IL CILE E LA GUERRA DEL PACIFICO (1879-1884)

di Max Trimurti –

 

Il deserto di Atacama è il più ostile del mondo, ma è ricco di escrementi di uccelli marini, saturi di preziosi nitrati. E’ per questa ricchezza che il Cile, nel 1879, attacca peruviani e boliviani ed esce vittorioso da una “guerra del guano e del salnitro”, i cui effetti si fanno sentire ancora oggi.

I precedenti

A metà del XIX secolo le nuove repubbliche sudamericane tentano di sistemare i territori ereditati dai grandi movimenti d’indipendenza che hanno determinato la loro nascita. Alcune si sentono depauperate. E’ il caso del Cile che, ridotto alla stretta e lunga striscia fra il Pacifico e le Ande, coltiva sogni di espansione. Non potendo spostare il Pacifico né la cordigliera delle Ande, il progetto che rimane è semplice: estendersi il più lontano possibile sul litorale e fare man bassa delle risorse che vi si trovano. A sud, il primo obiettivo è il territorio indigeno dei Mapuches, l’Aracaunia, e più in là la Patagonia. Nei primi anni ’60 Santiago lancia una brutale campagna di colonizzazione. I Mapuches resistono fieramente e occorreranno ben due decenni per averne ragione, su un fondo di tensioni anche con il vicino argentino, che darà inizio alla stessa spinta in direzione dello Stretto di Magellano.
A nord del Cile c’è il deserto di Atacama, spartito fra Bolivia e Perù. Si tratta di una delle zone più aride e più ostili al mondo: si dice, che in alcuni territori non piova da secoli. Questo terribile deserto è ricco, tuttavia, di preziosi nitrati, sotto forma di salnitro, ma anche di guano, concentrato secco di escrementi di uccelli marini. Che si tratti di produrre concimi o esplosivi, la domanda internazionale è in piena espansione e giustifica enormi investimenti. Di fatto, la Bolivia è troppo povera per sfruttare “quest’oro bianco”, lontano e inaccessibile. Dopo un duro negoziato, essa lascia pertanto gli imprenditori cileni – incoraggiati da Santiago – estendere le loro imprese sulla zona in cambio di qualche imposta da versare a La Paz.
Il Perù, da parte sua, non è pronto a mettersi d’accordo. I nitrati costituiscono la base della sua claudicante economia e vorrebbe chiaramente affermare la sua posizione dominante sui mercati internazionali, ovvero creare un monopolio. Pertanto, Lima vigila gelosamente, pur incoraggiando i Boliviani a fare lo stesso, ovvero escludere i Cileni dal loro territorio. A queste ambizioni contrarie si aggiungono quelle d’’Argentina: anch’essa è interessata alle materie azotate e soffia sul fuoco.

Il casus belli

Confini attuali e precedenti alla guerra del Pacifico tra Cile, Bolivia e Perù

Confini attuali e precedenti alla guerra

Alla fine del decennio, lo sfruttamento del guano mostra segni di recessione e il Perù è costretto, più che mai, a concentrarsi sugli altri nitrati dell’Atacama. Lo Stato peruviano inizia a stabilire il suo monopolio su tali attività, una volta per tutte. Egli moltiplica, dunque le espropriazioni e le assunzioni di controllo all’interno del paese o acquista, attraverso prestanomi, sfruttamenti all’esterno. Lima esercita inoltre pressioni sulla Bolivia affinché aumenti le imposte della molto dinamica Compagnia de Salitres y Ferrocarriles de Antofagasta (CFSA), che prende il nome dal porto boliviano attraverso il quale esporta la sua produzione.
A La Paz, i dirigenti nazionali esitano. Nessuno ignora che i Cileni aspettano un pretesto per entrare in azione. Ma il Perù rassicura la Bolivia con un’alleanza difensiva segreta, effettiva nel 1873 e alla quale si tenta di associare l’Argentina. La Bolivia, inizialmente esitante, impone una tassa di 10 centavos di peso boliviano per quintale di salnitro, somma molto consistente per l’epoca. E poiché la CFSA rifiuta di pagare, l’attività viene espropriata, fissando la vendita all’asta dei suoi beni al 14 febbraio 1879. Questo sarà il giorno scelto dall’esercito cileno per sbarcare ad Antofagasta, di cui si impadronisce quasi senza colpo ferire, essendo la stragrande maggioranza della popolazione locale di origine cilena. Il 1° marzo 1879 la Bolivia dichiara guerra al Cile, trascinando con sé il Perù, in virtù delle alleanze firmate. Ha così inizio la cosiddetta “guerra del guano e del salnitro o del Pacifico”.

Le forze belligeranti

I tre eserciti, per molti aspetti, si assomigliano. Ciascuno basa la sua struttura su 2-3 mila professionisti. Non molto, ma la truppa è ben inquadrata e ben addestrata, ben lungi dall’immagine di vecchi soldati brutali e ignoranti che viene suggerita, soprattutto per Perù e Bolivia, dalla partecipazione alla vita politica agitata dei rispettivi paesi. Per il resto, i contendenti confidano su rilevanti riserve (volontarie), che consentiranno di moltiplicare per dieci gli effettivi totali, con il risultato di avere comunque buoni soldati al termine del periodo di addestramento. Gli eserciti sono anche ben equipaggiati, specialmente in fucili Chassepots, Comblain, Remington o Winchester. Stessa valutazione per l’artiglieria o le mitragliatrici, acquistate direttamente in Europa o negli Stati Uniti. Materiale e approvvigionamenti non costituiranno mai un problema per i belligeranti. Per quanto riguarda la dottrina, tutti fanno riferimento alla Francia, nonostante la sconfitta del 1870 contro la Prussia. Spesso le truppe interessate hanno combattuto nelle guerre civili o coloniali e hanno subito la prova del fuoco.
La principale difficoltà è quella di operare nell’ambiente ostile dell’Atacama, ma i rispettivi comandi hanno preso coscienza delle sfide logistiche, specialmente per quanto attiene la fornitura di acqua e di alimenti, sia per gli uomini come per gli animali. La sfida verrà raccolta al meglio nei due campi – perlomeno non vedremo truppe decimate dalla sete come nelle precedenti guerre della Triplice Alleanza e del Chaco.
Occorre notare che le truppe portano ancora al seguito, una folla variegata composta da piccoli mercanti e fornitori e un numero importante di donne che ricoprono il ruolo di cuciniere, infermiere o compagne. Questo aspetto composito non nuocerà al corretto svolgimento delle operazioni, né alla disciplina, anche se il comando cileno avrà a volte difficoltà a controllare i saccheggi.
La vera differenza di potenziale fra i belligeranti è a livello navale. Il Cile ha ben compreso che l’Atacama e i suoi rari accampamenti e villaggi sono troppo ostili per pretendere di operarvi, soprattutto in assenza di una via litorale decente.
Il piano di attacco si basa, dunque, su una serie di operazioni anfibie per risalire verso Nord, catturando porto dopo porto, fatto che presuppone evidentemente il controllo delle vie marittime. A tal fine, il Cile ha acquistato in Inghilterra due fregate blindate, l’Almirante Cochrane e il Blanco Encalada, per completare la sua piccola flotta. Poco, ma sufficiente per fare la differenza con la marina peruviana, anch’essa ridotta e invecchiata, mentre la Bolivia non possiede una marina. In generale, gli equipaggi sono agguerriti: conoscono bene la zona che pattugliano in permanenza e hanno trionfato a fianco della Spagna nel 1865-66. Ma per le marine latine sudamericane non è più il momento della fraternità continentale.

I capi

Il Cile, cosa rara nel contesto regionale dell’epoca, beneficia politicamente di una relativa stabilità. Sotto le presidenze successive di Annibal Pinto Garmendia (1876-1881) e, quindi, di Domingo Santa Maria (1881-1876), la direzione politico-civile condivide con i militari la condotta del conflitto. Questa collaborazione non avverrà senza contrasti, ma l’avvocato Rafael Sotomayor (1823-1880), “ministro plenipotenziario della guerra”, si impone al rispetto dei militari, dimostrando un notevole senso della strategia e della logistica. Il ministro muore nel maggio 1880, in occasione di una visita sul fronte, a qualche giorno dalla vittoria decisiva di Alto de la Alianza. Ai generali, diretti da Manuel Baquedano Gonzales (1823-1897), non resta, per così dire, che combattere, cosa che conducono senza molta fantasia, per mezzo di attacchi frontali ripetuti, ma con innegabili risultati.
Dal lato Alleati (Bolivia, Perù), si assiste alla confusione, sia per quanto riguarda la direzione civile che militare, con il modello classico del “presidente generale”, presidente civile promosso, a forza, generale in capo. Il problema consiste nel fatto che uomini come il generale Mariano Prado Ochoa (1826-1901), nel Perù, o Hilarion Daza Groselle (1840-1894) e Narciso Campero Leyes (1813-1896), in Bolivia, non sono necessariamente dei cattivi comandanti, al contrario, ma sono più preoccupati di salvare la poltrona che a difendere il paese.

Atto primo: il Cile vince sul mare

Come previsto, mentre il distaccamento cileno di Antofagasta si dà da fare per consolidare sue posizioni e gli Alleati, dopo aver riunito le loro truppe, iniziano i movimenti verso l’Atacama, la guerra si apre con una campagna marittima. La flotta cilena si lancia sui porti peruviani per imporre il blocco navale. Inizialmente viene preso di mira il porto di Iquique, quindi, direttamente, El Callao, il porto di Lima. Tuttavia, una parte della flotta peruviana riesce a fuggire sotto la direzione del monitore Huascar, fiore all’occhiello della flotta diretta da Capitano di vascello Miguel Grau Seminario (1834-1879). Il 21 maggio 1879, quest’ultimo si lancia su Iquique, dove sorprende la flottiglia cilena, lasciata in retroguardia per il controllo. Il monitore riesce a colare a picco la corvetta Esmeralda, vecchia ma cara al cuore dei Cileni, ma perde l’Indipendencia, una fregata blindata.
La Huascar è ormai quasi sola, ma si lancia, comunque, in una guerra di corsa abile, che neutralizza le operazioni cilene sul litorale per diversi mesi. L’8 ottobre, la nave peruviana viene sorpresa e attaccata al largo di Mejillones, a Punta Angamos. In un gesto di sfida, Grau si fa uccidere, saltando sciabola alla mano sulla nave cilena che l’abborda. Il suo equipaggio si batte fino all’ultimo, ma la nave viene catturata. Il Cile, ormai padrone dell’Oceano, può dare inizio all’assalto dei porti.

Atto secondo: primi fatti d’armi

A partire dal mese di novembre 1879, 10 mila Cileni sbarcano a Pisagua e si inoltrano all’interno, cuore della ricchezza mineraria peruviana. Il piano di difesa alleato consiste essenzialmente nel concentrare truppe a nord dell’Atacama prima di lanciarsi sui distaccamenti cileni sulla costa, per ributtarli a mare. La condizione fondamentale per la riuscita dell’azione si basa in gran parte sull’assistenza dell’alleato boliviano. In effetti, il presidente e generale Hilarion Daza, che comanda personalmente le truppe del Nord, esita a impegnarsi e, alla fine, non partecipa alle operazioni. Inoltre la 5a Divisione boliviana del generale Narciso Campero, miscuglio eteroclito di professionisti, volontari e avventurieri, partita da Potosì in ottobre per prendere il nemico in una tenaglia, si muove senza un obbiettivo apparente. Dopo qualche scaramuccia con i Cileni da parte della sua avanguardia, la cosiddetta “divisione fantasma” viene richiamata indietro.
In realtà, Daza e Campero sono rivali politici, più preoccupati di controllarsi che di combattere i Cileni. Alla fine del mese di dicembre, il presidente viene rovesciato mentre si trova ancora in Perù e Campero assume la guida del paese. Se i Peruviani riescono ad ottenere, alla fine dei novembre, una bella vittoria a San Lorenzo di Tarapacà, presso Iquique, il successo non risulta decisivo. I Cileni riescono, comunque, ad assumere il controllo della zona e il porto d’Iquique viene conquistato dalle truppe imbarcate nell’Almirante Cochrane. A Lima, nel frattempo, il presidente Prado, in difficoltà e messo sotto accusa, viene rovesciato da un vecchio avversario: Nicolas Fernandez de Pierola Villena (1839-1913).

Atto terzo: i Cileni portano l’affondo

La battaglia di Arica, 1860

La battaglia di Arica, 1860

Per concludere il conflitto, Santiago cerca di sfruttare la confusione politica che regna fra gli avversari per far saltare l’alleanza. Mentre il Perù viene mantenuto sotto pressione, la Bolivia si vede offrire un accesso garantito al mare. Pur tentato dall’offerta, il generale presidente Campero resiste e assume la guida della nuova concentrazione alleata, riunita agli inizi del 1880 nel settore di Tacna-Arica. Ma, nel febbraio seguente, i Cileni sbarcano a Ilo, con l’obiettivo di prendere il nemico alle spalle.
Dopo alcuni mesi di scontri ha luogo la grande battaglia campale di Tacna. In pieno deserto, 5 mila Boliviani e 8 mila Peruviani si oppongono ai 14 mila Cileni. Gli Alleati, ricercando l’effetto sorpresa, iniziano le operazioni all’alba, ma vengono individuati. Ha inizio immediatamente lo scontro di artiglieria, quindi la fanteria si lancia all’attacco, appoggiata da cariche di cavalleria. Gli Alleati si battono bene e sembrano avere il sopravvento, ma i Cileni riescono a resistere sotto il comando di Manuel Baquedano. All’inizio del pomeriggio, la vittoria cilena diventa certa e le truppe di Baquedano si lanciano su Tacna che occupano in serata. Sul campo di battaglia, conosciuto con il nome di Alto de la Alianza, giacciono dai 2 ai 3 mila morti alleati a fronte di poche centinaia di caduti cileni.
Dopo Tacna, la Bolivia si ritira dalle operazioni, lasciando il suo alleato solo sul campo. Il 7 giugno 1880 la guarnigione peruviana di Arica cade eroicamente: gli uomini del colonnello Francisco Bolognesi Cervantes (1816-1880) si fanno uccidere, difendendo il ridotto del Morro, mentre i resti della squadra navale si affondano al largo. Nel settembre, il Cile lancia verso il Nord il capitano di vascello Patricio Lynch y Solo de Zaldivar (1824-1886), con la missione di taglieggiare i grandi proprietari peruviani e distruggere le loro aziende saccarifere, importanti fonti di reddito. Quindi, agli inizi del gennaio 1881, viene assestato il colpo di grazia, con uno sbarco a sud del Morro di Lima.
Le ultime linee di difesa vengo superate senza grandi difficoltà e la capitale del Perù viene conquistata il 17 gennaio 1881. Un’azione di grande effetto morale e materiale.

Atto quarto: guerriglia nella sierra

I Cileni non hanno intenzione di occupare Lima a lungo, ma solo il tempo necessario per esercitare pressioni affinché il Perù ceda i suoi ricchi territori del sud. Ma ormai, per Lima, non esiste più alcuna possibilità di successo nella lotta, tanto più che la speranza di soccorso da parte dell’Argentina evapora nel novembre dello stesso anno, quando Buenos Aires firma un accordo con Santiago. E se gli Stati Uniti, che hanno interessi in Perù, spingono alla resistenza, essi non apportano, però, alcun aiuto concreto. Tutto il problema dei Cileni sta nel fatto che non hanno nessuno interlocutore avversario con cui parlare. Francisco Garcia Calderon (1834-1905), presidente provvisorio, che gli stessi Cileni hanno portato al potere, si mostra più reticente del previsto e finisce come ostaggio a Santiago. Pierola, alla testa del paese dopo il colpo di stato del della fine del 1879, ne approfitta per ricomparire nella Sierra e per rivendicare la presidenza provvisoria e dirigere la resistenza. Ma l’uomo è ben lungi dall’ottenere l’unanimità e verrà forzato all’esilio.
Da questo caos emergono nuovi leaders, fra i quali il colonnello, quindi generale, Andres Avelino Caceres Dorregaray (1836-1923), comandante di un “esercito del centro” che, nella realtà, è appena una banda dai contorni poco chiari, una montonera, composta da rifugiati delle regioni occupate, da piccoli proprietari locali, che portano con loro la manodopera servile o ancora membri delle comunità indigene libere della regione, tutti ben decisi, anche se per ragioni diverse, a resistere all’invasione. Se Lima rimane sotto il loro stretto controllo, i Cileni perdono ben presto il controllo delle sierras, dove i guerriglieri rendono i rifornimenti dell’occupante un vero inferno. Ispirandosi alle spedizioni condotte contro i Mapuches nel Sud del Cile, Santiago lancia spedizioni di “pacificazione”, le cui numerose esazioni non fanno che rinfocolare la resistenza peruviana. Questi non ne approfittano, perché i montoneros di Caceres e altri gruppi di resistenti moltiplicano a loro volta gli abusi sulla popolazione. La lotta contro gli occupanti e i loro collaboratori si coniuga con una lotta sociale senza pietà, che dilania la società peruviana, almeno nelle sierras.
Agli inizi del 1882, tutti i partiti sono esausti. L’opinione cilena, stanca, esige la fine della guerra. Anche nel Perù emerge l’idea che la guerra non ha più senso e porta solo il paese alla sua rovina. Nell’agosto 1882, Miguel Iglesias Pino de Arce (1830-1909), grande proprietario, diventato capo della resistenza del Nord, forza la situazione, lanciando il famoso “grido di Montan”, che chiama al negoziato, a prescindere da quelle che potranno essere le conseguenze. I Cileni esitano, ma poi trasformano il cosiddetto “Rigeneratore della Patria” come il loro delfino. Nel luglio del 1883 l’occupante lancia un’ultima spedizione militare per spezzare l’opposizione: il 10 del mese, Caceres e i suoi irriducibili vengono eliminati nella battaglia di Huamachuco, lasciando campo libero a Iglesias. Riconosciuto in ottobre dall’occupante, il nuovo presidente del Perù firma il Trattato d’Ancon. La guerra è finita, anche se la Bolivia dovrà attendere il 1884 per firmare ufficialmente a sua volta un trattato di pace.

Un bilancio

Anche se è stato necessario lasciare un po’ di zavorra per assicurarsi dell’inazione argentina, il Cile risulta il grande vincitore: guadagna una fascia di territorio lunga 600 km, ricco di considerevoli risorse, nonché un accresciuto controllo del Pacifico, completato nel 1888 con l’annessione dell’isola di Pasqua. Nel 1929, il Trattato complementare di Lima restituisce Tacna al Perù, ma Santiago conserva il porto di Arica e alcuni rilevanti benefici, pagati a poco prezzo: la guerra è costata circa 2.500 morti (per la gran parte vittime di malattie e delle difficili condizioni ambientali) contro i 12-15 mila morti inferti agli avversari. La vittoria conforta, inoltre, il nazionalismo cileno e consacra il paese come potenza regionale, specialmente militare. Per il Perù, il colpo risulta terribile, tanto più che la pace esterna sfocia in una guerra civile fra i partiti vinti. Tuttavia, il paese, sebbene privato delle risorse essenziali, che avevano fino a quel momento alimentato il suo progresso, ripensa il suo sviluppo e si ricostruisce con più o meno successo.
Paradossalmente, è proprio la Bolivia quella che paga il prezzo più elevato, sebbene essa sia rimasta praticamente ai margini del conflitto. La perdita di Antofagasta, il suo unico accesso all’Oceano, costituisce una catastrofe, morale ed economica, che non sarà mai accettata. Ogni anno, il 25 marzo, il paese ricorda la perdita del litorale ed esige il ritorno al mare. Nelle scuole, come anche nelle caserme, si apprende a fare propria questa esigenza contro il traditore cileno, questo fratello nemico che ha fatto diventare la Bolivia una enclave, compromettendone l’avvenire. Da decenni, i governi di tutte le tendenze politiche “cavalcano” la rivendicazione, presentata, a torto o a ragione, come condizione fondamentale verso lo sviluppo, ma soprattutto molto utile per mobilitare di nuovo l’opinione pubblica intorno a una causa federatrice e far dimenticare le difficoltà del momento.
Ultimamente, il governo di Evo Morales Ayma (2005-1019) ha persino portato la questione davanti alla Corte Internazionale dell’Aia. Il suo carteggio sembrava solido, puntando, in particolar modo, su determinate carenze del Cile nel contesto dei diversi accordi e trattati del mare. Il 1° ottobre del 2018 arriva, tuttavia, una doccia fredda: i giudici della Corte internazionale hanno riaffermato con la loro sentenza, la sovranità cilena sui territori conquistati, escludendo qualsiasi obbligo di negoziare. La Bolivia, nonostante ciò, ha dichiarato ufficialmente di non voler rinunciare alle sue rivendicazioni.