IL LUNGO CREPUSCOLO DELL’ARISTOCRAZIA ITALIANA
di Roberto Poggi -
Dalla penna di Gabriele D’Annunzio, così abile nel raccontare il mesto tramonto della nobiltà italiana, alle sentenze evolutive della storia: la parabola dell’aristocrazia ha attraversato il ’900 avvinghiata all’imperativo di “declinare sopravvivendo”. Avversata e corteggiata dal ceto borghese.
L’aristocrazia idealizzata
(Da Storia in Network nn. 146-147, dicembre 2008-gennaio 2009) Sopravvivere declinando, oppure declinare sopravvivendo: come rivela Gian Carlo Jocteau questo è, secondo la lettura di gran parte della storiografia, l’imperativo della nobiltà europea nel trapasso tra otto e novecento. Assumendo la decadenza della nobiltà come un dato inoppugnabile, incontrovertibile, molti studiosi corrono il rischio, spesso senza esserne consapevoli, di avviare le loro ricerche verso esiti tautologici, in cui la ricostruzione del ruolo politico, della cultura, degli interessi economici della nobiltà rimane soffocata dai luoghi comuni e dalla contemplazione degli aspetti puramente estetici di quell’universo.
Riteniamo che tale approccio, stigmatizzato da Jocteau, il quale tuttavia non è immune dal rimanere impigliato in alcune prese di posizione aprioristiche, sia alimentato da una vigorosa radice letteraria. In altre parole, la storiografia stenta a liberarsi dall’influenza esercitata dalle immagini dell’aristocrazia proposte dalla letteratura di fine ottocento, rimane passiva di fronte alla deformazione dei suoi strumenti di analisi ad opera di persistenti, nonché affascinanti suggestioni letterarie. La più pericolosa di queste suggestioni letterarie consiste nel considerare totale e assoluta l’emarginazione politica della nobiltà, puntando di riflesso l’attenzione sulla resistenza, più o meno tenace, degli status, delle consuetudini familiari, dei consumi vistosi, dei comportamenti sociali delle élites tradizionali.
Nel panorama culturale italiano, uno dei più seducenti evocatori di immagini nobiliari è senza dubbio Gabriele D’Annunzio che, nella prima fase della sua produzione artistica, distillando la sua esperienza di cronista mondano, finisce quasi per essere ossessionato dal tema del crepuscolo della élite tradizionale. La lettura delle sue prime prove letterarie ci pare pertanto estremamente interessante, in quanto consente di evidenziare una forma estrema, quasi iperbolica, di commistione tra la celebrazione delle rare virtù della nobiltà e la rappresentazione dello sdegnoso rifiuto di ogni coinvolgimento politico da parte dell’aristocrazia italiana.
Facendosi largo tra le preziosità linguistiche e tra gli accenti poetici di D’Annunzio, è possibile rendersi conto come la sua idealizzazione della nobiltà tragga la sua capacità seduttiva, spesso irresistibile per la storiografia, dalla spoliticizzazione della nobiltà. Il crepuscolo nobiliare descritto da D’Annunzio è più languido e struggente poiché appare più netta l’incompatibilità tra la nobiltà e la modernità, tra la nobiltà e la politica.
L’incitamento alla restaurazione aristocratica contenuto nelle Vergini delle rocce non deve trarre in inganno, dal momento che esso ha più il sapore di una profezia sull’inevitabile collasso della società democratica ed egualitaria che la consistenza di un invito all’impegno politico.
Ben più rilevatore della visione dannunziana ci pare sia lo sprezzante commento del Conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, protagonista del Piacere, alla vista della folla in tumulto a causa dell’orrore suscitato dalla strage di Dogali: “Per quattrocento bruti, morti brutalmente!”.
Inserita nel contesto culturale dell’Italia umbertina, sommersa dalla retorica patriottica, questa frase scava un fossato incolmabile tra una élite tradizionale che spreca la sua agonia in una sterile ricerca della bellezza ed una società che nel corso della sua inarrestabile trasformazione vive momenti di profonda crisi.
L’idealizzazione della nobiltà operata da D’annunzio giunge sino al punto negare che l’esercizio del potere sia storicamente il principale tratto distintivo dell’aristocrazia. Egli identifica invece l’aristocrazia con l’eletta cultura, con la superiorità spirituale.
Nel Piacere si legge: “Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e d’arte. A questa classe, ch’io chiamerei araldica, appartenevano gli Sperelli. L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studi insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie.”
E’ sufficiente pensare alla opprimente povertà culturale di molte delle scuole riservate ai rampolli blasonati per rendersi conto delle dimensioni della trasfigurazione dannunziana della nobiltà. Interessanti a questo proposito sono le osservazioni di Rosario Romeo sui programmi di studio dell’Accademia Militare di Torino all’inizio dell’ottocento.
L’occasionale incontro tra la nobiltà romana e le altre classi sociali è per D’Annunzio una preziosa occasione per enfatizzare la diversità della nobiltà e l’impossibilità di qualsiasi forma di convivenza tra essa e coloro i quali non ne condividono il sublime ideale di vita.
La ripugnanza dello Sperelli per tutti gli esclusi dal bel mondo romano risulta in tutta la sua evidenza quando egli è costretto a farsi largo tra un pubblico di mercanti per partecipare all’asta delle suppellettili della dimora della sua amante, Maria Ferres. D’Annunzio scrive: “Intorno, s’affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poiché d’estate mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri di ottenere oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell’aria calda, emanato da quegli uomini impuri. [...] Andrea soffocava.”
Anche la sublime bellezza della Roma barocca e principesca che costituisce lo sfondo su cui si consuma nel Piacere lo struggente crepuscolo della nobiltà romana non fa altro che mettere in risalto la scelta di D’Annunzio di identificare l’élite tradizionale con l’estraneità alla politica, alle trasformazioni sociali, culturali e perfino urbanistiche in atto.
Nella finzione dannunziana non vi è traccia della spregiudicata speculazione edilizia operata dalla nobiltà romana dopo il crollo dello stato pontificio. La bramosia per il vile denaro non può che appartenere ai nuovi ricchi borghesi, patetici nel loro goffo tentativo di elevarsi socialmente imitando il sublime stile di vita delle élites tradizionali.
Mentre per D’Annunzio la spoliticizzazione della nobiltà è soltanto un mezzo per arrivare ad evocare con maggior forza un ideale di bellezza e di raffinatezza inesorabilmente minacciato dalla modernità, gran parte della storiografia si pone invece come finalità quella di negare la rilevanza politica e culturale della nobiltà, avvalendosi delle immagini e degli stereotipi creati dalla letteratura, spesso senza alcuna pretesa di rigorosa aderenza alla realtà.
L’eterogeneità della classe dirigente
Nel panorama storiografico degli ultimi decenni, uno dei più interessanti tentativi di ricostruzione del tessuto culturale della classe dirigente liberale postunitaria è rappresentato dal saggio di Silvio Lanaro Nazione e lavoro. Attraverso l’analisi dell’intellettualità cosiddetta funzionaria, cioè quella dotata di scarse capacità creative, ma di spiccate capacità di diffusione degli ideali, dei valori, dei progetti e delle aspirazioni del blocco dominante, Lanaro si sforza di dare corpo a una rappresentazione monolitica della classe dirigente liberale, in base alla quale le differenziazioni sociali, politiche e culturali diventano evanescenti, essendo sgretolate dalla generale invocazione di una rapida industrializzazione del paese.
Questa interpretazione genera nel lettore quanto meno il sospetto che la borghesia modernizzatrice, oggetto del saggio, tenda a coincidere con l’intera classe dirigente. Anche al di là dei dubbi, peraltro legittimi, sulla definizione eccessivamente fumosa e sull’uso estremamente rigido della categoria di intellettuale funzionario, il saggio di Lanaro ci pare criticabile in quanto si fonda su di una versione estremizzata dell’interpretazione del Risorgimento come rivoluzione borghese, versione che trascura completamente sia le sfaccettature sociali, politiche e culturali del blocco dominante, sia il peso delle forze di resistenza al cambiamento economico, sociale e politico.
Sull’esistenza di uno stretto legame tra Risorgimento e affermazione della borghesia concordano, seppur con sfumature diverse, sia la tradizione liberale che la tradizione di sinistra della storiografia italiana.
Un autorevole storico di sinistra come Giorgio Candeloro, ad esempio, non ha alcun dubbio su di una definizione del Risorgimento come rivoluzione nazionale e borghese. Nel suo volume dedicato alla costruzione dello stato unitario scrive: ” … la parola Risorgimento, entrata ormai nell’uso comune, può essere usata senza danno dell’esatta comprensione storica per indicare la rivoluzione borghese e nazionale italiana … “.
L’apparente perentorietà di questa affermazione non deve tuttavia trarre in inganno, Candeloro infatti, sfruttando le acute analisi di Gramsci, il quale però non usa mai il termine rivoluzione borghese per indicare il Risorgimento, non esita a denunciare i vistosi limiti della rivoluzione borghese italiana. Egli afferma: ” In sostanza la rivoluzione borghese in Italia si era conclusa con un compromesso tra due forze sociali: da un lato gruppi di capitalisti agrari, mercantili e in piccola misura industriali, dall’altro gruppi di proprietari terrieri, giuridicamente ormai borghesi, ma ancora feudali o semifeudali nella realtà effettiva dei loro rapporti con le masse contadine. Compromessi di questo tipo conclusero le rivoluzioni borghesi anche in altri paesi; si deve notare tuttavia che in Italia il peso delle forze conservatrici fu in questo compromesso particolarmente notevole per effetto della specifica situazione politica e sociale del paese e in parte dell’influenza della situazione europea. Di conseguenza la classe dirigente liberale italiana ebbe un’anima progressiva ed un’anima conservatrice, e questa prevalse nei momenti di crisi fino a spingerla su posizioni reazionarie “.
Sebbene Candeloro rilevi la presenza di ostacoli e di impedimenti alla piena realizzazione della rivoluzione borghese, egli non si preoccupa di approfondire i termini, le clausole del compromesso tra la nascente borghesia produttiva e le forze feudali sopravvissute. Mancando un’analisi di tutti gli aspetti di questo difficile accordo l’immagine del compromesso risulta notevolmente indebolita, si insinua il sospetto che le residue forze feudali ed aristocratiche vengano assimilate ad una sorta di ala destra della borghesia. Seppur in maniera più sfumata torna l’idea del monolitismo della classe dirigente.
Sia che la classe dirigente venga rappresentata come un blocco unico, sia che venga ammessa l’esistenza di un compromesso tra diverse forze sociali, economiche e culturali, l’assoluta egemonia della borghesia nel sistema politico ed all’interno della classe dirigente appare indubitabile.
Tale sostanziale coincidenza di interpretazioni, apparentemente molto lontane tra loro, è dovuta in massima parte al comune riconoscimento di una priorità alla ricostruzione dell’affermazione della nuova borghesia capitalistica rispetto all’evidenziazione delle dinamiche della resistenza politica, culturale ed economica della vecchia classe dominante aristocratica. Di fronte alla travolgente conquista della politica, dell’economia, della cultura da parte della borghesia, la problematicità dell’assimilazione dell’aristocrazia al nuovo ordine viene considerata di scarso interesse.
Non c’è da stupirsi che un rigoroso e ben documentato saggio di storiografia dello sviluppo economico come quello di Cafagna si limiti a dimostrare su di un piano esclusivamente economico il carattere spurio della rivoluzione borghese italiana, mettendo in evidenza la tormentata gestazione di una moderna borghesia produttiva e la fragilità del capitalismo italiano, dovuta all’esistenza di un insuperabile dualismo economico tra Nord e Sud.
Poco comprensibili sono invece le ragioni che spingono Candeloro a enfatizzare la debolezza economica della borghesia italiana senza una opportuna verifica dei limiti della rivoluzione borghese a livello politico e culturale. Egli ammette la vulnerabilità economica della nascente borghesia italiana, al tempo stesso però nega, o quanto meno minimizza, le difficoltà e gli ostacoli al pieno ed esclusivo esercizio del potere politico da parte della borghesia.
Nonostante l’evocazione di un compromesso tra differenti forze sociali, Candeloro, analizzando la gestione politica del Risorgimento e del postrisorgimento, tende inoltre a sfumare ogni significativa differenziazione politico-culturale tra aristocrazia e borghesia all’interno della classe dirigente liberale. Tralascia ogni indagine sul ruolo dell’aristocrazia muovendo dalla giustificazione che essa è al momento dell’Unità estremamente debole, sulla via di imborghesirsi sul piano economico e priva sul piano politico del prestigio militare di cui gode invece quella prussiana. A questo proposito scrive: “In Italia, dopo le riforme illuministiche e napoleoniche, non esistette più uno stacco netto tra aristocrazia e borghesia: la prima infatti, pur conservando, soprattutto in Piemonte, una posizione preminente nell’esercito e nella diplomazia, si era in larga misura imborghesita e non disdegnava le attività bancarie e commerciali… “.
Anche accettando l’idea che dal punto di vista economico l’aristocrazia italiana si sia imborghesita piuttosto rapidamente, ci pare sia ragionevole ipotizzare la permanenza di una certa diversità politico-culturale tra aristocrazia e borghesia. L’individuazione di comuni interessi economici non elimina affatto la possibilità dell’esistenza di divergenze politiche, di differenti progetti di sviluppo del sistema politico, di diverse priorità politiche, di differenti paradigmi culturali. Pertanto assimilare l’aristocrazia alla borghesia e considerare irrilevante la sua presenza all’interno della classe dirigente, nelle alte sfere dell’esercito, nella burocrazia, nel corpo diplomatico, ci sembrano semplificazioni per molti aspetti ingiustificate.
Il problema del riconoscimento della rilevanza del ruolo delle élites tradizionali all’interno della classe dirigente liberale non ci pare sia risolvibile attraverso un semplice spostamento dell’attenzione dalla fragilità economica della borghesia italiana ai limiti del sistema politico postunitario, passando cioè da una indagine condotta nell’ottica della storia economica ad una condotta nell’ottica della storia politico-culturale.
A questo proposito ci pare utile richiamare la posizione espressa da Giorgio Galli nel suo saggio dedicato al sistema partitico postunitario, saggio che occupa un posto di un qualche rilievo nel panorama del rinnovamento della storiografia italiana dei primi anni settanta. Interrogandosi sulle ragioni della mancata nascita in Italia di un partito borghese organizzato, Galli formula l’ipotesi che i limiti della borghesia postunitaria non derivino soltanto dall’arretratezza economica, ma anche dalle caratteristiche del sistema politico-amministrativo, in modo particolare dalla ristrettezza del suffragio e dall’intimo e perverso intreccio tra politica e pubblica amministrazione.
Scrive: ” … la mancata aggregazione dei due primi partiti borghesi storici … è molto collegata, più che a fattori strutturali (lo sviluppo economico) a fattori sovrastrutturali (l’organizzazione del sistema politico-amministrativo). La borghesia italiana è più incerta, meno risoluta, nonostante tutto, sul terreno politico che sul terreno economico. I suoi rappresentanti corrono il rischio dell’impopolarità per la razionalizzazione finanziaria, ma non si fidano ad ampliare, col suffragio, le basi di consenso e a lasciar crescere, attraverso la responsabilizzazione, le autonomie locali liberate dal controllo centralistico della pubblica amministrazione. ”
Come si può notare dal passo citato la dichiarazione di Galli di voler ricercare i limiti della borghesia liberale all’interno del sistema politico non solleva necessariamente il problema del ruolo dell’aristocrazia. Egli evoca il deficit di legittimazione della classe dirigente postunitaria, il suo isolamento rispetto al paese, la sua profonda diffidenza verso le classi subalterne e le autonomie locali, ma non si preoccupa di interrogarsi sui modi di integrazione tra borghesia ed aristocrazia all’interno del blocco dominante.
Senza alcuna valida giustificazione arriva persino a trascurare alcuni rilevanti aspetti formali del sistema costituzionale postunitario.
Puntuali e precise appaiono in merito le critiche di Ettore Rotelli alla storia dei partiti politici di Galli. Se da un lato Rotelli apprezza il fatto che Galli abbia considerato il sistema partitico nel suo insieme, superando la tentazione di soffermarsi unicamente sulle singole formazioni politiche, dall’altro gli muove un secco rimprovero: “… l’intero saggio di Giorgio Galli sembra scritto nel presupposto che nell’Italia liberale vigesse un regime parlamentare non esposto a tentazioni di ingerenza dinastica e a rischi di involuzione. Così tutto quello che succede appare prodotto esclusivo degli uomini e dei raggruppamenti politici presenti nel Parlamento e nel Paese.”
Le critiche di Rotelli alla sottovalutazione del ruolo politico della Corona e del cosiddetto partito di Corte non ci pare debbano essere intese come un invito a fermarsi agli aspetti formali e costituzionali, quanto piuttosto come un’indicazione dell’assoluta rilevanza di questi ultimi per arrivare ad una interpretazione più completa ed articolata della classe dirigente liberale e del sistema politico postunitario.
Se si ammette la fragilità della borghesia liberale riteniamo ci si debba interrogare anche sull’esistenza di una certa eterogeneità sociale, politica e culturale della classe dirigente, tenendo conto delle ambiguità e dei rischi di involuzione presenti nel sistema politico-costituzionale italiano.
Non si può dimenticare che la lettera dello Statuto albertino assegna alla Corona, cioè ad una forza la cui assimilabilità alla borghesia è più che problematica, un peso considerevole nel sistema politico. Troppo spesso si tende a far passare in secondo piano il fatto che a livello costituzionale il compromesso, rappresentato dallo Statuto albertino, tra monarchia ed aristocrazia da una parte e borghesia dall’altra è quanto mai ambiguo.
Considerare come acquisita, a partire dal “connubio” cavouriano, la trasformazione in senso parlamentare della carta costituzionale del 1848 ci pare per molti aspetti una scorciatoia per eliminare il problema del ruolo dell’aristocrazia nel sistema politico, e per non mettere in discussione l’idea della piena coincidenza tra borghesia e classe dirigente.
Ernesto Ragionieri e Umberto Levra, a più riprese ma senza troppa fortuna, hanno fatto osservare come la storiografia italiana abbia largamente trascurato il ruolo della monarchia nel sistema politico postunitario. Nonostante l’indubbio interesse di questi rilievi, ci pare tuttavia che il problema dell’analisi delle forze non del tutto assimilabili alla borghesia non possa essere ridotto alla ricostruzione del ruolo politico della “camarilla di corte”.
Il disinteresse per la Corona è solo un sintomo di una lacuna ben più ampia e profonda.
Se è vero che l’analisi della struttura economica non è di per sé sufficiente a spiegare le ragioni della debolezza della borghesia, è altrettanto vero che per porsi il problema del ruolo dell’aristocrazia occorre muoversi in un’ottica nuova, di più ampio respiro.
Non si tratta naturalmente di negare l’esistenza della rivoluzione borghese, quanto piuttosto di individuare e di soppesare gli ostacoli ed i freni all’ascesa della borghesia sia in campo politico, sia in campo economico, sia in campo culturale.
Una nuova prospettiva
Il merito di aver proposto una nuova prospettiva interpretativa che, privilegiando la resistenza del vecchio ordine rispetto all’affermazione del nuovo ordine, permetta una interessante e proficua rilettura del trapasso tra otto e novecento, spetta ad Arno Mayer. Egli individua nella tendenza a sottovalutare il ruolo delle aristocrazie un grave limite della storiografia europea.
Scrive: ” Per troppo tempo, e in troppo grande misura, gli storici si sono concentrati sull’avanzata della scienza e della tecnica, del capitalismo industriale e mondiale, della borghesia e della classe media professionale, della società civile liberale, della società politica democratica e del modernismo culturale. Si sono occupati assai più di queste forze innovatrici, e della formazione della nuova società, che non delle forze dell’inerzia e della resistenza, che hanno rallentato il deperimento del vecchio ordine. ”
Mayer si sforza di sottolineare come, nonostante lo sviluppo industriale e l’innegabile ascesa della borghesia, una quota consistente delle classi dirigenti europee continui ad agire in conformità a modelli culturali e politici almeno in parte preborghesi e precapitalistici sino alla prima guerra mondiale.
Seppur correndo il rischio di dare eccessivo credito a fuochi fatui, a disperate resistenze di istituzioni decrepite e di uomini orgogliosi di credersi immuni rispetto alle dinamiche sociali ed economiche della seconda rivoluzione industriale, egli delinea i contorni del lungo crepuscolo dell’Antico Regime. Nell’Europa tra otto e novecento il deterioramento della posizione di potere delle teste coronate, delle camere alte, delle vecchie aristocrazie, raggruppate in ristretti ed esclusivi circoli, il deperimento della cultura classica e delle religioni tradizionali, la frantumazione della grande proprietà terriera precapitalistica, il declino dell’agricoltura come principale fonte di ricchezza personale e nazionale, si verificano con estrema lentezza.
Mentre la società borghese e la borghesia industriale vanno affermandosi l’aristocrazia continua a lungo a permeare del suo spirito feudale l’alta società, l’alta cultura, l’alta politica ed a detenere posizioni di potere. Basti pensare al fenomeno, dilagante soprattutto in Italia, dell’usurpazione dei titoli nobiliari, oppure alla persistenza del duello, simbolo di un mondo in agonia fondato sul culto dell’onore, per rendersi conto dell’influenza esercitata dalla vecchia aristocrazia e dall’Antico Regime sulla nascente borghesia.
Sul terreno istituzionale l’aristocrazia ha inoltre nelle camere alte la sua tradizionale roccaforte. L’Italia non fa eccezione. Nel ventennio 1876-96 il Senato del Regno d’Italia, formalmente di nomina regia, può vantare mediamente la presenza di 165 Senatori titolati, su di un totale che oscilla tra i 300 ed i 400 membri. Si può pertanto affermare che nell’ultimo scorcio dell’ottocento i Senatori titolati rappresentano, a seconda dei periodi, circa la metà o poco più di un terzo dell’intera camera di nomina regia.
I nobilitati sono una esigua minoranza, la maggior parte dei Senatori nobili appartiene ad antiche famiglie, ricche di storia e di tradizioni e possiede consistenti patrimoni.
Il saggio di Mayer fornisce spunti per una rilettura di molti aspetti della storia europea di fine secolo: dall’economia alla politica, dalla cultura al costume.
Sarebbe ingenuo, oltreché profondamente errato, interpretare il lavoro di Mayer come un tentativo di spazzare via o di capovolgere alcune delle più importanti ed incontestabili acquisizioni della storiografia. L’ipotesi del lento deperimento dell’Antico Regime offre infatti uno stimolo ad indagare sulle zone d’ombra, a dare la giusta intensità alle sfumature, ad individuare e lumeggiare fenomeni economici, politici, culturali, sociali paralleli a quelli a cui solitamente si interessa la storiografia che si occupa dell’ottocento.
Si tratta dunque di una nuova prospettiva che permette l’evidenziazione di nuovi terreni di ricerca, fino ad oggi solo sfiorati: primo fra tutti quello dell’analisi della composizione sociale e culturale delle classi dirigenti europee.
Il saggio di Mayer, come riconosce anche Zunino, non è tuttavia privo di lacune. Il suo limite principale consiste nel fatto che esso, volendo enfatizzare la dimensione europea del fenomeno della resistenza dell’aristocrazia all’ascesa della borghesia, finisce per scivolare talvolta nella superficialità e nell’approssimazione. Mayer sembra infatti più interessato a compiere una ricognizione sulle dimensioni del problema dell’aristocrazia nei vari paesi che ad analizzare in profondità le dinamiche della resistenza del vecchio ordine.
Riguardo al problema della composizione della classe dirigente italiana il saggio in questione è particolarmente lacunoso e mostra tutta la fragilità della sua base documentaria. Non fa che denunciare l’esistenza di una sorta di vuoto nella storiografia, dando però delle indicazioni molto generiche e vaghe sul modo in cui colmarlo. Manca in sintesi di una appropriata pars construens.
Si legge per esempio: “È vero che questa veneranda élite non godeva più dell’antica preminenza nella politica e nel governo. Ma la questione del suo peso politico non può essere liquidata richiamando il fatto che tra il 1870 ed il 1914 il Marchese Antonio di Rudinì … ed il Barone Sidney Sonnino furono i soli nobili titolati a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio, od osservando che la nobiltà come tante altre cose in Italia era troppo dispersa e divisa per costituire una compatta camera alta …”.
Mayer dunque solleva il problema del ruolo politico dell’aristocrazia italiana, ma si guarda bene dal tentare di risolverlo.
La sua ipotesi interpretativa ci pare debba essere opportunamente sviluppata ed articolata per arrivare ad una conoscenza più completa della classe dirigente italiana, per chiarire i termini del compromesso, per usare l’espressione di Candeloro, con cui si conclude la rivoluzione borghese italiana.
Come osserva Zunino ” … guardare più a fondo in quel permanere e mutare del vecchio ordine, dei vecchi ideali e delle vecchie norme di vita può condurre a delineare con una certa esattezza il rapporto tra nobiltà e borghesia … “.
Capire chi gestisca effettivamente gli stati liberali e come si modifichi la composizione della classe dominante a fronte delle trasformazioni economiche e sociali del secondo ottocento non è un problema senza importanza
Già all’inizio degli anni settanta, ben prima della pubblicazione del saggio di Mayer, Nicola Tranfaglia ha elaborato una ipotesi di ricerca sul rapporto tra la composizione delle classi dirigenti europee e la crisi dello stato liberale. Pur non evidenziando, a differenza di Mayer, come il problema del ruolo dell’aristocrazia e della lenta rimozione delle vestigia dell’Antico Regime non investa soltanto la politica, ma anche l’economia, la cultura ed il costume, Tranfaglia ha l’indubbio merito di aver ipotizzato l’esistenza di un legame forte tra il peso politico delle forze aristocratiche e la reazione delle classi dirigenti di fronte alla crisi degli stati liberali.
Benché in Inghilterra, in Francia, in Germania ed in Italia il blocco dominante sia formato da una coalizione politico-sociale tra aristocrazia e borghesia, la sua ipotesi è che si verifichino due diversi tipi di reazione di fronte alla crisi dello stato liberale: o una chiusura conservatrice, cioè il tentativo di dare alla società un assestamento secondo criteri gerarchici, efficientistici ed autoritari; oppure un tentativo di integrazione delle masse lavoratrici attraverso il suffragio universale, la legislazione sociale, l’istruzione di massa.
Dove la borghesia capitalistica ha fatto la sua rivoluzione, si è assicurata la guida del blocco dominante ed ha integrato la vecchia aristocrazia, l’allargamento delle basi dello stato liberale e l’ingresso delle masse popolari tendono a verificarsi attraverso meccanismi regolabili. Dove invece la vittoria della borghesia non è stata completa e l’alleanza tra aristocrazia e borghesia è una sorta di “pace armata”, il processo aperto dall’industrializzazione è meno controllabile e può produrre convulsioni più o meno gravi, tentativi di ritorno al potere dell’ala più arretrata della coalizione.
Naturalmente una simile rivincita deve essere intesa in termini relativi: essa non arresta né la marcia della borghesia, né il processo di industrializzazione, si limita ad imporre ritmi diversi, dà spazio a tentazioni belliciste ed espansioniste, rende più difficoltosa ed instabile la scelta dell’integrazione delle classi subalterne.
Tranfaglia ritiene che in Inghilterra ed in Francia si realizzi un grado di integrazione tra borghesia ed aristocrazia abbastanza soddisfacente, mentre in Germania e in Italia l’alleanza su cui si fonda la classe dirigente abbia una vistosa fragilità.
Sia la classe dirigente italiana che quella tedesca, seppur con modalità ed esiti diversi, promuovono lo sviluppo capitalistico, sforzandosi però di salvaguardare il sistema di gerarchie sociali preesistente. L’epilogo autoritario ed antidemocratico, in Germania ed in Italia, della crisi dello stato liberale non può essere considerato casuale. Esso è infatti intimamente collegato con la composizione sociale e con la formazione culturale delle classi dirigenti liberali.
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Per saperne di più
G. C. Jocteau, Nobili e nobiltà nell’Italia unita – Bari, Laterza, 1997.
R. Romeo, Vita di Cavour – Bari, Laterza, 1984.
S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia 1870-1925 – Padova, Marsilio, 1979.
G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La costruzione dello stato unitario – Milano, Feltrinelli, 1976.
A. Gramsci, Il Risorgimento – Torino, Einaudi, 1949.
L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 1989.
G. Galli, I partiti politici in Italia 1861-1973 – Torino, UTET, 1975.
E. Rotelli, “L’organizzazione costituzionale nella storiografia del secondo dopoguerra”, in, N. Tranfaglia (a cura di), L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra – Milano, Feltrinelli, 1980.
A. Mayer, Il potere dell’ancien régime fino alla prima guerra mondiale – Bari, Laterza, 1982.
P. G. Zunino, Lezioni di metodologia della ricerca storica e saggi sull’aristocrazia sabauda del primo ottocento – Torino, Facoltà di Scienze Politiche, s.d. ma 1992.
N. Tranfaglia, Dallo stato liberale al regime fascista – Milano, Feltrinelli, 1973.