IL CORNO D’AFRICA TRA GUERRA E PACE

di David Cardillo -

 

La pace firmata nel luglio del 2018 tra Etiopia ed Eritrea ha avviato una timida e instabile distensione tra i due paesi. I loro contrasti affondano le radici nelle vicende del colonialismo italiano di fine Ottocento per arrivare, accresciuti da istanze nazionaliste e ambizioni personalistiche, fino ai giorni nostri.

 

 

Una delle questioni politiche che più hanno riguardato il Corno d’Africa nella sua storia contemporanea, e che più hanno suscitato passioni è senza dubbio quella del conflitto tra Etiopia ed Eritrea. Per capire la funzione che l’Eritrea ha avuto nella storia dell’Etiopia e nell’esercizio della sua politica egemonica nella regione è necessario ripercorrere il suo stesso percorso storico, indissolubilmente legato a quello etiopico.
Intorno al VII secolo a.C. era nato un regno denominato D’Mt, situato tra il nord dell’Etiopia e l’attuale territorio eritreo. Successivamente si era sviluppato il Regno di Axum, esteso a tutta l’Eritrea. La prima esperienza dell’Eritrea con la dominazione di una potenza straniera era avvenuta nel 1557, quando l’Impero Ottomano aveva conquistato la fascia costiera etiopica, comprendente l’importante porto di Massawa, il villaggio limitrofo di Arqiqo e Debarwa. Due rivolte etiopiche erano state domate nel 1578, lasciando agli ottomani Massawa e Arqiqo. L’occupazione ottomana ha rappresentato l’inizio di un periodo di decadenza per l’Impero d’Etiopia, come spiegato dalla studiosa britannica Sylvia Pankhurst: “L’occupazione turca di Massawa è stata una disastrosa sfortuna per l’Etiopia; la presenza di un potere ostile sulla costa ha menomato il commercio marittimo, l’ha sottoposta a un lungo periodo di guerra devastante e l’ha quasi completamente isolata dal resto del mondo. Ma nonostante il loro punto di appoggio sulla costa, i turchi non sono riusciti a conquistare la terraferma etiope; hanno perso ogni speranza di controllare il commercio orientale attraverso il Mar Rosso, a causa della scoperta della rotta per tutti i mari intorno al Capo di Buona Speranza. Quindi, i turchi hanno in qualche modo allentato la loro morsa sulla costa etiope; essi hanno cessato di mantenere una forte presidio a Massawa e ne hanno lasciato il comando al locale Naib, il cui ufficio era ereditario in una delle famiglie locali fedeli alla sovranità etiope.”[1]

Gli ottomani avevano mantenuto il controllo della fascia costiera per quasi trecento anni, lasciandola agli egiziani nel 1865. Successivamente, mentre si ritiravano dal Sudan, durante la ribellione del Mahdi, gli egiziani avevano concluso un accordo con i britannici, ottenendo luce verde per ritirarsi attraverso l’Etiopia, lasciando che quest’ultima prendesse il controllo dei loro possedimenti, con l’eccezione di Massawa (rimasta sotto amministrazione egiziana) e Assab, passata sotto la proprietà di due sceicchi.[2] E’ proprio quest’ultima cittadina, una stazione navale che è tutt’ora una delle più importanti del Mar Rosso, che ha dato il battesimo al colonialismo italiano, iniziato in forma privata nel 1869, con la sua acquisizione da parte della società di navigazione Rubattino dopo un accordo con il sultano locale, e in forma pubblica nel 1882, con il suo rilevamento da parte dello Stato italiano.
Il passo successivo è stata la presa dell’isola di Massawa nel febbraio 1885, favorita dalla Gran Bretagna. Gli inglesi vedevano con favore la presenza italiana nel Corno d’Africa, considerandola un utile contrappeso alle mire dei rivali francesi, per cui non ebbero alcuna difficoltà a permettere all’Italia di prendere il controllo di Massawa. Il 1° gennaio 1890, gli italiani hanno ufficialmente creato la Colonia Eritrea, dopo avere unificato i territori circostanti i due possedimenti, scegliendo come capitale Massawa, per poi trasferirla ad Asmara nel 1898. Si può, quindi, dire che l’Eritrea sia una creazione italiana, partendo proprio dal nome, ripreso dal nome che gli antichi greci avevano dato al Mar Rosso, ovvero “Erytho Ros”, che letteralmente significa, appunto, Mar Rosso. Il riconoscimento di tale stato di cose da parte dell’Impero d’Etiopia si è avuto con la firma del Trattato di Addis Abeba del 26 ottobre 1896, con il quale l’Italia riconosceva ufficialmente e solennemente la piena sovranità e integrità etiopica, abbandonando così le mire italiane sull’intera Abissinia che erano già state spezzate ad Adwa, ultima capitale del Regno del Tigray, il 1° marzo dello stesso anno, mentre l’Etiopia riconosceva il controllo italiano dell’Eritrea e i confini sul fiume Mareb.[3]

Può apparire paradossale, ma i nazionalisti eritrei hanno poggiato la legittimità delle loro tesi indipendentiste proprio sulla ratifica del possesso italiano, e non sono numerosi i casi in cui un’esperienza coloniale pone i nazionalisti dei paesi colonizzati in una posizione favorevole. Fatto sta che con l’inizio dell’amministrazione coloniale italiana è iniziata anche la storia dell’Eritrea, la cui fisionomia sociale e culturale, modellata dagli italiani, ha finito con il differenziarsi notevolmente da quella etiopica. Infatti, mentre in Etiopia si consolidava sempre di più un sistema feudale che in molte altre parti del mondo era già superato da secoli, in Eritrea si andava consolidando un percorso che avrebbe ad un’importante stratificazione sociale impregnata di cultura moderna e dedita al commercio.
Con l’occupazione italiana dell’Etiopia del 1936, gli eritrei erano stati elevati al vertice nella gerarchia coloniale, venendo impiegati estesamente nell’amministrazione dell’Africa Orientale Italiana. Questo status, tuttavia, ha avuto vita breve, in quanto sull’onda della Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna ha trasformato il Corno d’Africa in un fronte di battaglia contro il nemico fascista, scacciandolo dall’area nel maggio del 1941. Mentre l’Etiopia ritrovava la sovranità, l’Eritrea passava sotto il controllo inglese, attraverso il mandato fiduciario, che sarebbe durato fino al 1952. In questo arco di tempo, si erano poste le basi per l’apertura di una nuova drammatica fase nella storia dell’Eritrea. Riottenuta l’indipendenza, per l’Imperatore Hailè Selassiè la priorità era restituire all’Etiopia quel ruolo egemonico che l’era proprio fin dai tempi dell’Impero di Axum, e in questa ottica il controllo dell’Eritrea e del suo sbocco al mare era un obiettivo irrinunciabile. Nel corso di un incontro con il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, tenutosi a bordo di una nave da guerra americana ancorata al largo del Canale di Suez il 13 febbraio 1945, l’Imperatore aveva consegnato un documento intitolato, semplicemente, “Eritrea”, nel quale: “Il governo etiopico osservava che una breve analisi della storia dell’Eritrea dimostra che è sempre stata sia razionalmente che da un punto di vista internazionale intimamente legata alla sorte dell’Etiopia, ricordando che il distacco si era prodotto con il colonialismo, dopo che la Gran Bretagna aveva riconosciuto la sovranità etiopica sull’Eritrea. Già nel luglio 1940, l’Imperatore si era rivolto all’Etiopia e all’Eritrea senza distinzione fra le popolazioni di qua e di là del fiume Mareb (fiume che divide la frontiera tra i due paesi, nda).”[4]

Lo sbocco al mare veniva rivendicato con la motivazione che in epoca precoloniale, l’Etiopia si estendeva lungo un litorale che passava dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, e che se a quel momento si trovava priva di un accesso al mare la responsabilità era della spartizione europea dell’Africa. Il Trattato di Addis Abeba del 1896 veniva denunciato come un’imposizione della parte più forte ai danni del più debole, tali erano la sproporzione delle forze e l’ineguaglianza di tutti i trattati firmati in epoca coloniale. Da parte sua, l’Italia, pur essendo stata sconfitta, non intendeva rinunciare alle sue colonie, come dimostrato da una lettera inviata, nel luglio del 1945, dal governo italiano al successore di Roosevelt, Harry Truman, nella quale si faceva espressa richiesta di adottare una soluzione, per Somalia ed Eritrea, che andasse incontro agli interessi e alla dignità nazionale dell’Italia.[5] Era proprio l’Eritrea la colonia al cui possedimento gli italiani erano più legati, non fosse altro perché è la terra che ha battezzato il nostro colonialismo, e numerosi erano stati gli sforzi diplomatici volti a ottenere il suo mantenimento.
La questione passò prima tra le mani del Consiglio dei Ministri degli Esteri e poi tra quelle dell’ONU, per poi trovare una conclusione definitiva con il Trattato di Pace siglato a Parigi il 10 febbraio 1947, con la quale l’Italia rinunciava a tutte le sue colonie. Un anno dopo, le quattro potenze vincitrici della guerra cominciarono a trattare lo statuto giuridico dell’Eritrea, della cui sorte non si era ancora deciso nulla.[6] Al momento della discussione all’Assemblea Generale dell’ONU, l’Italia, che non era ancora uno Stato membro, si era espressa per l’indipendenza piena dell’Eritrea, posizione condivisa dall’Unione Sovietica. I britannici proponevano una spartizione tra l’Etiopia e il Sudan, con grande scorno dell’Italia che aveva ancora ragguardevoli interessi nel paese, oltre che una comunità di settantamila cittadini. Gli Stati Uniti avevano una posizione contraria all’indipendenza, perché ne sarebbe derivato uno Stato poco vitale e indifendibile, che certamente non sarebbe stato in grado di arginare il nazionalismo arabo nel Mar Rosso.[7] I paesi musulmani erano a favore dell’indipendenza, nella speranza che la grande componente musulmana, secondo alcuni la maggioranza della popolazione, avrebbe favorito l’estensione della supremazia araba e islamica nel Corno d’Africa. Da parte sua, l’Eritrea era divisa al suo interno, tra la comunità islamica che spingeva per l’indipendenza e la comunità cristiana propensa per il panetiopismo con l’Etiopia copta.

Per sbrogliare questa matassa, l’ONU convocò un’apposita commissione di cinque membri, il cui rapporto finale presentava tre possibili soluzioni: indipendenza, federazione con l’Etiopia, annessione all’Impero. L’esito finale della discussione si ebbe il 2 dicembre 1950, quando l’Assemblea Generale dell’ONU votò, con 46 sì, 10 no (tra cui l’intero blocco sovietico) e 4 astenuti, la federazione con l’Etiopia. In sostanza, l’Eritrea avrebbe avuto autonomia decisionale su tutte le materie ad essa concernenti, mentre la difesa, gli affari esteri e le finanze sarebbero state di competenza del governo federale di Addis Abeba.[8]
A prescindere da quanto fosse ragionevole questa soluzione, lo stato di cose che si era venuto a creare vedeva una coesistenza dai tratti innaturali tra un paese come l’Eritrea, dotato di principi e garanzie liberal-costituzionali, di partiti e sindacati organizzati e di una stampa libera, e un paese come l’Etiopia che, per quanto potesse essere ammirabile per la sua storia e la sua civiltà millenaria, si trovava ad essere, a metà del ventesimo secolo, fossilizzato a uno stadio feudale e assolutistico. Tra l’altro, è interessante notare come il testo della risoluzione mettesse sullo stesso piano istanze tra loro incompatibili, come i desideri e il benessere degli abitanti dell’Eritrea, gli interessi della pace e della sicurezza in Africa Orientale, i diritti e le rivendicazioni dell’Etiopia basate su ragioni geografiche, storiche, etniche ed economiche, con riferimento al tanto citato sbocco al mare. [9]

Comunque sia, fin da subito l’atteggiamento etiopico era volto a fare della decisione presa dall’Assemblea Generale dell’ONU il primo passo verso l’annessione vera e propria, e il pilatismo che ha sempre contraddistinto le Nazioni Unite nei riguardi del Corno d’Africa, perfettamente esemplificato dal testo della risoluzione del 2 dicembre 1950, ha finito con l’assumere il significato di un via libera. Del resto, le convenienze strategiche finivano con l’orientare la realpolitik a favore della grande e potente Etiopia a discapito della piccola e irrilevante Eritrea.
Un esempio lampante è il tacito accordo stipulato tra Etiopia e Stati Uniti, in base al quale gli americani potevano utilizzare l’importante base di Kagnew Station ad Asmara in cambio del loro favore verso le rivendicazioni etiopiche sull’Eritrea. L’annessione formale, in spregio al diritto internazionale e alla dignità del popolo eritreo, avvenne con il voto dell’Assemblea di Asmara del 14 novembre 1962, che riduceva l’Eritrea a quattordicesima provincia dell’Impero, abolendo così il sistema federale. Non bisogna certo credere che l’Assemblea eritrea avesse votato in tal senso autonomamente e in nome e per conto del popolo eritreo, dal momento che non era mai stata rinnovata dalla sua formazione e che era del tutto priva di un effettivo potere. Riprendendo le parole che un diplomatico inglese aveva utilizzato in un dispaccio al suo governo, nel 1957, l’Assemblea eritrea, per come era costituita, poteva essere portata a votare per l’incorporazione in qualsiasi momento.[10] Non bisogna neanche credere che l’annessione fosse stato un gesto improvviso e clamoroso, dato che l’Etiopia non aveva istituito gli organi federali previsti dalla risoluzione ONU e che nei dieci anni di vita della federazione (la risoluzione aveva indicato nel 1952 il suo anno di nascita) interferiva in modo continuo e sfacciato, ad esempio imponendo pesanti dazi doganali su alcune merci di prima necessità, in modo da creare una sorta di dipendenza al governo centrale. Tra le varie decisioni prese dal governo etiopico vi erano la sostituzione della lingua amarica al tigrino, l’inclusione dell’Eritrea nella legge elettorale che aveva portato all’elezione del parlamento etiopico, la soppressione dei diritti di associazione politica e sindacale, l’intimidazione e persecuzione dei dirigenti eritrei che si rivolgevano nelle forme debite alle istanze internazionali e la rimozione della bandiera eritrea.[11]
Nel compiere questi soprusi, gli etiopici erano stati favoriti dalle divisioni interne agli eritrei, i quali si battevano per l’autonomia solo nella loro componente musulmana, mentre l’alta borghesia eritrea riteneva che l’unificazione con l’Etiopia sarebbe andata a vantaggio dei suoi interessi economici, considerata la scarsità delle risorse eritree.

Tuttavia, l’annessione ebbe un effetto positivo, anche se poco gradito all’Etiopia, ovvero quello di far emergere una coscienza nazionale eritrea che l’eterogeneità delle posizioni assunte dalle varie anime aveva impedito di formarsi, e anche la componente cristiana della popolazione eritrea ha finito con il convertirsi alla causa indipendentista, tanto era prepotente e razzista la politica adottata dagli etiopici in Eritrea.
Con l’annessione cominciò la lotta armata, anche se i gruppi che la praticavano erano attivi prima ancora del voto dell’Assemblea di Asmara, come l’Eritrean Liberation Front (ELF), primo movimento guerrigliero eritreo, fondato al Cairo nel 1961 e guidato da una dirigenza islamica, che mescolava nazionalismo e Islam politico. Per circa un decennio, l’ELF è stato il movimento che ha rappresentato l’indipendentismo eritreo in modo unitario, finché nel 1971 una diatriba interna ha portato, oltre che ad una guerra civile eritrea durata dal 1972 al 1974, alla nascita dell’organizzazione che ha portato l’Eritrea all’indipendenza e che l’ha governata fino ad oggi, l’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF).[12] Inizialmente, l’EPLF si proponeva come il movimento degli eritrei cristiani, in opposizione al ELF, ma ben presto ha deciso di presentarsi come un partito laico e nazionale, riconoscendo la religione solo come parte del patrimonio culturale.
Con l’inizio della rivoluzione in Etiopia, era parso che gli eritrei potessero vedere riconosciuti i propri diritti, considerata anche la comune matrice ideologica marxista tra l’EPLF e la giunta installatasi al potere. Oltretutto, il primo presidente dell’Etiopia post imperiale, il Generale Aman Andom, era un eritreo, il che faceva nutrire legittime speranze. Lo stesso atteggiamento del Generale Andom andava in questa direzione: “Il Generale Andom aveva visitato l’Eritrea il 26 agosto 1974, presentando un piano di diciannove punti per risolvere il conflitto eritreo, inteso a creare un ponte tra l’Eritrea e l’Etiopia e garantire agli eritrei aiuti amministrativi, economici e sociali, nonché una piena amnistia per i combattenti. La sua proposta aveva tre scopi: ottenere la legittimità per il Derg presso il popolo eritreo; screditare i fronti impegnati nella guerra fratricida; creare una leadership eritrea disposta ad accettare quello che pareva essere un regime etiopico più tollerante e progressista.”[13]

Ma se mai queste speranze erano state realmente coltivate, l’omicidio di Aman Andom, avvenuto due mesi dopo il rovesciamento del potere imperiale, vi pose fine. Nel tentativo di cooptare il popolo eritreo distogliendolo dalle sue rivendicazioni, il 16 maggio 1976 il Derg promulgò un documento in nove punti dedicato al caso dell’Eritrea, nel quale faceva appello al popolo eritreo e al EPLF, ritenuto un interlocutore più valido dell’ELF per via della sua matrice marxista, affinché partecipassero alla rivoluzione in corso e alla costruzione di una società libera ed eguale.[14] Ma l’autocoscienza e la determinazione degli eritrei avevano raggiunto un punto tale per cui non si sarebbe accettato niente di meno che la piena indipendenza, da raggiungere con tutti i mezzi.
Fu proprio a questo punto che la lotta armata eritrea si intensificò, con un conseguente inasprimento della repressione etiopica, lasciando definitivamente la parola alle armi. Dopo una nuova guerra civile, combattuta dal 1978 al 1981, la guida della guerriglia venne presa definitivamente dall’EPLF.[15] Conscio di non poter competere a viso aperto contro uno degli eserciti più forti d’Africa, che nel frattempo aveva cominciato ad usufruire dell’imponente sostegno di tutta l’Europa Orientale, e fermamente intenzionato a risparmiare alla propria popolazione i bagni di sangue causati dalle rappresaglie etiopiche, l’EPLF posizionò nel Sahel settentrionale, al confine con il Sudan, trasformando la cittadina di Nakfa nella sua roccaforte e nel suo quartiere generale, dove sono state pianificate le offensive finali.[16]

Nel corso degli anni ‘80, seppur lentamente, il pendolo ha cominciato a oscillare dalla parte degli eritrei, grazie alla dedizione dei comandanti, all’animus pugnadi dei combattenti e alla perfetta conoscenza del territorio, tutti elementi di cui l’Etiopia, pur nella sua superiorità numerica e militare, era priva. Debilitata da una guerra in corso da venticinque anni e che, a differenza che per gli eritrei, aveva solo conseguenze negative, l’Etiopia ha cercato una soluzione che non fosse solo militare nella nuova Costituzione del 1987.
“La mappa del dell’Etiopia fu ridisegnata con lo scopo dichiarato di far coincidere le unità amministrative con i singoli gruppi linguistici e culturali, con il risultato di smembrare alcuni territori, e fra questi l’Eritrea, che potevano costituire un rischio per l’unità nazionale. L’Eritrea autonoma non corrispondeva più al territorio oggetto della rivendicazione e della lotta dei Fronti: staccando la zona di Assab, il governo poteva suggerire di prepararsi una via di fuga attraverso una spartizione in extremis che lasciasse all’Etiopia la Dancalia, ma neppure questo compromesso doveva rivelarsi realistico alla luce degli sviluppi che, tra il 1988 e il 1991, rovesciarono i rapporti di forza a favore della guerriglia.”[17]
Nel frattempo, l’EPLF aveva tenuto il suo secondo congresso nel 1987, che costituì una pietra miliare nella storia eritrea, in quanto, oltre che eleggere segretario generale Isayas Afeworki, che in virtù di questa carica sarebbe poi diventato Presidente dell’Eritrea indipendente, aveva delineato i contorni del futuro Stato sovrano: il sistema politico sarebbe stato multipartitico, mentre l’economia sarebbe stato una via di mezzo tra il liberalismo e il socialismo.[18]
Con il volgere a termine degli anni ‘80, l’Etiopia, come tutti i membri del blocco comunista, si trovava in una condizione economica, politica e sociale disastrata, ma a differenza loro era ulteriormente logorata dai movimenti guerriglieri, con l’EPLF che, grazie ai sostanziosi aiuti ricevuti dai paesi arabi (gli unici al mondo a dimostrarsi solidali con il popolo eritreo, anche se il loro referente, l’ELF, era stato spazzato via), era decisamente sugli scudi. La conquista della città di Afabet, sede del comando delle truppe etiopiche in Eritrea, compiuta nel marzo del 1988, e da molti considerata la Waterloo etiopica, ha sancito l’effettivo trionfo militare eritreo, tanto che la presa di Asmara del 25 maggio 1991, seppure avvenuta dopo altri tre anni di guerra, è stata più che altro una simbolica certificazione. Con il crollo del Derg era terminato un trentennio di guerra, secondo alcuni l’ultima guerra anticoloniale africana, e la conquistata libertà è stata ufficializzata nell’aprile del 1993, con un referendum plebiscitario. Tuttavia, l’ottenimento dell’indipendenza non ha affatto segnato la fine delle mire etiopiche sull’Eritrea.

Cause e motivazioni del conflitto 1998-2000

Tra i tanti commenti espressi riguardo al conflitto esploso tra l’Etiopia e l’Eritrea nel 1998, vi è quello secondo il quale è stata una guerra inattesa. In effetti, guardando ai rapporti tra le attuali classi dirigenti dei due paesi, prima ancora che il regime marxista di Menghistu crollasse, e quelli tra l’Etiopia post 1991 e l’Eritrea indipendente, fino all’inizio della guerra, è difficile contraddire tale opinione. L’EPLF, infatti, nel 1988 aveva stretto un’alleanza di ferro con i guerriglieri tigrini del TPLF e con gli oromo dell’OLF, la cui unione di forze finì con il risultare decisiva ai fini dell’abbattimento della dittatura. Con la caduta del regime, l’EPRDF aveva riconosciuto all’Eritrea il diritto di secessione, che venne sancita con un referendum plebiscitario tenutosi tra il 24 e il 27 aprile 1993. I rapporti con l’Etiopia erano stati formalizzati nel settembre dello stesso anno, con il cosiddetto Patto di Asmara, e fin da subito i rapporti erano basati sulla concordia e la collaborazione, negli ambiti più svariati e immaginabili. Il Patto di Asmara, contenente venticinque protocolli di accordo, si proponevano di armonizzare le tariffe doganali, di elaborare un meccanismo per proporzionare le emissioni di moneta con i rispettivi obiettivi inflazionistici, sincronizzare gli scambi esteri e armonizzare e garantire i reciproci investimenti con pari trattamento.[19] I campi nei quali i due paesi avevano avviato una proficua collaborazione erano: i trasporti e le comunicazioni, l’aviazione, i porti, la produzione di cibo, l’industrializzazione, le strategie di sviluppo, il coordinamento delle politiche macroeconomiche, la rimozione delle barriere commerciali, l’armonizzazione delle pratiche e procedure amministrative, la libera circolazione di lavoro e capitale.[20] Per rendere meglio l’idea: quello che per decenni era stato uno dei pomi della discordia, ovvero l’accesso al mare per l’Etiopia, aveva avuto una soluzione con il primo atto del governo provvisorio dell’Eritrea, guidato da Isayas Afeworki fino ai giorni nostri, ovvero la stipula di un accordo che liberalizzava i porti di Assab e Massawa e li rendeva agevolmente praticabili anche da Addis Abeba; la compagnia di bandiera etiope utilizzava l’aeroporto di Asmara come se fosse uno scalo nazionale; la moneta corrente in Eritrea era la stessa dell’Etiopia, il birr.

La scelta iniziale di instaurare una cooperazione etiopico-eritrea era stata dettata da motivazioni quali la minimizzazione delle perdite economiche subite dall’Etiopia a causa dell’indipendenza dell’Eritrea e la fine delle rivendicazioni territoriali e la fine delle preoccupazioni di attacchi da parte dell’Etiopia. Oltretutto, la cooperazione veniva vista come un ottimo strumento contro l’emarginazione internazionale e per il superamento dell’agricoltura di sussistenza. Le aree entro le quali poteva essere avviata la cooperazione economica erano: i mercati comuni, che si identificano nella integrazione commerciale; i mercati comuni con pianificazione industriale; la cooperazione funzionale in aree limitate.[21]
Purtroppo, fin da subito era apparso chiaro che progetti di questo tipo erano quantomeno utopici, dato lo scarso grado di emancipazione dei contadini di ambo i paesi. Tuttavia, la collaborazione ha continuato ad essere perseguita data la notevole interdipendenza, dovuta da una parte alla mancanza di accesso al mare dell’Etiopia, che doveva contare sull’Etiopia per i porti di Massawa e Assab, dall’altra alla dipendenza dell’Eritrea dai mercati etiopici. Ma nell’arco di tempo 1991-1998, non vi erano soltanto buoni auspici: “Al di là di tanti interessi comuni, l’integrazione tra Etiopia ed Eritrea deve anche affrontare ostacoli non indifferenti, primo fra tutti la difficoltà, che molti etiopi stentano a superare, di riconoscere il diritto dell’Eritrea all’autodeterminazione. L’opposizione all’indipendenza eritrea è di due tipi: una deriva dalla convinzione che un’Etiopia unita e democratica è la migliore soluzione in vista di un progresso negli attuali livelli di vita di entrambe le nazioni; la seconda si basa essenzialmente sull’incapacità di alcune forze politiche, che pure si opponevano al precedente regime, a considerare l’Eritrea come un’entità separata e diversa rispetto all’Etiopia.”[22]

Altri segnali, che se isolati possono apparire banali, ma che se inseriti nel contesto assumono un certo significato, sono stati il rifiuto eritreo di adottare il prefisso telefonico dell’Etiopia (tra i dirigenti etiopi, tale decisione è stata vista come un possibile precedente per analoghe rivendicazioni di indipendenza da parte dell’Ogaden) e la decisione presa dal governo Afeworki, nel 1997, di introdurre una nuova moneta, il nakfa (dal nome di una delle roccaforti della guerriglia), in sostituzione del birr etiopico. L’Etiopia, in conseguenza, ne aveva rifiutato la parità, pretendendo transazioni in dollari; l’Eritrea, per contro, aveva aumentato le tasse di transito delle merci provenienti dai porti di Massawa e Assab, con successivo dirottamento del traffico etiopico su Gibuti. Le conseguenze di tali contrasti sono state rilevanti nelle economie dei due paesi.[23] L’Etiopia, in risposta alla richiesta pressante di misure protettive, aveva adottato una politica tariffaria sfavorevole per le importazioni dall’Eritrea, da qui la decisione del governo di Asmara di introdurre la propria moneta, giustificando tale operazione con il fatto che il birr era sopravvalutato, il che andava a detrimento delle proprie esportazioni verso il resto del mondo. L’Etiopia si era rifiutata di accettare il cambio uno a uno tra birr e nakfa che l’Eritrea si attendeva, pretendendo inoltre che le transazioni commerciali tra i due paesi venissero effettuate in dollari.
Ma è proprio a livello economico che è possibile scorgere alcuni indicatori che nel giro di pochi anni faranno esplodere il conflitto. Dopo la proclamazione dell’indipendenza, l’impressione era che l’Eritrea potesse avviarsi verso una fase di prosperità economica, grazie allo sbocco sul Mar Rosso, e che fosse in grado di attirare gli investimenti stranieri e di svilupparsi sotto il profilo industriale e commerciale, mentre l’Etiopia avrebbe dovuto “accontentarsi” di essere il granaio del Corno d’Africa. Rivalità economiche sono sorte quasi subito tra le deboli industrie dei due paesi, con l’Etiopia perennemente arrancata e con l’Eritrea pronta al decollo.

Comunque, a livello politico, perlomeno in apparenza, i rapporti continuavano a essere relativamente buoni. L’unione tra la guerriglia eritrea e quella tigrina era tale per cui il supporto politico e l’assistenza sociale nelle rispettive zone d’insediamento era legato alla stessa organizzazione. I loro programmi politici originari, una sorta di marxismo temperato da concessioni alle piccole imprese, erano identici, così come identica e simultanea erano stati l’evoluzione verso un sistema economico di maggiore matrice liberale e il riposizionamento nell’alleanza con l’Occidente dei due paesi. Molti osservatori, nei giorni di maggio del 1991, erano rimasti impressionati dalla somiglianza tra i gruppi dirigenti e i miliziani del TPLF e dell’EPLF, tanto da suggerire l’idea che essi fossero fratelli a tutti gli effetti.[24]
Ma anche a livello politico cominciava ad essere chiaro che qualcosa non andava. Questa luna di miele tra l’Eritrea indipendente e l’Etiopia libera, agli occhi degli analisti più attenti, appariva piuttosto innaturale. I rapporti bilaterali ponevano l’Etiopia in una posizione di inferiorità, da una parte per i succitati fattori economici, ma dall’altra perché a livello di nazione erano usciti perdenti dal crollo del regime, essendo stati amputati di un territorio tanto vitale, anche per motivi ideologici e culturali. Oltretutto, già durante la comune lotta contro il regime di Menghistu erano sorte delle divergenze, in particolare circa la dichiarazione espressa dai dirigenti del TPLF secondo la quale il diritto alla secessione dei vari Stati federali della futura Etiopia libera, previsto nel proprio statuto, doveva valere anche per le varie nazionalità eritree.[25] Come è lecito pensare, l’EPLF aveva risposto con non poca stizza a tale dichiarazione, dichiarando a sua volta che alle etnie facenti parte della nazione eritrea sarebbe stato riconosciuto il diritto all’autonomia e alla democrazia, ma non alla secessione, lasciando trasparire un certo timore che quanto dichiarato dal TPLF potesse presagire una continuazione della trentennale politica etiopica nei confronti dell’Eritrea.

Insomma, i rapporti tra Etiopia ed Eritrea indipendente dal 1991 al 1998 erano stati altalenanti: in una parvenza di grande sintonia e concordia si innestavano tante piccole tensioni dettate da rancori e da invidie. Ma difficilmente si sarebbe potuto prevedere quello che sarebbe accaduto il 6 maggio 1998. Quel giorno, tre ufficiali eritrei, in attività di pattugliamento lungo la frontiera Etiopia- Eritrea, vengono uccisi dai militari etiopi. Il presidente Afeworki considerato tale avvenimento un casus belli, e ordinato alle truppe di occupare il villaggio etiope di Badme, rivendicato dall’Eritrea fin dall’indipendenza. L’Etiopia replica occupando due aree eritree da essa rivendicate, Zalà Ambassa e Burie, e bombardandone altre. Inizia così il primo conflitto interstatale degli ultimi decenni, che in due anni provoca 70.000 morti e l’espulsione di decine di migliaia di persone che vivevano nei rispettivi paesi da svariate generazioni.
Non si intende, in questa sede, fare una cronaca dettagliata del conflitto. Occorre invece individuare le cause del conflitto che hanno opposto due paesi che, fino a poche settimane prima, parevano essere legati da un solido legame, e quali sono le motivazioni che hanno mosso le rispettive azioni.
Innanzitutto, va detto che questo conflitto non è esploso all’improvviso. Nell’ultimo anno, come abbiamo visto, si erano creati diversi elementi di tensione, a cominciare dalla pubblicazione di una nuova carta geografica del Corno d’Africa che dava ragione alle pretese territoriale dell’Etiopia, modificando così i confini definiti dall’ONU, dall’Unione Africana e accettati pacificamente dai due paesi.[26]

Ma come erano stati tracciati i confini tra Etiopia ed Eritrea? Il Trattato di Amicizia tra l’Italia e l’Impero d’Etiopia, firmato a Uccialli il 2 maggio 1889, aveva costituito la prima delineazione del confine, in base alla quale i villaggi occupati dall’Italia sarebbero andati a costituire la futura Colonia Eritrea. Un secondo accordo, stipulato il 3 luglio 1892, aveva fissato il confine sul fiume Mareb. Ma i trattati più importanti che hanno delineato i confini etio-eritreo sono stati firmati il 10 luglio 1900 e il 15 maggio 1902. Il trattato del 10 luglio 1900, firmato ad Addis Abeba dall’Impero d’Etiopia e l’Italia, riconosceva la linea Tomat-Todluc-Mareb-Belesa-Muna come confine tra la Colonia Eritrea e l’Impero.[27] Il 15 maggio 1902, sempre ad Addis Abeba, era stata sottoscritta la Convenzione per la Rettifica dei Confini tra la Colonia Eritrea, il Sudan Anglo-Egiziano e l’Impero d’Etiopia, che era stata aggiunta al trattato confinario tra l’Etiopia e la colonia britannica del Sudan, firmato nella stessa circostanza, e il cui primo articolo modificava il tratto di frontiera tra l’Impero e la primogenita colonia italiana, determinato dalla linea Tomat-Todluc, spostando la frontiera occidentale dal fiume Atbara, attualmente in territorio sudanese, al fiume Mai Teb, da cui confluisce il Mareb.
Per comprendere meglio l’oggetto del contendere, conviene fare ricorso a uno studio che il geografo Gabriele Ciampi ha compiuto su questi confini. L’obiettivo originario che l’amministrazione coloniale italiana si proponeva di raggiungere con il trattato del 15 maggio 1902 era di includere il territorio dei Cunama, situato nel Tigray, nella Colonia Eritrea. Il problema, se così può essere definito, è che i negoziatori italiani, nel disegnare la cartografia che doveva essere la loro base negoziale ai colloqui per il trattato, avevano delineato male quelle che dovevano essere le linee confinarie, lasciando circa la metà dell’ambito territorio fuori dall’accordo raggiunto, in territorio etiopico. L’errore commesso consisteva in una banale confusione ortografica tra il fiume Meeteb, inteso inizialmente come confine, e il fiume Mai Teb, stabilito ufficialmente come confine dal trattato, 80 km a ovest.

Ma poiché gli italiani, come ogni potenza coloniale, non erano disposti ad avere meno di quanto desiderato, nel 1904, facendosi forza di molte loro carte geografiche, tutte prive dell’ufficialità degli accordi del 15 maggio 1902, si erano unilateralmente appropriati di 3000 chilometri quadrati di territorio etiopico. Il territorio conquistato, vale a dire quella metà della regione dei Cunama lasciata fuori dal trattato del 1902, è quello in cui si trovano Badmè e Zalà Ambassa.[28] Successivamente, durante l’occupazione fascista dell’Etiopia, le frontiere con l’Eritrea avevano cessato di esistere, e alla primogenita colonia italiana erano state unite le regioni etiopiche del Tigray e dell’Afar. Con l’amministrazione britannica, i precedenti confini erano stati ristabiliti, per poi essere nuovamente sospesi dall’annessione decisa dall’Imperatore Hailè Selassiè nel 1962.
Come abbiamo sopra, l’annessione dell’Eritrea e il golpe comunista del 1974 avevano dato vita, rispettivamente, ai movimenti di guerriglia eritreo e tigrino, che avevano avviato una collaborazione anche prima dell’accordo stipulato nel 1988. Nonostante, ma forse si dovrebbe dire a causa di questa collaborazione, il TPLF, nel 1981 aveva occupato Badme.[29] Poiché in quel momento vi era un obiettivo più importante della difesa di Badme, ovvero la liberazione dall’Etiopia, sul quale andavano indirizzate tutte le energie e le attenzioni, gli eritrei non avevano reagito a questo colpo di mano. Probabilmente, essendo questa azione stata compiuta da una forza amica, i dirigenti eritrei avevano coltivato l’illusione che, una volta raggiunto lo scopo comune, cioè la caduta del regime di Menghistu, questa controversia avrebbe potuto essere risolta in via amichevole. Questa considerazione, che solo oggi con il senno di poi è da considerarsi illusoria, in realtà era stata suffragata da un documento risalente al 1989, nel quale il TPLF dichiarava di aver firmato un accordo con l’EPLF che riconosceva al futuro Stato eritreo la sovranità su Badme e Zalà Ambassa.[30] In effetti, all’indomani dell’indipendenza dell’Eritrea, erano cominciati i colloqui circa lo status quo di Badme, mentre Zalà Ambaassa era stata tenuta fuori dalle discussioni dato che nel 1952, al momento dell’entrata in vigore della federazione con l’Etiopia, era stata incorporata al territorio tigrino. Inoltre, come rivelato dal Ministro degli Esteri etiopico, Seyoum Mesfin, il 19 maggio 1998, una settimana dopo l’inizio della guerra, subito dopo l’ottenimento dell’indipendenza Etiopia ed Eritrea si erano messi d’accordo per risolvere le dispute confinarie mediante negoziati bilaterali, e in caso di fallimento si sarebbe fatto ricorso ad un intermediario all’arbitrato internazionale.[31]

Ben presto, gli eritrei si erano resi conto di come la questione di Badme fosse tutt’altro che di facile soluzione, a causa dello sciovinismo del quale era intrisa la leadership tigrina installatasi al potere in Etiopia e che rendeva sempre più tesi e infruttuosi i colloqui bilaterali. Nell’agosto del 1997, il problema era stato ulteriormente aggravato dalla decisione unilaterale del governo di Meles Zenawi di decretare Badme, il cui statuto era ancora indefinito, città a sovranità etiopica. Un mese prima, unità dell’esercito etiopico avevano occupato il villaggio eritreo di Adi Murag, azione per la quale il presidente Afeweki, il 16 agosto, aveva inviato una lettera a Zenawi, chiedendo di prendere misure volte a prevenire inutili conflitti. Come afferma lo storico Tekeste Negash, “la lettera del 16 agosto rivela molto della politica del governo eritreo sulla questione dei confini……Egli aveva dichiarato che il governo eritreo accordava dalla demarcazione dei confini una priorità minore rispetto ai futuri legami con l’Etiopia. Infine, il presidente eritreo aveva dichiarato che non c’era giustificazione per il ricorso etiopico alla forza, dato che non sarebbe stato difficile risolvere la controversia in via amichevole”.[32]
Nel novembre dello stesso anno, in ultimo tentativo di giungere a una soluzione pacifica, si era deciso di istituire una Commissione Bilaterale per redimere la controversia, ed era propria di questa commissione che facevano parte i militari eritrei caduti mentre varcavano il confine per interloquire con i pari grado etiopici. A dire delle autorità etiopiche, la delegazione eritrea era stata ammonita a non entrare nell’area di Badmè, luogo della sparatoria, essendo considerato territorio etiopico.

I principali fattori all’origine del conflitto possono essere così riassunti: la particolare configurazione geografica e la multietnicità degli abitanti dell’area, il lascito del colonialismo italiano, la fallimentare politica etnica dell’Imperatore Hailè Selassiè, la sua sostanziale prosecuzione da parte del regime comunista di Hailè Mariam Menghistu, la fine della guerra fredda, il risveglio etnico-nazionale e la persistente controversia economica.[33]
Circa il primo fattore, bisogna ricordare un elemento già citato in precedenza, ovverosia il mancato sbocco al mare al quale l’Etiopia è costretta, con grande detrimento per le sue ambizioni e il suo status. Tra le popolazioni dell’altopiano (identificabile con l’attuale territorio eritreo), che potevano usufruire di tale sbocco, e quelle del bassopiano (identificabile con il Tigray), tale condizione ha comportato il sorgere di numerosi motivi di rivalità e di scontro, dovuti anche alla povertà dell’ambiente arido. Secondo alcuni storici, tali conflitti rappresentano una costante del Corno d’Africa dal XIV secolo. Il ruolo del colonialismo italiano è consistito nell’acuire i contrasti plurisecolari tra costa ed entroterra, giocando sulle preesistenti discordie etniche e creandone di nuove con il tracciamento di confini artificiali tra la Colonia Eritrea e l’Impero d’Etiopia, che ebbero la conseguenza di separare nettamente tre popolazioni a cavallo dei due territori: a sud gli Afar della Dancalia, a nord i Cunama e, soprattutto, i Tigrini. La zona interessata da tale separazione corrisponde precisamente a quello che è stato il campo di battaglia tra l’esercito eritreo e quello etiopico. Per quel che concerne la politica di Hailè Selassiè, la sua colpa è stata abolire la federazione decisa dall’ONU nel 1952. Probabilmente, fu soprattutto tale decisione che gettò i semi dei rancori e delle ostilità che oggi dividono i due paesi. Menghistu non fece altro che accentuare il centralismo e trasferire interi villaggi da nord a sud, con l’obiettivo di separare la guerriglia eritrea e l’opposizione del Tigray. La conseguenza immediata era stata la stipula dell’alleanza dei due fronti, come detto nel paragrafo precedente.

La fine della dittatura di Menghistu aveva riproposto quei problemi derivati dalla divisione territoriale per mano italiana che per molti decenni erano rimasti sopiti. Basti pensare che nella zona intorno ad Assab, alcuni gruppi Afar rivendicavano il diritto a unirsi agli altri Afar etiopi e di Gibuti, al quale il governo eritreo oppose un secco rifiuto.[34] Ciò che qui va detto è che da più parti in Etiopia, fin dai mesi successivi alla caduta del regime comunista, veniva espressa la contrarietà all’indipendenza dell’Eritrea con motivazioni che non erano soltanto di natura ideologicamente nazionalistica, bensì ponevano l’accento sul fatto che l’Eritrea, in quanto invenzione del colonialismo italiano, non poteva essere considerata come una nazione.[35] Inoltre, da parte delle èlites tigrine erano risorti quei sentimenti di astio nei confronti degli eritrei che hanno sempre caratterizzato i loro rapporti, dal momento che questi ultimi hanno sempre avuto una vivacità culturale e una propensione al successo economico che i tigrini non hanno mai posseduto. La propaganda tigrina sfoga, così, questa frustrazione accusando gli eritrei di essere un popolo prevaricatore, arrogante e prepotente, rimarcando spesso e volentieri il ruolo avuto dagli ascari eritrei nella campagna d’Etiopia del 1935. Il fatto che l’Eritrea, nella sua giovane vita, abbia avuto contese territoriali anche con il Sudan, lo Yemen e Gibuti pare legittimare l’opinione dei nazionalisti etiopi, secondo la quale il governo di Asmara ha delle velleità espansionistiche verso il resto del Corno d’Africa. L’ala oltranzista del TPLF, nella sua cieca ostilità nei confronti dell’Eritrea, è arrivata al punto di accusare Meles Zenawi di essere volutamente troppo morbido con il nemico, indicando come probabile causa il suo “sangue corrotto” (Zenawi ha ascendenze eritree). Ad ogni modo, non vi è alcun dubbio che ciò che motiva maggiormente l’Etiopia, a prescindere dai motivi stessi del contendere con l’Eritrea, sia riequilibrare il Corno d’Africa in funzione della propria egemonia, come dimostra quanto affermato da Zenawi il 1° giugno 2000, a conflitto ancora in corso, e cioè che il governo eritreo andava assolutamente sostituito con un esecutivo meglio disposto ad andare incontro alle esigenze e alle rivendicazioni di Addis Abeba.
La macchina propagandistica messa in moto dal governo etiopico fin dall’inizio della guerra rafforza ulteriormente la sensazione che quanto dichiarato dal Primo Ministro si inseriva in una strategia di consolidamento del proprio ruolo di potenza egemone in un’area tanto cruciale. Infatti, la radio e la televisione (che, occorre dirlo, sono interamente di proprietà dello Stato), hanno a più riprese diffuso comunicati nei quali si dichiarava che il governo eritreo era illegittimo, e che le azioni degli eritrei altro non erano che la prosecuzione dell’aggressione condotta a fianco dell’invasore italiano nel 1935-36.

Resta da sbrigare il nodo economico, e qui bisogna tornare al momento in cui l’Eritrea ha deciso di adottare la propria moneta. Come detto, il governo etiopico si era rifiutato di svolgere le transazioni con la nuova valuta e aveva preteso pagamenti in dollari. L’Eritrea era rimasta spiazzata da tale richiesta, poiché non disponeva di grossi quantitativi in dollari a causa della mancanza di investimenti stranieri.[36] Va rilevato come il teff, un tipico cereale coltivato solo nel Corno d’Africa e indispensabile per la cucina locale, veniva a costare al mercato di Asmara tre volte di più che al mercato di Addis Abeba. Fatto sta che la fluttuazione libera del nakfa aveva finito con il creare rapporti di scambio sfavorevoli all’Etiopia, e non potendosi risolvere pacificamente la fruibilità dei porti eritrei, l’atavico principio dello sbocco al mare non ha potuto fare altro che tornare in auge.
Sommando tutti questi avvenimenti diventa facile comprendere come i rapporti tra i due paesi si siano avviati verso un drastico deterioramento, provocando tutta una serie di dispetti, reciproche ripicche, rivalse e rappresaglie. Soprattutto, diventa facile comprendere come una contesa territoriale riguardante una striscia di terra lunga pochi chilometri e del tutto priva di risorse naturali, anziché essere risolta con mezzi diplomatici o appellandosi alle Nazioni Unite, abbia spinto Etiopia ed Eritrea a fare un massiccio ricorso alle armi per il quale, fino a quel momento, parevano mancare sufficienti pretesti.

Ma in questa analisi non può mancare un accenno a uno dei motivi del contendere sul quale ci siamo già soffermati, ovvero la sovranità sulla città di Badme. Questo territorio non rappresenta una regione fondamentale dal punto di vista strategico, né possiede rilevanti risorse minerarie o petrolifere. Al contrario, Badme è un misero villaggio popolato da cinquemila anime, e non vi si trova nulla di più di una scuola elementare, un ospedale e poche pensioni. Come se non bastasse, a completare questa desolante cornice concorrono una cronica carenza d’acqua e modesti raccolti. Ma se la materialità di Badme rasenta il nulla, è a livello simbolico che essa acquisisce tutta la sua importanza di casus belli: “Nel corso degli anni ‘80, quando il TPLF e l’EPLF erano alleati contro il regime marxista di Menghistu, Badme era un’importante base militare per la guerriglia. Già a quel tempo sorsero dissidi su chi dovesse controllare quella regione, ma furono momentaneamente messi da parte per concentrare i propri sforzi nella lotta contro il governo centrale. I dissapori non tardarono però ad emergere nuovamente una volta che, posati i fucili, i capi della guerriglia si ritrovarono ad essere capi di governo: Afeworki ad Asmara e Zenawi ad Addis Abeba.”[37]

Entrambi i contendenti hanno vissuto l’abbandono di Badme al nemico come una svendita del proprio orgoglio nazionale e come una minaccia contro la stabilità interna. Il comportamento dell’Etiopia può essere maggiormente spiegato con l’intenzione di Meles Zenawi di ricompattare il fronte interno e procedere a una ridistribuzione dei poteri tra le diverse componenti etniche del paese. La spiegazione che può essere utilizzata per il comportamento dell’Eritrea è il desiderio di Isayas Afeworki di vedere la leadership tigrina in Etiopia sostituita da una che dimostri meno astio e bramosità, un fine questo accomunabile con quello espresso da Zenawi nel discorso del giugno 2000. Per la realizzazione di questi due obiettivi, il mezzo migliore trovato da entrambi è stato il ricorso alle armi.
Ma dopo aver visto tutte le possibili cause che hanno portato a tale insensato conflitto, forse quella che appare più credibile è il rifiuto da parte dell’Etiopia di rassegnarsi a perdere la propria gerarchia, di nazione abitata da 55 milioni di abitanti e dalla ricca tradizione storica e culturale, su una nazione di 4 milioni che non era mai esistita in quanto tale. Così, dietro una parvenza di idillio, i rapporti che avevano preceduto la guerra nascondevano una fredda ostilità da parte di Addis Abeba, che si traduceva in persistente diniego ad aprire un dialogo con la controparte eritrea su un definitivo delineamento delle frontiere. L’Eritrea, da parte sua, in parte per i motivi enunciati in precedenza e in parte per la cultura politica, a sua volta, nazionalista, non ha insistito come doveva sulla strada diplomatica e, soprattutto, non si è rivolta alla comunità internazionale per far valere le sue non poche ragioni. Quali siano stati gli esiti di questo conflitto e quale posizione l’Etiopia sia riuscita a conquistare, sarà la materia di analisi del paragrafo successivo.

Sviluppi dopo il cessate il fuoco

Il 30 maggio 2000, dopo ripetute sollecitazioni da parte dell’Unione Africana, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, per mezzo del Sottosegretario agli Esteri del governo italiano Rino Serri, Etiopia ed Eritrea hanno acconsentito a dare inizio a incontri separati per trovare una soluzione negoziata al conflitto. Il clima nel quale i colloqui si sono svolti è stato di estrema tensione, con l’Etiopia decisa ad esercitare una posizione dominante, e l’Eritrea prostrata da combattimenti insostenibili per le proprie forze. La decisione presa dai due governi è stata anche dettata dalla drammatica situazione economica e sociale venutasi a creare in entrambi i paesi.
I primi colloqui sono durati venti giorni, e hanno portato all’accordo per il cessate il fuoco, siglato ad Algeri il 18 giugno, che stabiliva: il ritiro delle truppe etiopi fino alle posizioni occupate prima del 6 febbraio 1999; ritiro delle truppe eritree lasciando libera, sul proprio territorio, una fascia di sicurezza di 25 Km; dispiegamento di una forza di interposizione ONU; ripristino nelle località di confine della amministrazioni civili, con temporaneo affidamento di Badme all’Etiopia; ricorso ad un arbitrato internazionale per la definizione dei confini; la creazione di una zona cuscinetto di 20 Km. proprio nei territori contesi.[38] Ha avuto, così, termine un conflitto da più parti definito insensato, che ha provocato più di 70.000 morti, 100.000 profughi, un milione di sfollati e l’espulsione di 95.000 cittadini (80.000 eritrei dall’Etiopia e 15.000 etiopici dall’Eritrea) dai rispettivi paesi, dove in molti casi erano nati e cresciuti.[39]

Il 12 dicembre 2000, ad Algeri è stata siglato l’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea. L’accordo prevedeva la supervisione delle Nazioni Unite al ritiro delle truppe etiopi dai territori occupati durante l’offensiva finale, l’affidamento all’ONU della gestione temporanea della zona cuscinetto, la demarcazione neutrale della linea di confine secondo quanto stabilito dagli accori trilaterali tra Italia, Gran Bretagna e Impero d’Etiopia nel 1908, e la disamina delle richieste di risarcimento avanzate da entrambe le parti. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha promesso sia all’Etiopia che all’Eritrea aiuti internazionali volti a favorire la ricostruzione. Entrambe le parti si sono impegnate a rispettare le decisioni, ai fini della nuova frontiera, della Commissione di Arbitraggio internazionale dell’Aja.
Questo accordo prevedeva tre fasi: la Commissione Internazionale dell’Aja avrebbe valutato le richieste di entrambe le parti in merito alla disputa territoriale e l’ubicazione esatta dei confini; un’altra commissione della Corte Internazionale avrebbe valutato le richieste di ambo le parti in merito alla confisca ed ai danni subiti dalle proprietà dei cittadini; in ultimo, una commissione dell’Unione Africana avrebbe stabilito quali erano le responsabilità di ciascun paese riguardo al conflitto e quanto ognuno avrebbe dovuto pagare per riparare gli immensi danni causati dalla guerra. La missione di peacekeeping istituita dall’accordo di Algeri è denominata “United Nations Missions in Ethiopia and Eritrea” (UNMEE), e ha il compito di controllare l’attuazione dell’accordo impiegando un contingente di pace, inizialmente di 100 militari e uno staff di supporto, da aumentare nel corso degli anni sulla base della risoluzione ONU Numero 1230 del giugno 2000.
Il 15 settembre, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato, nell’ambito di tale missione l’invio di 3980 uomini e 220 osservatori militari con il compito di controllare il rispetto del cessate il fuoco e garantire l’inviolabilità della zona cuscinetto.[40] La Commissione per i Reclami dell’Aja, nell’agosto del 2001, si è pronunciata sulla violazione della norma internazionale che vieta l’uso della forza militare, condannando l’Eritrea per violazione dell’Articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite, che vieta la minaccia e l’uso della forza armata nelle relazioni internazionali, ritenendo che l’intervento militare contro l’Etiopia nella zona di Badme non fosse giustificabile a titolo di legittima difesa, poiché l’Eritrea non era stata oggetto di un previo attacco armato.[41] Gli incidenti di frontiera localizzati tra piccole unità di fanteria, come nel caso dello scontro avvenuto il 6 maggio del 1998, non sono considerati un attacco armato.

Questi accordi nascondono però elementi di instabilità, il primo dei quali consiste nel fatto che sono transitori, e che quindi lasciano la situazione in merito alla disputa sui confini in una condizione di scarsa chiarezza. Il secondo elemento di instabilità concerne i rapporti tra le popolazioni: dopo due anni di violenti combattimenti e di reciproche deportazioni, è abbastanza facile comprendere come i due popoli siano poco propensi a cooperare e a mettere da parte i propri impulsi sciovinisti. Ad ogni modo, il primo elemento di instabilità ha avuto una prima risoluzione con il verdetto emesso dalla Commissione Internazionale dell’Aja il 13 aprile del 2002, la quale ha stabilito che, in base al diritto internazionale e ai trattati del periodo coloniale: nel settore occidentale dell’area di guerra, Badme spettava all’Eritrea; nel settore centrale; Zalà Ambassa e le regioni di Badda e Irob appartenevano all’Etiopia e Tsoranà all’Eritrea; nel settore orientale, i confini andavano spostati a favore dell’Etiopia, in applicazione di un trattato del 1908, che stabiliva il confine a 60 chilometri dalla costa, così come il posto di dogana di Burè, vicino ad Assab, andava posto sotto sovranità etiopica.[42]
Ma il primo vero punto di svolta si è verificato il 2 aprile 2018, quando Abiy Ahmad è diventato il nuovo Primo Ministro dell’Etiopia, interrompendo il dominio del TPLF che era ininterrottamente in funzione dal 1991. Durante il suo discorso di accettazione, ha promesso riforme politiche; promuovere l’unità dell’Etiopia e l’unità tra i popoli dell’Etiopia; raggiungere il governo eritreo per risolvere l’attuale conflitto di frontiera tra l’Eritrea e l’Etiopia. Nel giugno 2018, è stato annunciato che il governo aveva accettato di consegnare la contesa città di confine di Badme all’Eritrea, rispettando in tal modo i termini dell’accordo di Algeri del 2000 per porre fine allo stato di tensione tra Eritrea ed Etiopia che era persistito nonostante la fine delle ostilità durante la guerra etiope-eritrea.[43] Fino a quel momento l’Etiopia aveva respinto la sentenza della commissione internazionale di confine che assegnava Badme all’Eritrea, provocando un conflitto congelato tra i due stati.[44]
Ad Asmara, l’8 luglio 2018, Abiy Ahmad è diventato il primo leader etiope a incontrare una controparte eritrea in oltre due decenni. Il giorno successivo, i due firmarono una “Dichiarazione comune di pace e amicizia” che segnava la fine delle tensioni e conveniva, tra le altre cose, di ristabilire relazioni diplomatiche; riaprire i collegamenti diretti di telecomunicazione, stradale e aereo; facilitare l’uso etiope dei porti di Massawa e Assab.[45]
In conclusione, la prudenza ci impone di guardare a questa svolta delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea con cauto ottimismo, tenendo presente come i Tigrini non sembrano accettare questa pacificazione volontariamente. Tuttavia, l’accoglienza entusiasta riservata al ripristino delle relazioni da parte di entrambi i popoli suggerisce che è iniziato un nuovo capitolo nella storia del Corno d’Africa. È nell’interesse di tutte le parti continuare sulla strada tracciata da Abyi Ahmad e mettere da parte rancori, sciovinismi e interessi di fazione che per troppo tempo hanno diviso due popoli fratelli per cultura, tradizioni e legami di sangue.

 

 

 

Note


[1] Sylvia Pankhurst, Eritrea on the eve, in “New Time and Ethiopia News”, Woodford Green, 1952, p. 24.
[2] Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna, 2002. p. 48.
[3] Harold Marcus, (a cura di), New Trends in the Ethiopian Studies. Proceedings of the Twelfth International Conference of Ethiopian Studies. Michigan States. 5-10 September 1994, The Red Sea Press, Lawrencville, 1994, p. 99.
[4] Gian Paolo Calchi Novati, Il Corno d’Africa nella storia e nella politica. Etiopia, Somalia ed Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, Società Editrice Internazionale, Torino, 1994., p. 82.
[5] Ivi p. 84.
[6] Ruth Iyob, The Eritrean struggle for independence, University Press, Cambridge, 1995, p. 62.
[7] Gian Paolo Calchi Novati, op. cit., p. 88.
[8] Ruth Iyob, op. cit., p. 82.
[9] Gian Paolo Calchi Novati, op. cit., p. 164.
[10] Ivi p. 168.
[11] Ivi p. 169.
[12] Ruth Iyob, op. cit., p. 108.
[13] Ivi p. 118.
[14] Gian Paolo Calchi Novati, op. cit., p. 175.
[15] Ruth Iyob, op. cit., p. 122.
[16] Gian Paolo Calchi Novati, op. cit., p. 176.
[17] Ivi p. 178.
[18] Ruth Iyob, op. cit., p. 132.
[19] Tekeste Negash e Kjetil Tronvall, Brothers at war, James Currey, Oxford- Ohio University Press, Athens, 2000, p.32.
[20] Istituto Cooperazione Economica Internazionale, Etiopia ed Eritrea: I motivi di una guerra, in “I fascicoli dell’ICEI”, Milano, novembre 2000, p. 25.
[21] Ivi p. 28.
[22] Ivi p. 29.
[23] Centro Studi Internazionali, Etiopia ed Eritrea. Sviluppi di situazione, in “Contributi di Istituti di Ricerca Specializzati”, Servizio Affari Internazionali del Senato della Repubblica, N. 52, luglio 2006, p. 12.
[24] Gian Paolo Calchi Novati, Conflict and the Reshaping of States in the Horn of Africa, p.19.
[25] Ivi pp.19-20.
[26] Istituto Cooperazione Economico Internazionale. op. cit., p. 32.
[27] Federica Guazzini, Le ragioni di un confine coloniale. Eritrea 1898-1908, L’Harmattan Italia, Torino, 1999, p. 62.
[28] Gabriele Ciampi, Componenti cartografiche della controversia di confine eritreo-etiopico, in “Bollettino della Società geografica Italiana”, luglio-dicembre, 1998.
[29] Alberto Angelo, Eritrea Storm, in www.peacelink.it/dossier/eritreastorm.
[30] Mesfin Wolde- Mariam, The Horn of Africa. Conflict and poverty, Commercial Printing Press, Addis Ababa, 1999, p. 179.
[31] Tekeste Negash e Kjetil Tronvall, op. cit., p. 27.
[32] Ivi pp. 26-27.
[33] Ivi p. 36.
[34] Ivi p. 37.
[35] Ivi p. 38.
[36] Ivi p. 39.
[37] Vedi: Etiopia- Eritrea:scheda ,in www.warnews.it/index.php/content/view/65/29, 22 gennaio 2004.
[38] Vedi: Storia dell’Eritrea, in www.digilander.libero.it/svncc/STER.
[39] Eugenio Roscini Vitali, Etiopia-Eritrea, Asmara chiede l’intervento diplomatico di Pechino, in www.paginedidifesa.it/2007/Roscini_070726, 26 luglio 2007.
[40] Matteo Dominioni, Etiopia-Eritrea 2001, in www.intermarx.com/ossinter/matteo.
[41] Tiziana Carmelitano, La giurisprudenza della Commissione per i Reclami Etiopia-Eritrea e il diritto internazionale umanitario, in “In.Law”, Università degli Studi di Perugia, (a cura di), Morlecchi Editore, N.1, gennaio-febbraio 2006.
[42] Alberto Vascan, Eritrea-Badme e la questione dei confini con l’Etiopia, in www.ilcornodafrica.it/gt-bad1, inverno 2003.
[43] Maasho, Aaron (5 June 2018).“Ethiopia opens up telecoms, airline to private, foreign investors”.Reuters.
[44] Lyons, Terrence (2009). “The Ethiopia-Eritrea Conflict and the Search for Peace in the Horn of Africa”. Review of African Political Economy. 36 (120)
[45] Dahir, Abdi Latif (9 July 2018). “The giddy excitement that marked Ethiopia and Eritrea’s historic summit”