L’EVOLUZIONE DEL COMUNE NEL MEDIOEVO

di Massimo Iacopi -

 

Alla fine dell’XI secolo alcuni comuni dell’Italia centro-settentrionale iniziano a governarsi da soli: sono i primi tentativi di democrazia da cui origineranno le moderne esperienze di sovranità popolare.

Nel 1154 l’arcivescovo Ottone di Frisinga, zio dell’imperatore tedesco, passa per l’Italia e racconta il suo stupore davanti a questo paese fatto di città, che “sorpassano in ricchezza e in potenza tutte le altre città del mondo”. L’evidente ricchezza lo colpisce: essa si esprime con lo splendore nella varietà dei prodotti scambiati sui mercati, nel numero di abitanti che si ammassa nei borghi, nella fastosità delle chiese e dei palazzi che abbelliscono i centri storici. Ma questa potenza è anche di natura tutta politica, fatto che stupisce il nostro venerabile prelato: “Quasi tutto il territorio è diviso in città”. Da questo lato delle Alpi, non ci sono regni, né contee e risulta difficile incontrare tutti quei riferimenti territoriali, abituali dell’Europa medievale centro-settentrionale, che rendono l’autorità dei signori la principale forza di strutturazione dello spazio. Al di qua delle Alpi esistono soprattutto città popolate, prospere e fiere della loro indipendenza, che polarizzano il territorio che le circonda.
A leggere la descrizione di Ottone di Frisinga, si individua anche il momento in cui l’ammirazione si trasforma in indignazione. In effetti, questo potere delle città pretende di imporsi su tutti: “Ci si troverebbe in forte difficoltà nel trovare un nobile o un grande, abbastanza ambizioso, che sia disposto a non conformarsi agli ordini della sua città”. Questa è l’altra stranezza italiana, sottolineata dal vescovo tedesco: l’inurbamento di una buona parte della nobiltà feudale, vale a dire il mantenimento della propria residenza nella città, mentre, al contrario, la ruralizzazione delle aristocrazie costituisce una delle caratteristiche principali della società medievale tedesca.
Tutto questo perché, ed ecco lo scandalo: gli abitanti delle città “amano talmente la libertà che rifiutano qualsiasi eccesso di potere e preferiscono come capi, per guidarli, dei consoli”.

1080-1180: il secolo dei consoli

La battaglia di Legnano, dipinto di Amos Cassioli

La battaglia di Legnano, dipinto di Amos Cassioli

Consoli: una parola pregna di significato, evocativa di una autorità del passato che deriva dal latino. La prima volta che appare nella documentazione medievale è a Pisa, nel 1085. La città toscana, partecipando attivamente alle operazioni della crociata, è riuscita a soppiantare l’altro grande porto della costa tirrenica, Amalfi, facendo spostare il centro di gravità dell’Italia comunale da sud a nord. E’, pertanto, proprio tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo che nell’Italia centro settentrionale appaiono i primi consoli, specialmente in Piemonte, Lombardia e Toscana (ad Asti nel 1095, a Milano nel 1097, ad Arezzo nel 1098). Anche se essi si designano come tali, il riferimento del titolo non deriva dalle istituzioni romane ma piuttosto dalle pratiche politiche che lo stesso termine suggerisce.
Consulere significa “deliberare” e gli uomini che prendono in mano il destino delle loro città (spesso, come vedremo, ricchi aristocratici) non fanno nient’altro che organizzare, su basi radicalmente nuove, il potere delle città, in modo da amministrarsi da soli. Un potere fondato sulla delega dell’autorità sovrana a un collegio di rappresentanti eletti, che operano collettivamente: questa è la prima definizione che si potrebbe dare alla gestione del Comune.
Un’esperienza, dunque, piuttosto che un regime, fatta di pratiche politiche che non fissano nessuna istituzione scritta. Questo è dunque l’aspetto specifico dell’Italia medievale ed è proprio questo il fatto di cui si preoccupa Ottone di Frisinga. Ciò perché, nel momento in cui riferisce del suo viaggio in Italia, l’esperienza è già antica e minaccia direttamente le prerogative dell’imperatore.
Suo nipote, Federico Barbarossa di Hohenstaufen, eletto imperatore dei Romani dal 1152, cerca effettivamente di recuperare i suoi diritti sulla “sua” Italia, ovvero uno dei tre regni che, con quello di Borgogna e di Germania, compongono l’impero. Il vecchio regno d’Italia che, partendo dalle Alpi e limitato dagli stati della Chiesa, è centrato sulla Lombardia, una delle regioni economiche più dinamiche del tempo. L’imperatore intende recuperare la sovranità proprio sui comuni appena nati e pervasi dallo spirito di libertà di cui parla Ottone di Frisinga. Lo scontro diventa quindi inevitabile.
Inizialmente la lotta volge a vantaggio di Federico Barbarossa. Nel 1162 le truppe imperiali conquistano Milano, che viene rasa al suolo (ad fundamentum), ma i suoi abitanti riescono a ritornare in città e questa gloriosa riconquista verrà celebrata sui bassorilievi della Porta romana, primo esempio di un’arte laica di autocelebrazione urbana. Milano, in effetti, era riuscita a mobilitare la maggior parte delle città dell’Italia del nord nella prima Lega lombarda e le sue milizie sconfiggeranno il Barbarossa nella battaglia di Legnano il 29 maggio 1176. Dall’opera che Verdi ha fatto rappresentare a Roma nel 1849 fino alle dubbiose celebrazioni politiche della Lega del Nord, Legnano è diventato uno degli ambigui luoghi della memoria degli Italiani. In effetti gli Italiani non hanno mai smesso di credere che la città è stata, per riferirsi al titolo di una celebre opera dello storico Carlo Cattaneo, il “principio ideale” della loro storia a partire dal 1859.
E’ pur vero che la storia italiana imbocca dopo Legnano una biforcazione decisiva: l’imperatore, firmando a Costanza il 25 giugno 1183 una pace con i rappresentanti di 25 città italiane, le riconosce come entità politiche legittime, soprattutto in materia giuridica e fiscale, concedendo loro i diritti regali (regalia) “sia all’interno che all’esterno della città”. Questa precisazione è fondamentale, in quanto, una volta costituito politicamente, il Comune si lancia alla conquista del suo contado, vale a dire delle sue campagne circostanti, precedentemente iscritte nelle vecchie contee (comitatus) e coincidenti, in tutto o in parte, con una diocesi dei loro vescovi, che dall’epoca carolingia si erano impossessati di alcuni diritti comitali.
Gli imperatori successivi cercheranno di riprendersi i diritti che Federico Barbarossa pretendeva comunque di aver concesso. In particolar modo il re di Sicilia e imperatore di Germania, Federico II di Hohenstaufen, che provocherà nel 1236 la ricostituzione della Lega lombarda. Indubbiamente i partigiani imperiali (denominati ghibellini) non disarmeranno per tutto il XIII secolo, opponendosi ai guelfi, gli alleati del Papa, che a sua volta cercava di imporre ai Comuni la tutela di un altro potere a vocazione universale.
Resta comunque il fatto che l’Italia comunale del centro-nord riesce ad affermare la sua specificità e la sua prosperità, in particolar modo rispetto al Mezzogiorno, dove il movimento di emancipazione urbana ha grandi difficoltà (Federico II riesce a distruggere i comuni nascenti di Gaeta, Napoli e Messina). Ma tutto questo avviene – fatto essenziale che la storiografia recente non smette di rivalutare – al prezzo di una intensificazione della conflittualità sociale.
In effetti, se si vuole scandire la storia dell’Italia comunale, si possono individuare tre tempi – dei consoli, dei podestà e del popolo – che corrispondono alla nascita di istituzioni specifiche e a un allargamento progressivo della base sociale dei governi urbani. Di fatto, questa dinamica è tutto meno che armoniosa e consensuale. E soprattutto è costellata di scontri sociali e tra fazioni.
Del comune consolare, in opera agli inizi del XII secolo, si potrebbe affermare che è di natura aristocratica, un’ipotesi che risulta decisamente controcorrente rispetto a una lunga tradizione storiografica. Affascinati dal ruolo del grande commercio nello sviluppo economico delle città, gli storici hanno per lungo tempo messo in stretta relazione lo sviluppo delle libertà urbane con la crescita di potenza e di influenza degli uomini nuovi arricchitisi con gli affari.
A questa logica interpretativa rimandava l’immagine della borghesia conquistatrice nel XX secolo, immagine che a sua volta si rifaceva ai riferimenti storici tratti dall’avventura comunale medievale. Questa era già la prospettiva della Histoire des republiques italiennes du Moyen Age, scritta fra il 1807 ed il 1818 dal filosofo e storico svizzero Jean Charles de Sismondi, ripresa da una buona parte della storiografia contemporanea.
Di fatto, fra il primo gruppo dirigente dei comuni consolari si possono individuare ricchi banchieri a Milano o armatori a Genova. Ma quelli che dominano sono in primo luogo i personaggi provenienti dalla nobiltà feudale: è questo il caso di Padova, dove il primo patriziato urbano fonda le sue radici sulla proprietà fondiaria delle campagne e sulla clientela del vescovo. A lungo sottovalutata, l’origine episcopale del comune consolare appare essenziale per gli storici di oggi, poiché essi vi intravvedono l’indizio di un legame storico fra i movimenti riformatori della Chiesa e quelli dell’emancipazione urbana: in entrambi i casi, si tratta, in primo luogo, di scongiurare un disordine politico conseguente alla vacanza del potere centrale. Nel momento in cui la conquista normanna insedia una potente monarchia feudale nell’Italia del sud, l’eclissi imperiale sul resto d’Italia mette le città del nord di fronte alla sfida di restaurare la pace pubblica e il Comune è la forma politica derivata da questa necessità.
Fiscalità, giustizia, controllo del territorio: in un solo colpo, i consoli allargano il campo dell’attività governativa, affermando la loro capacità di difendere la res publica, vale a dire di farsi carico degli interessi del comune. In tal modo nasce il sostantivo comune, che sostituisce, a poco a poco, quello di civitas negli atti della pratica amministrativa. Di fatto, come si può leggere negli Annales – una delle prime storie che prende come orizzonte il contesto urbano –, il console Caffaro di Rustico di Caschifellone (1080-1164) suggerisce al Consiglio di Genova, nel 1152, che il compito principale dei consoli è quello di “reggere il comune e il popolo in pace e nella concordia”.
La nascita dell’istituzione comunale in Italia, legata al movimento di pace sociale lanciato della Chiesa, sarebbe incomprensibile ove non si tenesse conto che proprio nello stesso periodo si assiste allo sviluppo di un forte movimento culturale: la rinascita del diritto romano, che, in parte, ha contribuito allo sviluppo del fenomeno. Si conosce da tempo l’importanza dei giuristi bolognesi nella reinterpretazione del Corpus iuris civilis di Giustiniano (482-565), dal quale gli ideologi del comune traggono formule di sovranità che rivolgono contro l’imperatore, a cominciare dal bene comune, cruciale nella teoria politica dei Comuni così come nelle pratiche ordinarie della cittadinanza. In effetti, al di là di queste grandiose costruzioni teoriche, è proprio nella condotta di governo che si apprezza l’impatto del diritto erudito, sia nella redazione degli statuti urbani sia nell’impiego dei consigli dei giuristi (Consilia) nella condotta degli affari o nella pratica ordinaria dei processi (da non confondere, però, con le odierne consulenze).
Il cronista Fra’ Salimbene de Adam da Parma (1221-1288) diceva di suo zio che era un famosus iudex et probus in armis (giudice famoso e abile nel maneggio delle armi): attributi propri della cultura giuridica che caratterizza l’aristocrazia comunale dei milites urbani, vale a dire dei cavalieri (aristocratici), in opposizione ai pedites (popolo), che combattono a piedi.
Questa bipartizione militare fra militia e populo è fondamentale nella strutturazione dello spazio politico delle città. Lo storico Jean Marie Vigueur ha evidenziato l’importanza dell’esercizio delle armi e dei valori marziali nella cultura politica italiana; essi spiegano, allo stesso tempo, l’importanza strategica delle guerre di conquista del contado e la violenza strutturale delle lotte di fazione all’interno della città, di norma irta di torri (a Firenze nel 1300 se ne contano più di 200). E’ proprio l’insediamento spontaneo o forzoso delle dinastie feudali nel tessuto urbano e la loro capacità di costituire delle sacche di potere intorno alle loro residenze fortificate il primo principio di strutturazione dello spazio cittadino (un “urbanesimo cittadino”, come è stato definito nel caso di Genova).
Ricostituire la composizione sociale di questa prima aristocrazia consolare consente, in primis, di immaginare lo sviluppo della città prima che questa risulti regolata dai politici del bene pubblico (istituzione del Comune); ma essa porta, in secundis, ad affrontare un paradosso: occorre, in effetti, comprendere che la società comunale è stata allo stesso tempo profondamente intrisa di diritto e strutturalmente violenta, penetrata dalla cultura dello scritto e regolata dalle pratiche di vendetta tipiche della faida aristocratica.
I milites, utilizzando allo stesso tempo le armi e la legge, si impongono nelle città a colpi di processi e di combattimenti di strada, in una situazione a elevato livello di conflittualità (Gerard Rippe, storico francese autore di ricerche su Padova e il suo contado, soleva dire che il Comune era la prosecuzione della guerra feudale con altri mezzi).
In effetti, la pace di Costanza del 1183, nel momento in cui consente ai Comuni di affermare la loro legittimità fiscale e giudiziaria, libera forze sociali e politiche che superano ben presto il livello consolare, aprendo il secondo tempo della storia dei Comuni: quello dei podestà.

1180-1230: il tempo dei podestà

Intorno agli anni Ottanta del XII secolo i Comuni italiani sperimentano una sorprendente innovazione politica: affidare temporaneamente (in genere per un anno) a un magistrato straniero l’incarico di risolvere i suoi conflitti interni. I suoi compiti sono quelli di “reggere, unificare, rendere coesa e conservare” la città, dal momento che essa è diventata preda delle inimicizie civili, proprio come viene precisato in un documento della città di Cremona agli inizi del XII secolo.
Concretamente, il podestà convoca e presiede le riunioni dei Consigli, fa eseguire le deliberazioni, vigila sull’ordine pubblico e rende giustizia alla testa di un suo tribunale. Professionista della conciliazione, egli riesce a imporsi per la sua potenza sociale – in tale contesto non risulta raro che questi grandi personaggi vengano circondati dalla loro guardia armata e da uno stuolo di consiglieri – ma anche per mezzo delle sue capacità oratorie. In effetti, in questo sistema in cui ogni sovranità viene dall’arengo, vale a dire dall’assemblea dei cittadini, governare significa, anche e soprattutto, disporre di capacità di convincere l’uditorio. Ecco perché si sviluppa una retorica della persuasione civica, che viene denominata ars dictaminis, della quale alcuni trattati (ad esempio l’anonimo Oculus pastoralis del 1220-1225) sono destinati proprio all’esercizio dell’autorità podestarile.
Tali podestà, senza dubbio, vengono reclutati essenzialmente fra i ranghi della Militia. Un’indagine storica collettiva ha consentito di individuare i contorni di questo gruppo sociale a livello dell’Italia comunale: considerando le 6500 cariche detenute da 2500 ufficiali dalla fine del XII secolo agli inizi del XIV, la ricerca ha potuto verificare la schiacciante predominanza dell’antica aristocrazia consolare. Più della metà di loro provengono dalla fascia superiore della Militia, quella che nell’Italia longobarda chiamavano i Capitanei.
Tre regioni si evidenziano come esportatrici di podestà: la Lombardia nella prima metà del XIII secolo (soprattutto Milano, Cremona e Brescia), l’Emilia dal 1250 al 1300 (con Bologna in prima linea) e la Toscana, dai primi decenni del XIV secolo, con uno schiacciante predominio della città di Firenze. La circolazione dei podestà individua, pertanto, anche spazi di alleanze, di dominio e di prestigio. Alcune città (Siena e Perugia, ad esempio) prendono l’abitudine di scambiarsi i podestà, mentre altre utilizzano la loro capacità di esportazione come mezzo di egemonia o di dominio. In tal modo, le piccole città della Toscana (San Gimignano, Prato o Pistoia) vengono ben presto costrette a scegliere i loro podestà a Firenze, come le città degli Stati della Chiesa devono farlo a Roma o in altre città di maggiore influenza (è il caso di Assisi nei confronti di Perugia).
I podestà, in definitiva, dicono tutto dell’Italia comunale: un mondo indubbiamente a compartimenti, nel quale ogni città, gelosa della propria autonomia, sviluppa un sistema politico proprio e dove la complessità del gioco sociale si assomiglia solo sotto l’aspetto dell’intensità dei conflitti che l’animano. Ma questo panorama costituisce anche un mondo unificato da un solo e identico sistema culturale, nel quale la circolazione del personale politico itinerante testimonia una capacità straordinaria di scambio di idee, di informazioni e di modelli politici.
Questa unificazione vale, in special modo, in materia di architettura: si è potuto osservare che nei comuni lombardi determinati podestà provenienti da Brescia o da Milano avevano operato come specialisti dell’edilizia pubblica, contribuendo a diffondere un modello unico di palazzo civico. Il podestà milanese Guglielmo da Osa inizia, ad esempio, la costruzione del palazzo comunale di Brescia nel 1187, prima di far edificare quello di Verona (sul modello del palazzo di Pavia), dove diviene podestà dal 1189 al 1191 e dove si distingue per i lavori idraulici di sistemazione del corso del Brenta.
Occorre però essere prudenti a non idealizzare e generalizzare questo secondo tempo podestarile del comune italiano: questo, di fatto, non si può comprendere appieno se non si tiene conto di una forza sociale e politica che ben presto supererà il semplice contesto comunale: il popolo.
A Piacenza nel 1218 scoppia un tumulto per espellere il podestà di provenienza milanese, Guido da Busto, accusato dalla societas populi di sostenere troppo apertamente i Milites. Ciò significa che il popolo si è già costituito, se non in un partito nel senso moderno, almeno in un gruppo di pressione. In questo periodo si incontrano nelle città molti artigiani associati nelle Arti che contribuiscono a regolare la vita economica e sociale delle città; sembra comunque che i vari mestieri, in quanto tali, non costituiscano ancora la struttura portante di queste fazioni. Le solidarietà di vicinato, nell’ambito delle contrade della città, che formano spesso dei quartieri chiusi su sé stessi, sono inizialmente più rilevanti, come anche la necessità, per tutti quelli che non si trovano nei ranghi della militia, di organizzarsi militarmente.
In tal modo, quando a Milano i nobili si dotano di una società d’armi detta Societas Galliardorum, che opera spesso come punta di lancia nelle battaglie di strada contro i popolani, questi ultimi replicano con la creazione della Societas Fortium. I primi reclutano fra i giovani cavalieri nobili, i secondi fra i membri del popolo che combatte a piedi. E’ comunque raro che l’opposizione sia così limpida e netta, gli storici hanno rinunziato a cercare negli scontri fra militia e populo il fronte delle classi che lo storico marxista Gaetano Salvemini credeva di riconoscere nelle lotte di fazione nella Firenze del XIII secolo.
Anche se gli storici rimettono oggi in discussione l’esistenza di fazioni socialmente omogenee, rimane comunque confermato che il bipartitismo fazioso contribuisce a sfaldare sempre più profondamente la società urbana del XIII secolo. Al punto da mettere in pericolo la stessa unità della comunità civica: nel 1209-1210 la città di Cremona è divisa fra la pars superior, che tiene la città alta, e la pars inferior, stabilita nella città bassa. L’istituzione del podestà non basta più a impedire che le discordie si incanalino nella forza dissolvente delle partes.

1230-1280: il tempo del popolo

Il Comune di Siena rappresentato come un sovrano assiso sul trono, nell'Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti

Il Comune di Siena rappresentato come un sovrano sul trono, nell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti

Ecco dunque che interviene una terza fase nella storia comunale, quella corrispondente all’allargamento al popolo della base sociale dei regimi, ovvero l’apertura a tutti quelli che non sono nobili. In questo caso, l’azione imperiale – la seconda, quella di Federico II negli anni 1230-1250 – serve da elemento scatenante della crisi. Quella che a volte viene definita “vittoria del popolo” corrisponde dunque alla vittoria di un partito su un altro. E per certi aspetti il Comune non è altro che un sistema instabile di fazioni. Le sue istituzioni, piuttosto che riformarsi, si sovrappongono: nello stesso modo in cui la funzione di podestà è venuta ad aggiungersi al sistema dei consigli consolari, quella del “capitano del popolo” compare nel corso degli anni 1250 allo scopo di controbilanciarli.
Tuttavia, se i regimi di popolo assomigliano a regimi di partito, la particolarità del popolo è che esso aspira a rappresentare l’insieme della comunità politica. Sotto questo aspetto, il comune “popolare” costituisce un apogeo amministrativo, poiché sviluppa al massimo la cultura delle istituzioni, che si concretizza in particolar modo attraverso uno spettacolare sviluppo dello scritto pragmatico e, conseguentemente, del notariato.
Si è calcolato che nelle grandi città dell’Italia comunale del XIII secolo un uomo adulto su venti è un notaio. La figura del notaio, autenticando gli atti, gli conferisce la garanzia della fides publica e contribuisce allo sviluppo dello scritto pragmatico nei comuni italiani. Ma il notaio è anche un personaggio chiave del sistema di comunicazione: maestro di retorica civica, egli diventa volentieri lo storico della sua città, come nel caso di Rolandino da Padova, che nel 1262 tiene una lettura pubblica della sua cronaca davanti ai professori e agli studenti dell’università, i quali “con la loro autorità l’hanno approvata ed autenticata solennemente”.
Dopo i lavori fondamentali di Paolo Cammarosano, gli storici sono ora molto attenti a descrivere il paesaggio documentale dei regimi politici, vale a dire la forma stessa degli archivi che essi producono, Alla fine del XIII secolo viene abbandonato il mondo solenne dei libri iurium, cartolari comunali, dove si conservava gelosamente il diritto della città (così come un monastero conserva i suoi privilegi), per quello dei registri, dove gli atti vengono classificati, indicizzati e resi accessibili. Questa esplosione documentaria accompagna la specializzazione delle magistrature, che rende necessario l’ingrandimento dei palazzi comunali, diventati ormai centri di “ingegneria amministrativa”.
Una volta al potere, il popolo impone una svolta fondamentale alla politica comunale, inizialmente in materia giudiziaria. Se la giustizia podestarile era una pratica di conciliazione, essa, di norma, risultava spesso favorevole ai potenti e si inseriva nella vasta gamma dei modi di regolazione dei conflitti, passando, in particolare, attraverso la vendetta. Ecco invece che la giustizia popolare favorisce la procedura inquisitoria, ovvero l’“avvento del penale”, attraverso il quale la giustizia diventa allo stesso tempo pubblica e punitiva.
Una stessa esigenza di verità e di trasparenza svolge un ruolo essenziale nella politica delle costruzioni, per la difesa del bene comune. Essa si concretizza attraverso una regolamentazione precisa dello spazio urbano, che attacca con decisione la supremazia “dell’urbanismo del privato” sullo spazio pubblico. Gli statuti urbani cominciano a identificare questi spazi, liberati dalla stretta dell’approvazione privata (piazze, mercati, sagrati delle grandi chiese…) e quindi, a partire da questi punti di appoggio, diffondono, a poco a poco, le norme del bene pubblico.
Infine, l’arrivo al potere del popolo modifica considerevolmente la politica fiscale, sempre nello stesso ideale di trasparenza e di verità, che, da quel momento, risulta sempre più sistematicamente basato sulla stima dei beni del contribuente, elemento che contestualmente presuppone l’ordine urbano e l’inquisizione fiscale.
Il caso di Bologna è sotto questo punto di vista esemplare: nel 1228, una rivolta consente al popolo di costituirsi come gruppo di pressione; sette anni più tardi si arriva a redigere il primo estimo della città, che valuta i beni mobili e immobili; un evento che viene chiaramente designato nella letteratura politica del tempo come una vittoria del popolo. La sua revisione nel 1249 è seguita, qualche mese più tardi, dalla promulgazione delle prime leggi anti-magnati, che tendevano a escludere dalla vita politica la vecchia nobiltà, identificata anche attraverso l’estimo. Come è stato dimostrato da Giuliano Milani, questo “governo delle liste” costituisce nello stesso tempo l’espressione più alta dell’ideale politico del regime del popolo, ma anche l’elemento detonatore della sua crisi finale.
La messa al bando dei nemici politici e il ricorso alla signoria rappresentano ormai le due sole uscite alla crisi delle società comunali. In entrambi i casi, essi costituiscono l’irrigidimento sociale dell’ultimo terzo del XIII secolo, che determina il passaggio da una società del conflitto a una società dell’esclusione. A Ferrara, Modena, Verona alcuni Signori si impadroniscono del potere. Certuni si appoggiano sull’istituto del podestà, altri su quello del capitano del popolo. Questi ultimi non sono sempre legati alla militia, anche se molti di essi vengono reclutati fra i ghibellini, alleati dell’imperatore, che avevano possedimenti nel contado. Gli Este a Verona o i Visconti a Milano riescono così a consolidare un potere di tipo dinastico. Quindi, la svolta signorile deve essere considerata sia come una confisca autoritaria del potere sia come un allargamento delle basi territoriali nel contado. Ma, in entrambi i casi, questa confisca del potere inizialmente appare alla cittadinanza una soluzione transitoria e accettabile alla crisi strutturale dei regimi comunali.
E’ proprio in questi termini che il nuovo fenomeno viene percepito da una parte significativa del popolo, anche se gli storici hanno a lungo rifiutato di prendere in considerazione la potenza di seduzione dei regimi personali che avevano sovvertito i principi repubblicani dei comuni italiani. In definitiva, si tratta più che di un vero cambiamento di regime, di una progressiva trasformazione delle istituzioni verso la Signoria.
Agli inizi del XIV secolo Dante Alighieri scriveva nel Purgatorio: “le città d’Italia sono piene di tiranni”. Fallimento del Comune? Certamente sì, specie ove si consideri l’energia politica, sociale e culturale con la quale esso ha tentato di convincere i concittadini – con le parole e con tutti i media allora disponibili: murales, immagini ecc. – sulla sua volontà di buon governo. Una volontà che si basava meno su sagge e solide istituzioni e molto più su comportamenti regolati da normative, ovvero più sulla pratica che sui principi. In tal modo il Comune potrebbe essere definito come il tentativo di creare uno spazio di una espressione politica armoniosa e regolata, dove ben parlare e ben vivere si dovevano confondere in una stessa virtù civile. Ma il racconto di un cronista come il fiorentino Dino Compagni, impegnato nella difesa della causa del popolo minuto, è ossessionato dalla paura della malizia, questa deviazione del pubblico parlare, che fa degenerare i discorsi in arringhe demagogiche.
E’ in questo senso che ancora oggi si può considerare l’avventura dei Comuni italiani come uno dei laboratori della nostra politica moderna. Dopo la rivoluzione francese le repubbliche moderne non disdegnano di rivestirsi delle toghe greco-romane. Esiste, tuttavia, un altro filone di discendenza della democrazia moderna, più discreto e incerto, che una corrente storiografica non ha mai smesso di esplorare. Lo storico del diritto Mario Ascheri, nell’invitare recentemente a rivalorizzare “l’esperienza comunale nella storia repubblicana mondiale”, ha voluto manifestare l’intenzione di ravvivare un idealismo passato di moda. Ciò è tanto è più vero proprio per il fatto che molti storici hanno a lungo operato per rendere meno significativo questo aspetto, raffreddando gli ardori di quelli che, a partire dal Risorgimento, hanno voluto intravvedere nel Comune la culla delle nostre libertà democratiche.
Per concludere questa analisi, si potrebbe parafrasare per i Comuni quello che lo storico francese Jacques Dalarun ha detto delle comunità monastiche: “tentativi di democrazia medievale” in cui si sono evidenziate difficoltà, contraddizioni e delusioni. Considerare i Comuni sotto questo punto di vista, e non come prodromi gloriosi, costituisce il solo modo di attribuire loro una capacità di fornire chiavi di interpretazioni per il nostro presente. I Comuni sono stati un tentativo di organizzare, in modo organico e armonico, l’eterno disaccordo che regna in tutte le società.

Per saperne di più
Ascheri, Mario, Scrivere il medioevo. Lo spazio, la santità, il cibo, Viella, Roma 2001;
Cammarosano, Paolo, Italia medievale. Geografia e storia delle fonti scritte, NIS, Roma, 1991;
Crouzet-Pavan, Elisabeth, Enfers e Paradis. L’Italie de Dante et de Giotto, Albin Michel, 2001;
Dalarun, Jacques, Gouverner c’est servir. Essays de democratie medievale, Alma, 2012;
Grillo, Paolo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, Laterza, Bari-Roma, 2010;
Rippe, Gerard, Padoue e son contado, X-XIII siecle. Societé et Pouvoirs, Ecole Française de Rome, 2003;
Vigueur, Jean-Claude Marie, Cavaliers e citoyens. Guerre conflits e societé dans l’Italie communale, XII-XIII siecle” EHESS, 2003;
Vigueur, Jean-Claude Marie, I podestà dell’Italia comunale. Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri, Ecole Française de Rome, 2000.