I PRIGIONIERI DI HITLER

di Vincenzo Grienti -

La vicenda degli oltre seicentomila internati militari italiani nei campi tedeschi dopo l’8 settembre ha faticato a farsi strada nella memoria storica del Paese. Una mostra a Roma ripercorre i drammatici venti mesi di prigionia negli Stalag e negli Oflag nazisti.

La storia degli Internati Militari Italiani (IMI) ebbe inizio l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio sottoscritto dall’Italia con le Forze Alleate.
I militari italiani, infatti, furono sorpresi dalla cessazione delle ostilità contro gli alleati e molti furono catturati dalle truppe tedesche in Francia, Grecia, Jugoslavia, Albania, Polonia, Paesi Baltici, Russia e Italia stessa. Deportati, furono internati nei campi di concentramento tedeschi sparsi un po’ dovunque in Europa, soprattutto in Germania, Austria e Polonia.
Chiusi nei lager nazisti, in un primo tempo furono semplici prigionieri di guerra. Poi, il 1° ottobre 1943 furono definiti IMI con provvedimento arbitrario di Hitler. Un modo per sviare la Convenzione di Ginevra del 1929 sulla tutela dei prigionieri di guerra. Essendosi rifiutati di collaborare con il nazifascismo, furono destinati come forza lavoro per l’economia del Terzo Reich. Sottoposti a un trattamento disumano, subirono umiliazioni, fame e le più tremende vessazioni. Decine di migliaia di essi persero la vita nel corso della prigionia per malattie, fame, stenti, uccisioni. Chi riuscì a sopravvivere rimase segnato per sempre.
La maggior parte degli arruolati nel Regio esercito italiano erano giovani chiamati alle armi poco più che ventenni, o richiamati alle armi, uomini educati sia all’obbedienza fascista che agli ideali del Risorgimento. La maggior parte di loro durante l’internamento nei lager, per la prima volta, con una scelta volontaria di coscienza dissero No! a qualsiasi forma di collaborazione con il Terzo Reich e con la Repubblica di Salò, affrontando venti mesi di sofferenze e privazioni. Loro, che avevano sempre detto “Sissignore!”.

L’8 settembre

Armistizio_1943_corriere_della_seraL’8 settembre 1943 è il giorno dell’armistizio, della fine delle ostilità fra l’Italia e gli eserciti alleati. L’atto ufficiale, firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa, dai generali Castellano e Bedell Smith, viene reso noto solo cinque giorni più tardi. A dare l’annuncio al paese è il maresciallo Pietro Badoglio, a cui, il 25 luglio dello stesso anno, dopo la destituzione di Mussolini, il re aveva conferito l’incarico di capo del governo. Questo il testo letto alla radio da Badoglio: «II governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la schiacciante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Molti italiani si illudono che ciò segni la fine della guerra, ma non è così. Le parole di Badoglio gettano l’Italia nel caos più completo e scatenano l’immediata reazione della Germania nazista.
Mentre il re e il governo lasciano Roma per rifugiarsi a Brindisi, i tedeschi, già massicciamente presenti nella penisola, subodorato quello che essi definiscono “il tradimento”, scatenano la controffensiva e procedono all’occupazione delle regioni centro-settentrionali.
Il nuovo corso degli eventi coglie di sorpresa il Regio esercito, acquartierato in diversi angoli d’Europa e in Italia. In pochi giorni le truppe italiane, prive di ordini precisi, diventano facile preda delle ben più organizzate e meglio equipaggiate forze naziste. La confusione del momento provoca un senso di sgomento nell’animo dei soldati italiani. L’ultima parte del proclama di Badoglio è ambigua: verso chi reagire, se non contro gli ex alleati?

La cattura e il viaggio

Nelle “retate” organizzate dai tedeschi cadono migliaia e migliaia di soldati, costretti a consegnare le armi: tra i disarmati una parte accetta di restare al servizio dei tedeschi o di passare alle milizie fasciste, un’altra riesce in qualche modo a fuggire, mentre una terza, quella più numerosa conoscerà la tragica esperienza della prigionia. Caricati dai tedeschi sui treni, i militari catturati partono per una destinazione che non conoscono. Molti pensano di tornare in Italia, di andare a casa, ma la loro destinazione sono i lager del Terzo Reich.
Il viaggio verso il campo di concentramento avviene in condizioni disumane. I treni utilizzati sono infatti carri bestiame, riempiti in maniera inverosimile, 40 e più uomini per vagone, senza acqua, senza cibo, senza recipienti per le necessità fisiologiche. I trasferimenti durano anche diversi giorni, con varie tappe e soste interminabili. Non è possibile opporre resistenza, quasi nessuno pensa di fuggire perché non sa dove andare. Il treno si ferma in posti sconosciuti. Lo sconcerto della situazione che si vive durante il viaggio emerge dalle testimonianze: il buio dei vagoni, la mancanza di finestrini, il disagio, descrivono una situazione tra le più difficili, che apre per i militari italiani la disavventura dell’internamento. Dopo alcuni giorni di sosta nel primo campo di smistamento, si riparte per nuova destinazione. Spesso il soggiorno in un campo è breve e frequenti sono gli spostamenti da un lager all’altro.

Il campo

Soldati italiani in un lager tedesco

Soldati italiani in un lager tedesco

I tipi di lager in cui vengono internati i militari italiani sono: Stalag, campo di prigionia per sottufficiali e militari di truppa; Oflag, campo di prigionia per ufficiali. Il campo è uno spazio pressoché vuoto, senza riferimenti, con scarsa riconoscibilità, all’interno del quale non è possibile far nulla; molte baracche spoglie e un recinto di filo spinato che separa dall’esterno. I letti all’interno delle baracche sono a castelletto, con brande di legno e pagliericcio. Le latrine sono fossati esterni ricoperti alla meno peggio di tavole. Il primo impatto dei militari italiani con il sistema concentrazionario nazista è più simile a quello dei deportati che a quello dei prigionieri delle altre nazioni in guerra contro la Germania. Appena arrivato nel lager, comincia per il prigioniero il processo di spersonalizzazione, il sistematico tentativo di fiaccare la sua personalità, per costringerlo a cedere alle profferte di un trattamento migliore in cambio della collaborazione con i tedeschi. Il prigioniero viene immatricolato con un numero di identificazione che sostituirà il nome e che sarà inciso su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo. Tra le formalità d’ingresso ci sono anche la fotografia, l’impronta digitale, l’annotazione dei dati personali in duplice copia su appositi documenti di riconoscimento e la perquisizione personale e del bagaglio, durante la quale i prigionieri vengono spogliati di tutto. Infine sono sottoposti al bagno e alla disinfestazione personale e degli abiti, prima di essere assegnati alle baracche.

La “conta” e la vita nel lager

È così chiamato l’appello, una consuetudinaria pratica di controllo che non ha funzione e utilità se non quella di rinvigorire l’ordine. Tutte le testimonianze concordano nel considerare questa pratica quotidiana un vero supplizio: ore e ore al gelo, malcoperti o nudi, inermi. Si viene chiamati con il numero di matricola con cui all’ingresso nel campo è stato registrato ciascun prigioniero. Tale pratica sfibrante è una strategia per far crollare le resistenze a proposte di collaborazione.
All’ interno del lager i prigionieri conducono una vita durissima a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche e dell’abbrutimento fisico e morale derivante dalla reclusione. In molti casi la sopravvivenza è legata all’arrivo dei pacchi alimentari da casa, al mercato nero e alla solidarietà dei compagni. Frequenti e cruente sono le perquisizioni, spesso in cerca di altri oggetti di qualche valore di cui depredare gli internati, o delle radio clandestine. La radio clandestina più famosa, “Radio Caterina”, viene costruita nel 1944 a Sandbostel con materiali di fortuna.
Per la maggior parte dei soldati internati il campo (Stalag) è solo il luogo in cui si dorme. La mattina ci si alza per andare al lavoro e si torna a sera. Gli ufficiali invece rimangono nel campo (Oflag) per tutto il tempo. Non vanno al lavoro, tranne in alcuni casi; quindi vivono il campo e la baracca come il luogo del tempo quotidiano dove si cerca di stringere relazioni sociali e si mettono in atto, ove possibile, iniziative di tipo culturale e ricreative che fioriscono grazie alla presenza di numerosi intellettuali e artisti internati: conferenze, concerti, lezioni, discussioni e dibattiti politico-ideologici.
Molti internati, eludendo la sorveglianza, scrivono diari su materiale cartaceo di fortuna. Difficili sono i rapporti epistolari con le famiglie. Le lettere sono sempre sottoposte a censura, per cui gli internati non vi esprimono mai le loro effettive condizioni. Unica possibilità di fuga: il sogno e la fantasia. È una strenua lotta per resistere alla sopraffazione fisica, psicologica e morale. La fede religiosa ha per molti un ruolo importante, grazie all’opera incessante dei circa 250 cappellani militari internati.

Il No!

Prigionieri in una foto di propaganda proveniente dal Deutsches Bundesarchiv

Prigionieri in una foto di propaganda proveniente dal Deutsches Bundesarchiv

È inoltre frequente che impiegati dell’ufficio del lavoro tedeschi o incaricati delle future industrie richiedenti visitino i campi per proporre agli internati offerte di lavoro per l’economia del Terzo Reich, in cambio di migliori condizioni di vita. Gran parte degli IMI, pur sapendo il duro prezzo della propria scelta, dice ripetutamente No! a qualsiasi forma di collaborazione. Questa resistenza ad oltranza si protrae per tutti i 20 mesi, dall’armistizio alla liberazione. Una volontaria decisione che richiede una vigilanza attiva e una consapevole fermezza d’animo, nelle condizioni ambientali più tragiche e disperate. Ecco le motivazioni del No!, desunte attraverso la ricerca storica e sociologica sui testimoni: 30% ragioni militari (rifiuto di combattere contro altri italiani, stanchezza della guerra, abbreviare la guerra); 26% ragioni etiche (fedeltà al giuramento, dignità, responsabilità e solidarietà di gruppo); 24% ragioni ideologiche (anti nazi-fascismo, cattolicesimo, ecc.); 20% ragioni diverse (antigermanesimo, diffidenza delle promesse ecc.).
Per ordine del Führer, d’accordo con Mussolini, gli IMI il 12 agosto 1944 cambiano di status e vengono trasformati in “lavoratori civili”, formalmente liberi.

Il lavoro

La Germania ha bisogno di forza lavoro in una fase critica della guerra. Una volta arrivati nei campi, i militari italiani vengono utilizzati come lavoratori coatti in Germania nelle fabbriche o per lavori necessari nei campi e in miniere. Non di rado gli IMI vengono impiegati nello sgombero delle macerie e nella sepoltura dei cadaveri dopo i bombardamenti. La vita dei militari avviati al lavoro coatto è molto dura: sveglia prima dell’alba e, dopo l’appello, le colonne di prigionieri, scortate da qualche militare tedesco, sono costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi d’impiego; altrettanto percorso è quello a sera del ritorno. Molti dormono sul posto di lavoro. Questo vale principalmente per coloro che lavorano per le famiglie di agricoltori o comunque presso particolari industrie. Il lavoro nelle fabbriche arriva fino a 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, con piccolissime pause e poco cibo. La brodaglia che viene servita non permette agli uomini di tenersi in forze per lavorare. Gli internati che lavorano nelle fabbriche vengono definiti stücke, “pezzi”. Continue sono le violenze e i lavoratori coatti sono costretti a lavorare anche in caso di malattia. Imprevedibili sono gli scoppi di violenza delle sentinelle tedesche. Spesso il trattamento è umiliante e comunque tale da mettere a dura prova il morale. Gli insulti risultano insopportabili quanto le violenze fisiche. Nel corso degli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita dei lavoratori italiani peggiorano drammaticamente, come pure si moltiplicano gli atti di violenza nei loro confronti. Continua è la riduzione delle razioni alimentari. Vengono passati per le armi gli autori, veri o presunti, di atti di sabotaggio, quelli sorpresi a rubare e anche coloro che tentano di fuggire.

La liberazione, il rimpatrio e l’oblio

Anche lo scrittore Giovanni Guareschi fu priogioniero IMI

Anche lo scrittore Giovanni Guareschi fu prigioniero IMI

A partire dal mese di febbraio del 1945 iniziano le avvisaglie del crollo ormai imminente della Germania: attacchi aerei, riduzione del personale di sorveglianza, distruzione da parte dei tedeschi di documenti. Quando i responsabili dei lager, le guardie e gli impiegati scompaiono dai campi e dalle fabbriche, gli ex IMI capiscono che la prigionia è terminata. La liberazione avviene in momenti differenti, per lo più tra gennaio e i primi di maggio del 1945 in Polonia e Germania e prima ancora nei Balcani. È un momento di grande gioia, la fine delle sofferenze, la speranza del ritorno a casa. Ma il rimpatrio non è immediato. Molti devono attendere il proprio turno, anche a lungo, nei territori dell’ex Terzo Reich; non più da schiavi di Hitler, ma pur sempre con le fatiche e i dolori di venti mesi di prigionia sulle spalle.
Il rimpatrio si svolge soprattutto nell’estate e nell’autunno del 1945, da Germania, Francia, Balcani e Russia. Quello dalla Germania è particolarmente caotico e presenta ritardi per ingolfamenti e scarse sollecitazioni delle nostre autorità. Il rimpatrio, nella maggior parte dei casi, è gestito dagli angloamericani. Importante il ruolo della santa Sede. Il trasporto avviene su camion o via treno, lungo percorsi spesso tortuosi e accidentati. Varcato il confine, gli IMI provenienti dalle regioni del Reich vengono solitamente dirottati verso Pescantina, nel veronese, presso il locale centro di smistamento e accoglienza dove si organizzano i trasporti verso le destinazioni interne al paese.
Nell’Italia del primo dopoguerra la tragica vicenda degli IMI è presto dimenticata. Al loro ritorno in Patria essi sono accolti con indifferenza e diffidenza, se non con ostilità, da un popolo che non vuole più sentir parlare di guerra. Gli IMI rispondono con il silenzio, facendo scattare un vero e proprio meccanismo di rimozione, convinti quasi dell’inutilità del sacrificio loro e dei caduti. «Se mai uno di voi sopravvivrà, qualunque cosa dirà, non gli crederanno» (Primo Levi). L’oblio dura a lungo. Gli storici hanno inizieranno a occuparsi degli IMI solo dalla metà degli anni Ottanta: tardi, ma forse ancora in tempo per far conoscere questa pagina di storia e rendere il giusto omaggio ai 650 mila uomini che, con il loro sacrificio, contribuirono a portare la libertà e la democrazia nel nostro Paese.

La mostra

Per fare memoria degli Internati Militari Italiani è stata allestita a Roma, in via Labicana 15 A, la mostra storico-didattica dal titolo Vite di IMI (Internati Militari Italiani). Percorsi dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945. L’iniziativa vuole rendere fruibile il grande patrimonio storico, culturale e umano dei militari italiani che dopo l’8 settembre 1943 furono catturati nei vari fronti di guerra, deportati e internati nei lager tedeschi. La mostra è stata realizzata con il contributo del Fondo italo-tedesco per il futuro stanziato dalla Repubblica Federale di Germania, in stretta collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana. All’evento è stata concessa l’Adesione del Presidente della Repubblica Italiana. In particolare il percorso è articolato in sei sale e ricostruisce la vicenda individuale e collettiva di questi militari con l’obiettivo di far conoscere alle giovani generazioni il grande contributo degli internati alla rinascita dell’Italia libera attraverso il loro rifiuto a ogni forma di collaborazione con il nazi-fascismo, pagando questo atto con gravi sofferenze e anche con la vita.
«La mostra è un contributo alla costruzione di una comune politica della memoria tra l’Italia e la Germania, in onore delle vittime – spiega Enzo Orlanducci, presidente nazionale dell’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione e loro familiari) – e si aggiunge agli altri due progetti promossi dall’ANRP, cioè l’Albo degli IMI Caduti nei lager nazisti 1943-45 e il Lessico biografico degli IMI. Una dimostrazione, questa, di come i due Paesi siano riusciti a superare quelle tragiche vicende e oggi a lavorare insieme per un futuro di pace e di sempre maggiore coesione europea».
La mostra è aperta fino all’8 maggio 2015 dalle ore 10 alle 13 dal lunedì al venerdì previa prenotazione telefonando allo 06.7004253 o inviando una e-mail all’indirizzo anrpita@tin.it

Per saperne di più:

Gerhard Schreiber, I militari italiani internati - Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio storico. Roma, 1992
Ugo Dragoni, La scelta degli I.M.I. Militari italiani prigionieri in Germania (1943-1945) – Le Lettere, Firenze 1996
Alessandro Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania - Einaudi, Torino 1996
Claudio Tagliasacchi, Prigionieri dimenticati. Internati militari italiani nei campi di Hitler – Marsilio, Venezia, 1999
Gabriele Hammermann, Gli internati militari italiani in Germania 1943-1945 – il Mulino, Bologna, 2004