IL CROLLO DEI BORBONE DI NAPOLI

di Ciro Pelliccio -

 

La fine del regno delle Due Sicilie fu dovuto alla profonda crisi della società meridionale e all’atteggiamento dei Borbone che, dopo aver creato la modernità nel Mezzogiorno, non seppero rinnovare le istituzioni verso forme politiche che quella stessa modernità avrebbe richiesto.

Il crollo del regno delle Due Sicilie sotto l’azione garibaldina è stato da sempre oggetto di vasti e approfonditi studi. Sebbene non siano mancati già alla dimane di quegli eventi alcuni studiosi, relegati all’ambito accademico o in ristrette élites culturali, che abbiano affrontato quegli studi con un approccio politico-economico, tuttavia quest’analisi è apparsa spesso relegata sullo sfondo. La necessità, infatti, di conferire al nuovo Stato una solida base etica, ha portato a privilegiare ed esaltare l’elemento più “romantico” del Risorgimento, e nel quale una visione troppo manichea non consentiva giudizi di merito efficaci.
Negli anni ’20 del Novecento, con l’affermarsi del pensiero socialista in Italia, si sviluppò una storiografia che utilizzava la lotta di classe quale metodo d’interpretazione della storia del Mezzogiorno. Furono quindi centrali nei decenni successivi gli studi sulla penetrazione dei rapporti capitalistici nelle campagne, i mezzi e i modi di produzione, la ripartizione della rendita agraria e industriale, la nascita e l’affermazione di nuovi ceti sociali, la dialettica politica tra queste nuove componenti, le condizioni di vita morali e materiale delle classi rurali e subalterne in genere.

La crisi del pensiero comunista e la marginalizzazione nel dibattito politico dell’ultimo ventennio della Questione Meridionale, che proprio in quegli eventi ha origine, ha dato la stura a una vasta corrente storiografica di tipo “legittimista”, un profondo revisionismo storico del Risorgimento, “visto dall’altra sponda”, ablativa, a giusta ragione, dell’olografia risorgimentale, che studia le condizioni del regno alla vigilia della sua caduta, evidenziando i meriti degli ultimi Borbone, e le brutali modalità con le quali si è giunti al processo unitario. Ma a ben vedere anche questa commette lo stesso errore: siamo spesso alla presenza di forme apologetiche in senso opposto, rappresentando il regno come un’arcadia perduta, strappato alla Dinastia dal complotto internazionale massonico-plutocratico e dal tradimento personale di un’intera classe dirigente. Non dà risposte soddisfacenti su alcune oggettive questioni: perché uno degli eserciti più forti d’Europa si sfaldò davanti a poche migliaia di garibaldini? Perché la terza flotta al mondo, non seguì il 7 settembre Francesco a Gaeta? Perché in un regno di nove milioni di abitanti, solo poco più di duemila tra soldati e sudditi, furono disposti a sacrificare la propria vita per il regno e la dinastia? Perché i siciliani appoggiarono fin da subito la spedizione di Garibaldi, e perché questi entrò in Napoli acclamato della folla, anziché respinto in mare? Si tratta di domande apparentemente semplici, ma la cui risposta, qualora si voglia epurare da elementi apologetici, è molto articolata.

Occorre, a mio avviso, distinguere l’analisi dalle cause, o concause, che portarono alla caduta del regno, da quelle che poi determinarono una precisa linea politica di realizzazione del processo unitario, che, ovviamente, non va esente da pesanti censure, e delle quali ci occuperemo in un altro scritto.
Per tentare di capire la profonda crisi che il regno attraversava alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, a mio avviso, necessita analizzare l’azione politica della dinastia lungo tutta la sua parabola esistenziale, poiché solo in tal modo è possibile intuire come i Borbone furono nel bene e nel male artefici del proprio destino.
Quando Carlo di Borbone manu militari invase il regno, trovò una società profondamente lacerata sul piano economico e sociale. Napoli e la Sicilia erano state per oltre due secoli un viceregno spagnolo, subordinate alle esigenze dell’espansione coloniale dei vari Filippo i cui viceré non avevano lesinato a introdurre un fiscalismo esasperato: dogane interne, diritti di passo da per tutto, arrendamenti vari, addirittura si verificò (caso abbastanza unico in Europa) un processo di rifeudalizzazione nel corso del XVI secolo e parte del XVIII. A Carlo va ascritto il merito di aver avviato un processo di trasformazione della società meridionale verso forme moderne, attraverso una trasformazione dello stesso istituto monarchico: da monarchia feudale, nella quale il re altro non era che un primus inter pares, al contempo soggetto e oggetto della complessa dialettica feudale, a una monarchia amministrativa, nella quale tutto il potere emanava dal re.

Bernardo Tanucci

Bernardo Tanucci (1698-1783)

L’artefice di questa rivoluzione fu il Tanucci, un giusnaturalista pisano, che iniziò l’attacco alle prerogative feudali con la massima politica «un re, un popolo e niun potere intermedio». Nulla più di quest’affermazione rende bene la filosofia politica dei Borbone di Napoli, ma, e qui anticipo immediatamente il mio pensiero, fu proprio l’ostinata coerenza a tale massima che portò al crollo politico. Se essa, infatti, poteva dirsi attuale agli inizi del XVIII secolo, in una società ancora sostanzialmente divisa tra aristocrazia e servi della gleba, appariva del tutto improponibile e impraticabile nel 1860, quando la società meridionale si presentava molto più complessa, dove erano nati e sviluppati nuovi ceti sociali, nuove forme di sociabilità politica, e in definitiva nuove classi sociali che reclamavano la condivisione del potere politico con il sovrano. E nulla più della risposta che Ferdinando II diede a una lettera di suo cugino Luigi Filippo d’Orleans, asceso al trono di Francia dopo la Rivoluzione di Luglio contro Carlo X, rende l’idea di come la dinastia avesse ormai esaurito il suo “ruolo storico”, incapace come fu di adattare il proprio modello di governo alle nuove forme politiche. «Noi siamo in un’epoca di transizione – gli scriveva Luigi Filippo re di Francia – in cui sovente conviene cedere qualcosa per non vedersi strappare tutto». «La Libertà è fatale alla famiglia dei Borboni – gli rispose Ferdinando II – …il mio popolo obbedisce alla forza e si curva….. il mio popolo non ha bisogno di pensare: mi incarico io del suo benessere e della sua dignità. Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi, e se volessero calcarsi sul modello delle dinastie nuove, sarebbero ridicoli. Noi faremo come gli Asburgo. Ci tradisca pure la fortuna, ma non ci tradiremo da noi!».

All’uscita del Tanucci dal Consiglio di Stato nel 1777 il riformismo borbonico non terminò. La coppia reale Ferdinando e Maria Carolina continuò in una serie di provvedimenti tesi a marginalizzare sempre più la componente feudale nel regno. La rivoluzione francese, e i tragici eventi che videro coinvolti la famiglia reale ruppe l’idillio tra la dinastia napoletana e la classe colta del Paese che fu, di lì a poco, protagonista dell’esperienza politica della Repubblica Napoletana del 1799. Non la si può certamente definire una “rivoluzione”; fu piuttosto la conseguenza necessaria del vuoto di potere creatosi con la fuga di Ferdinando in Sicilia, supportata dalle baionette francesi di Championnet. Fu tuttavia un primo tentativo di “esercizio democratico” al quale partecipò una vasta area dell’intellettualità napoletana sia nella capitale sia nelle province, destinato al fallimento per l’incapacità dei giacobini di far comprendere a fondo il messaggio che, sull’espansione rivoluzionaria francese in Europa, poneva l’anticlericalismo e l’antiassolutismo al centro del suo programma politico; due valori invece ancora fondanti del meridione d’Italia.

La restaurazione ferdinandea seguita al Congresso di Vienna trovò una società profondamente cambiata. Questa volta la permanenza dei francesi era stata molto più lunga, e le riforme che adottarono portarono alla nascita di un nuovo ceto sociale. Vi era stata, infatti, nove anni prima, ad opera di Giuseppe Bonaparte, la legge eversiva della feudalità. La frenetica attività della Commissione feudale trasformò il feudo in latifondo, al quale affiancò un consistente numero di piccoli proprietari terrieri che erano riusciti a mantenere le proprietà loro pervenute dalla divisione e distribuzione dei demani. Nel recidere il legame tra feudatario e vassallo, la legge del 2 agosto 1806 non si preoccupò di sostituirlo con un altro, e se le classi rurali furono improvvisamente libere dalle odiose vessazioni feudali, si trovarono però prive improvvisamente degli usi civici che tanti dei loro bisogni primari soddisfacevano, e che erano insiti nel rapporto di vassallaggio. Pur rimanendo un momento cruciale per capire il lento processo di sviluppo verso forme capitalistiche della società meridionale, e più in generale dell’evoluzione del meridione verso una società borghese, le leggi eversive nell’immediato non furono prive di effetti improvvidi per le classi subalterne ma ebbero l’indubbio merito di creare una nuova classe sociale che oggi definiremo come «borghesia agraria».

Ferdinando I

Ferdinando I

Fu proprio questa nuova classe sociale, nata dalle ceneri del feudalesimo, protagonista di un secondo tentativo d’impossessamento dello Stato, sia pure attraverso l’elemento militare e carbonaro: la Rivoluzione del 1821 che strappò la costituzione a Ferdinando I. La borghesia agraria non aveva una rappresentanza politica forte quanto il suo peso sociale; nel Parlamento che si aprì nella chiesa dello Spirito Santo sebbene vi fossero solo due nobili, la componente intellettuale era ancora molto forte. Assunse la direzione dei moti non senza contrasti e opposizione, ristretta com’era nella sua ideologia che rispecchiava interessi troppo limitati per consentire un’identificazione con essa di tutto il modello borghese. Si percepisce dalla discussione che in Parlamento si ha sulle condizioni sociali degli eleggibili dai quali la stessa borghesia agraria voleva estromettere quella intellettuale e commerciale. Una frattura che non era presente solo nella borghesia, ma anche nella stessa aristocrazia, anche se congiunturale e non ideologica, e non durerà a lungo. Fu tuttavia questa frattura, il contesto internazionale che non ammetteva forme parlamentari, lo scarso peso che ebbe il pensiero liberare che ne decretò il fallimento, non senza però aver ottenuto in contropartita importanti concessioni economiche nel tentativo di rinsaldare al trono la parte più moderata della borghesia agraria.

Dopo il breve regno di Francesco I nel 1830 salì al trono il dinamico Ferdinando II. A lui va ascritto il merito di aver risvegliato il commercio, introdotto manifatture, creato un consistente tessuto industriale, interventi che diedero origine a una nuova classe sociale che potremmo definire «borghesia commerciale e industriale», e, paradossalmente, allargò la base della sua stessa opposizione. Questo nuovo ceto fu protagonista dei moti del 1848, un terzo tentativo d’impossessamento dello Stato. I moti ebbero soprattutto caratteristica di rivolta urbana, con poca eco nelle province rurali, la cui direzione fu assunta dalla borghesia commerciale e industriale con un’estemporanea alleanza con il «popolo», tanto da farli avvicinare molto alla rivoluzione francese di sessant’anni prima. La concessione dello Statuto aprì un periodo di grande incertezza, poiché ogni classe sociale vide in esso lo strumento per realizzare il proprio programma politico: la borghesia, la piena libertà politica; le classi rurali, la definitiva distribuzione dei demani e infine per gli intellettuali la libertà di espressione. Ma la partecipazione delle masse rurali che si diedero all’occupazione delle terre con caratteristiche sansimoniste e luddiste, spinse la parte più moderata della borghesia, che si vide minacciata nella proprietà, a ricompattarsi di nuovo attorno al trono facendo fallire i moti.

Ferdinando II in una stampa del 1855

Ferdinando II in una stampa del 1855

La svolta in senso reazionario di Ferdinando dopo il ’48 fu l’inizio della fine. La limitazione di quei già scarsi spazi di libertà esistenti furono mal sopportati dai ceti borghesi, che divennero sempre più sensibili al richiamo liberale piemontese. A onore di Ferdinando va detto che non fu, in quel momento, un errore di lungimiranza politica: i moti del ’48 erano stati soffocati in tutta Europa e le concessioni fatte dai vari regnanti revocate. In tal senso Ferdinando non può definirsi unico. Ma non percepì la pericolosità del messaggio piemontese, che non si svolgeva ormai solo sul piano delle libertà politiche, ma interessava lo stesso processo unitario.
Nonostante Ferdinando, il Paese attraversò nel decennio successivo uno sviluppo in molti settori; fu un fiorire di istituzioni culturali, accademiche, l’avvio di un ammodernamento infrastrutturale del Paese, ma gli effetti si sentirono soprattutto sul piano economico dove si spostava sempre più mano d’opera dal settore primario a quello secondario, indice di un avvio verso il decollo industriale. Ma a questa azione di governo non coincise una crescita politica del Paese. Ferdinando cercò sempre di evitare, in coerenza con la massima tanucciana, che circolassero nel regno quelle idee che oramai si erano affermate nel resto d’Europa, e nella sua miope visione dei fatti, non intuì che era invece necessario rimuovere le cause per evitare che esse attecchissero per esplodere in una profonda crisi sociale: cosa che puntualmente avvenne nel decennio successivo. Continuò il suo appoggio ai grandi latifondisti, emarginando la componente della piccola e media borghesia e dei ceti intellettuali. Fu così che un periodo ricco di iniziative vide Ferdinando chiudersi sempre più in se stesso, isolato rispetto alle forze sociali del Paese. Altrettanto in politica estera. Rinnovò blandamente l’alleanza con l’Austria in una cornice di stretto neutralismo, non percepì il ridimensionamento dell’Impero che uscì dagli accordi di franco-piemontesi di Plombiers, né le conseguenze di quanto avveniva sui campi di battaglia di Solferino e Magenta, incapace di vedere il progetto espansionistico del Piemonte ormai palesemente in atto.

La scelta di Garibaldi di sbarcare in Sicilia non fu un caso, quanto piuttosto l’analisi fatta con Rosalino Pilo dello stato pre-insurrezionali dei ceti contadini siciliani, dei vecchi autonomisti e liberali, per i fatti dell’aprile precedente sia per le attese ancora frustrate della divisione dei demani dopo l’abolizione della feudalità che in Sicilia avvenne nel 1812. Non a caso uno dei primi provvedimenti che il Dittatore prese fu proprio quello di promettere la distribuzione dei demani con precedenza a chi lo avesse seguito nel moto insurrezionale, nel palese tentativo di aggregare attorno a sé quanti più elementi possibili della società siciliana.
L’idillio si consumò nell’agosto con l’eccidio di Bronte. Episodio che se sul momento passò quasi inosservato, letto a tanti anni di distanza sembra il vero manifesto della rivoluzione garibaldina. Nella ducea di Bronte (che apparteneva agli eredi di Nelson) alcuni contadini avevano occupato parte dei terreni del duca. Bixio, lì spedito da Garibaldi, dopo un processo sommario ne fucilò alcuni. Il messaggio era chiaro: la proprietà borghese non va toccata. Questa, infatti, osservava, e in quei limiti appoggiava, la rivoluzione garibaldina con un duplice profilo: favorevole a un cambio sul piano politico-istituzionale, nulla era però negoziabile sul piano dei rapporti socio-economici che, soprattutto nelle campagne, non potevano e dovevano essere messi in discussione.

Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860, di Franz Wenzel

Ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860, di Franz Wenzel

Lo sfaldamento dell’esercito facilitò il compito di Garibaldi sul piano militare. L’ufficialità napoletana fu più incapace che infingarda. L’età avanzata di molti dei generali, l’assoluta inesperienza militare di molti di loro, la mentalità diffusa di un “ineluttabile destino” per la dinastia e la volontà di non “compromettersi” con il nuovo regime, l’ambiguo atteggiamento del ministro della Guerra costituzionale il generale Salvatore Pianell e dello stesso generale Alessandro Nunziante, furono tutti elementi che consentirono a Garibaldi di arrivare a Napoli in poco più di 100 giorni.
Il crollo del regno, come anticipato, fu dovuto alla profonda crisi della società meridionale frutto proprio della perseveranza con la quale i Borbone nel corso del XIX secolo si attennero alla massima tanucciana. Dopo aver creato la modernità nel mezzogiorno d’Italia, non seppero poi rinnovare le istituzioni verso forme politiche che quella stessa modernità immancabilmente avrebbe richiesto; e fu proprio l’assenza di risposte in tal senso (la concessione della Costituzione del 25 giugno 1860 era ormai priva di ogni significato politico concreto perché sostanzialmente tardiva) che il contrasto tra «modi di produzione» e «sovrastruttura politica» (volendo utilizzare, anche in modo non del tutto coerente, categorie concettuali marxiste) si risolse nella distruzione di quest’ultima a favore di altre, che tuttavia alla fine si rilevarono addirittura peggiori.
Solo quando si osservi e si consideri la “trasversalità” della crisi del modello borbonico nella società meridionale, si può tentare di dare una valida risposta alle domande che ci ponevamo agli inizi di questo breve scritto.

Per saperne di più

C. Pelliccio, Il Regno delle Due Sicilie (1806-1860), Carabba, 2004.
Nicola Ostuni, Finanza e economia nel Regno delle Due Sicilie, Liguori Editore, Napoli, 1992.
R. De Lorenzo, Borbonia felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Salerno Editore, 2013.
G. Oliva, Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia, Mondadori, 2103