca - Vladimir Rodionov

Una recente parata sulla Piazza Rossa a Mosca – Vladimir Rodionov

Persino la NATO – come risulta inequivocabilmente dai dati del SIPRI di Stoccolma, ha perseguito una politica militare di basso profilo e di tendenziale disarmo, a fronte di un riarmo nucleare russo imponente dopo aver violato gli Accordi di Budapest, che in cambio del disarmo nucleare ucraino avevano fatto promettere alla equipe di potere alla guida della Russia post-sovietica un astenersi futuro dalle ingerenze – ha congelato molto per tempo gli allargamenti a Est e ha finito per dimostrarsi del tutto inefficiente (come dimostrano gli attuali timori per una scarsa garanzia di sicurezza di Polonia e Repubbliche Baltiche) nei confronti dei conflitti nell’estero vicino (primo fra tutti quello georgiano). Semmai solo nel caso dell’Ucraina si può parlare di vero “accerchiamento” (e molto materiale: a causa di confini espulsivi – ad esempio della UE – sempre più rigidi o dei ricatti energetici da Oriente), mentre nel caso russo si tratta solo di una percezione costante nella storia, usata anche per costruire il nemico esterno, che non è detto corrisponda sempre alla realtà.
Non andrebbe poi dimenticato che l’eurocrate Romano Prodi affermò che le possibilità dell’Ucraina di far parte dell’UE erano pari a quelle della Nuova Zelanda. Queste presunte “mire occidentali” sull’Ucraina, usate come spiegazione costante dalle diffuse tesi complottiste – in realtà pura indifferenza (i Paesi occidentali hanno sempre considerato “persa” l’Ucraina) durata più di due decenni, tamponata tardivamente per iniziativa polacca, baltica, svedese e finlandese solo nel 2009, quando la situazione stava peggiorando – hanno finito nella realtà delle cose per portare l’Ucraina alla condizione di una pentola a pressione, che alla fine è esplosa.

Anche a tal proposito dal libro emerge il latente carattere del pamphlet polemico e di parte: la ripetuta definizione dell’Euromaidan sul Maidan Nezalezhnosti (novembre 2013-febbraio 2014) come “colpo di Stato” è fare uso di una definizione volta a suscitare antipatia ed emozioni negative, che però non trova fondamento nella Scienza della politica. Il “colpo di Stato”, infatti, ha come elemento costante quello di essere un atto compiuto da organi dello Stato e da titolari di suoi settori chiave per impadronirsi del potere. Ben diversa è una rivolta (o sommossa), per di più con scarse possibilità di riuscita, che ha di fronte l’intero apparato repressivo di un governo. Inoltre, il primo necessita dell’occupazione preventiva di centri nevralgici (mass media, nodi ferroviari e stradali, ecc.) pianificata a tavolino da lungo tempo e non la semplice mobilitazione politica e sociale di lungo periodo contro un governo già in grave crisi di legittimità e trasformatosi in tirannide. Non basta infatti possedere la maggioranza numerica per essere un governo legittimo. L’esercizio del potere (la tirannide ex parte exercitii, come ha insegnato Bartolo da Sassoferrato) può benissimo disintegrare la legittimità politica.

Manifestazioni a Kiev nel febbraio 2014 - Аимаина хикари

Manifestazioni a Kiev nel febbraio 2014 – Аимаина хикари

Lo stesso dicasi per la caratterizzazione, ossessiva nel libro, delle “forze fasciste ucraine”. Un’insistenza singolare su un’esigua minoranza, a fronte dell’incombente presenza ai confini ucraini di una potenza espansionista come quella del Cremlino, che sta sperimentando una rapida restaurazione politica interna, erede del modello statuale prussiano senza eccezioni costituzionali volte a limitare il potere e dello statalismo più integrale del Novecento, in fase di drastica centralizzazione politica e basata sull’ideologia del “numero-potenza”, dell’autarchia, su un nazionalismo esasperato, sulla presenza di un leader forte e sulla rivalutazione di Stalin, sull’aperta revisione dell’assetto post-91, sulla teorizzazione del “diritto di conquista”, sul mito del Blut und Boden, sul controllo capillare di economia e società da parte di onnipresenti e esperti servizi segreti formatisi nel periodo sovietico e che si serve dell’asservimento dei mass-media, dell’uso sistematico della propaganda, dell’eliminazione fisica del dissenso (a Mosca come in Crimea), di slogan bellicosi che creano di punto in bianco tensioni dove non ce n’erano per infiammare le minoranze irredentiste di Paesi confinanti e orientata a un sistematico riarmo, terrificante per tutti i vicini.

Fermo restando che nelle tensioni Russia-Occidente violazioni di accordi internazionali, come noto, si sono verificati da entrambe le parti (anche se la promessa di non allargare ulteriormente a Est fatta a Gorbaciov non era un accordo formale) e che nel conflitto russo-ucraino le brutalità si sono sprecate su entrambi i fronti, cercare nella “buona volontà” “orientalista” dell’attuale dirigenza russa, “tradita” a un certo punto dalle mire occidentali, una giustificazione per l’interventismo latente nel near abroad appare quanto meno fuorviante, se non falso.
Il libro poi dà per scontata l’inevitabile appartenenza dell’Ucraina all’impero della Russia moscovita (Ucraina e Belarus come “cuore del territorio russo”), senza tener conto del fatto che la Russia imperiale è stata un’aggregazione politica per sua natura del tutto opposta rispetto alla Rus’ di Kiev, che era frammentata e priva del concetto moderno di sovranità, per quanto avesse origini culturali comuni alla successiva Russia moscovita, nata molto più tardi e in lotta con regni che l’hanno contrastata per secoli, della quale Belarus e gran parte dell’Ucraina hanno fatto parte: la plurisecolare ed estesissima Confederazione Polacco-Lituana, sulla quale ben poco si sa in Occidente e contro la quale si è esercitata in modo distruttivo e gravemente fuorviante (quando non in modo censorio) la storiografia sovietica.

Il volume di Di Rienzo

Il volume di Di Rienzo

Sorvola inoltre sul fatto che l’Ucraina ha visto dominazioni e inglobamenti eterogenei nella storia, anche per periodi molto lunghi, nonché su quello che la sua proiezione verso Occidente è stata una costante nelle sue regioni occidentali e non è affatto una novità. Scrivere di una “Russia amputata dell’Ucraina” come “irreparabile sconfitta strategica di Mosca” rischia di far scivolare nel determinismo storico e geografico e rivela un utilizzo di metafore organicistiche (tipiche delle dottrine imperiali) che sono sempre funzionali all’uso della violenza (H. Arendt). La percezione del problema in questi termini in Russia non toglie infatti che (pur avendo conseguenze materiali) si tratti di una pretesa del tutto infondata.
Il testo, che si appoggia alle tesi di Kissinger sul ruolo esclusivo delle superpotenze (la Russia rimane una potenza nucleare) e sul “reciproco rispetto degli interessi geopolitici legittimi delle maggiori potenze”, le uniche legittimate a introdurre nel sistema internazionale i cambiamenti, rivela una nostalgia retrò per l’ordine bipolare, tipico di chi non ha ancora capito cosa sia avvenuto nel 1989-1991. L’esplosione della camicia di forza di relazioni ultra-politicizzate come quelle dell’epoca bipolare, l’esplosione di bisogni insoddisfatti negli Stati moderni coatti e l’insofferenza per dominazioni date per scontate,nonché il ritorno al ruolo del profondo cambiamento storico non interessa minimamente i portatori di queste tesi fossilizzate su un passato finito, nel quale dominavano l’ordine della sottomissione e della spartizione del mondo. Non è stato l’Euromaidan a incrinare il delicato equilibrio fra Oriente e Occidente esistente in Ucraina, ma sono proprio queste nostalgie da ritorno all’ordine bipolare che stimolano quell’incrinatura, dovuta alla politicizzazione di identità intrecciate e sfumate, con l’uso di una massiccia propaganda e con la pretesa di fondere identità culturali con identità “nazionali” statalizzate.

I temi del libro sono ancora molti e andrebbero discussi a fondo. Si può forse solo aggiungere che se nel 1991 non si è giunti a un’Europa orientale integrata, finalmente aperta alla cooperazione e alla libera circolazione di uomini, idee, mezzi e capitali, non hanno contribuito solo la rivitalizzazione di un’idea vecchia e stantia d’Europa (figlia della guerra fredda) come quella di Maastricht e di Bruxelles, spacciata per nuova e originale compagine politica e l’ossessione securitaria (non certo infondata) delle Repubbliche ex sovietiche resesi indipendenti, ma anche e soprattutto l’auto-irrigidimento della Russia, guidata non tanto da un ineluttabile (e inesistente) “interesse nazionale”, ma da una deliberata azione scaturita dalla volontà di classi politiche in carne e ossa, eredi dirette del sistema sovietico e di un’idea di società chiusa, sciovinista, vittimista e revanscista, coltivata ad arte e propagandata ad arte nel resto della popolazione.
La Russia potrebbe essere il Paese più ricco, progredito e felice del mondo, se solo i suoi abitanti si accorgessero delle potenzialità che ha bruciato negli ultimi secoli sull’altare dell’Impero (al quale tutto – come scriveva Aleksandr Herzen – è stato sacrificato) e che oggi continua a immolare su quello di un’ossessiva Machtpolitik. E naturalmente potrebbe trasformarsi in un Paese stimato per la sua rinnovata organizzazione interna, per il rispetto nei confronti di vicini (anche di molti Russi d’Ucraina, che si sentono cittadini di questa Repubblica e che esigono il self rule), che aspirano a conservare l’indipendenza, cooperando innanzi tutto con questi ed esercitando con il suo solo esempio una formidabile forza d’attrazione, facilitata anche dall’eredità della sua grande cultura e dal fascino per la sua immensità e per la sua enigmaticità, da sempre fonti d’interesse e ammirazione mondiale.