I GRANDI SCONFITTI NELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI AMERICANE
di Giuliano Da Frè -
Nell’ombra dei vincitori delle elezioni USA ci sono sempre loro, gli sconfitti. Nella storia recente tra i perdenti spiccano anonimi personaggi come i democratici George McGovern e Michael Dukakis ma anche figure carismatiche come il repubblicano John McCain.
La notte elettorale del 5 novembre 2024 ha consegnato il 47° presidente degli Stati Uniti, chiamato a insediarsi alla Casa Bianca dal prossimo 20 gennaio 2025. E’ in realtà un ritorno: poiché all’ex 45° presidente, Donald J. Trump, è riuscita l’impresa (sinora portata a termine dal solo Grover Cleveland a fine ’800) di vincere un secondo mandato non consecutivo.
Accanto al futuro Presidente, dalle elezioni è uscito un nuovo sconfitto, “condannato” a un ruolo che in oltre due secoli di storia è stato interpretato tanto da candidati mediocri, quanto da leader di primissimo piano. Si traccerà in questa sede un profilo dei “vinti”, limitandoci a quelli direttamente opposti al candidato vincitore, sebbene in alcune tornate elettorali la gara sia stata effettivamente a tre o a quattro candidati.
Slalom tra i “grandi”: da Washington a Lincoln (1788-1860)
Per la verità, George Washington, primo presidente degli Stati Uniti, l’ex generale che aveva guidato l’Esercito Continentale durante la lotta per l’indipendenza, e quindi la Convenzione costituente nel 1787, leader indipendente e quasi venerato, non ebbe rivali nelle prime due elezioni del 1788-1789 e 1792: la gara si giocò quindi solo per la vicepresidenza. Fu proprio il suo vicepresidente, il federalista del Massachusetts John Adams, il primo nel 1796 a essere eletto battendo un rivale di grande levatura [1]: il virginiano Thomas Jefferson, leader del Partito democratico-repubblicano, che nel 1776 aveva redatto la storica “Dichiarazione di indipendenza”, e che dopo essere stato vicepresidente di Adams, lo avrebbe sonoramente battuto nelle elezioni del 1800.
Nel 1804 Jefferson fu rieletto, consegnando alla storia il primo candidato a non essere mai arrivato alla Casa Bianca: il generale Charles Cotesworth Pinckney (1746-1825), federalista della South Carolina, che nel 1808 ci riprovò con ugual insuccesso contro James Madison, erede di Jefferson [2]. A sua volta, nel 1812 Madison fu rieletto battendo un suo ex collega democratico-repubblicano passato ai federalisti, il potente “boss” di New York DeWitt Clinton (1769-1828) [3], il primo grande leader della politica americana a non aver mai conquistato la Casa Bianca. Nelle elezioni del 1816 l’ultimo dei grandi virginiani cresciuti sotto l’egida di Jefferson, James Monroe, sconfisse Rufus King (1755-1827), che nel 1804 e 1808 aveva affiancato Pinckney come aspirante vicepresidente. Nel 1820 invece Monroe fu l’unico, a parte Washington, a correre senza un rivale del maggior partito avverso, sebbene Clinton ci riprovasse come indipendente, ma raccogliendo solo una manciata di voti.
Ben più combattute le elezioni del 1824: non solo tra ben 4 sfidanti di peso, ma alla fine decise, il 9 febbraio 1825, dal Congresso, in assenza di un vincitore uscito dalle urne, e con la presidenza assegnata a John Quincy Adams, figlio del secondo presidente eletto 30 anni prima. A capo di una delle fazioni in cui si era frantumato il Partito democratico-repubblicano, Adams jr. batté i leader delle altre correnti che dividevano la vecchia creatura di Jefferson: William H. Crawford (1772-1834), georgiano ed ex potente ministro del Tesoro durante i 2 mandati di Monroe; il kentuckiano Henry Clay (1777-1852), popolare leader dell’Ovest, al suo primo tentativo; e il generale Andrew Jackson, eroe della guerra del 1812 e uscito dalle urne col maggior numero di delegati e voti popolari, sebbene senza raggiungere il quorum necessario per essere eletto. Cosa che invece accadde nel 1828, quando Jackson ribaltò il risultato sconfiggendo nettamente Adams. Nel 1832 “Old hickory” fece il bis, di nuovo contro Clay, in una corsa a quattro che comprendeva anche due leader di partiti indipendenti: John Floyd (1783-1837), governatore della Virginia, e il giudice William Wirt (1772-1834), del Maryland, ex potente ministro della Giustizia dal 1817 al 1829.
Nel 1836 il vicepresidente di Jackson, Martin van Buren, fu il primo newyorkese di origini olandesi a essere eletto presidente, battendo il generale dell’Ohio William Henry Harrison, che avrebbe poi ribaltato il risultato nel 1840. Nel 1836, essendosi il partito Whig diviso in fazioni, raccolsero voti anche tre candidati “ribelli”: i senatori di lungo corso Hugh White (1773-1840) del Tennessee, e Willie P. Mangum (1792-1861) del North Carolina, e Daniel Webster (1782-1852) del Massachusetts, grande oratore e più volte segretario di Stato tra 1841 e 1852 [4], e con Clay e l’ex vicepresidente sudista John C. Calhoun (1782-1850) per decenni i leader di punta della nazione, accomunati dal non essere mai entrati alla Casa Bianca.
Nel 1844 si tennero le prime elezioni senza il presidente uscente al suo primo mandato, essendo Harrison morto di polmonite dopo appena un mese di governo, e non essendo candidato nemmeno il vicepresidente subentratogli, John Tyler. A vincere fu l’ex speaker della Camera [5] e governatore del Tennessee, il democratico James K. Polk, ai danni dell’ormai vecchio Henry Clay, arrivato al terzo tentativo. Nonostante avesse battuto il Messico nella guerra del 1846-1848, e conquistato una massa “imperiale” di territori, dal Texas alla California, onorando la promessa di correre per un solo mandato – e anche a causa di una salute compromessa, che l’avrebbe presto portato nella tomba a soli 53 anni – Polk non si ricandidò. Vinse le elezioni del 1848 uno degli eroi della guerra messicana, il generale Zachary Taylor, whig della Louisiana, in una gara a tre che comprendeva il democratico Lewis Cass (1782-1866), senatore del Michigan e futuro segretario di Stato nel 1857-1860, e l’ex presidente van Buren, che correva come indipendente nel Free Soil Party: il primo a riprovarci, dopo aver assaporato la presidenza anni prima.
Morto in carica anche Taylor, nel 1850, il suo vice e successore Millard Fillmore non corse alle elezioni del 1852, vinte da un giovane e poco conosciuto senatore democratico: Franklin Pierce, che aveva partecipato come generale “politico” alla guerra contro il Messico. Paradossalmente, Pierce batté largamente il generale che aveva guidato l’Esercito americano in quel conflitto, conquistando Città del Messico nel 1847: Winfield Scott (1786-1866), già eroe della guerra del 1812, generale a soli 28 anni, e comandante dello US Army dal 1841 al 1° novembre 1861, dimostratosi accorto stratega anche all’inizio della guerra di Secessione [6].
Pierce tuttavia non fu ricandidato: la dirigenza di un Partito democratico all’epoca conservatore e dominato dal Sud schiavista e agricolo puntava su deboli presidenti monomandatari, e nel 1856 fece eleggere James Buchanan, anziano e scialbo ex segretario di Stato di Polk. Buchanan si impose grazie all’ennesima spaccatura nel fronte avversario, dove gli ormai morenti Whig candidarono l’ex presidente Fillmore, drenando voti al giovane soldato ed esploratore della California – ma mediocre politico, e futuro generale nordista – John C. Frémont (1813-1890), campione del neonato Partito repubblicano, dal 1854 avversario di quello democratico. Erano nati gli storici duellanti degli ultimi 170 anni, contrassegnati nel tempo dai simboli dell’asinello (Democratic Party) e dell’elefantino (Republican Party, o Great Old Party-GOP).
Una sfida che nel 1860 giunse alla prova suprema, quando, spaccando l’Unione e provocando la guerra di Secessione tra Nord e Sud, a essere eletto fu il repubblicano Abram Lincoln, un avvocato quasi sconosciuto che vinse grazie alla frattura creatasi questa volta nel Partito democratico, tra la dirigenza sudista, che aveva candidato il giovane vicepresidente uscente, il kentuckiano John C. Breckinridge (1821-1875), e i capi dell’Ovest, guidati da Stephen A. Douglas (1813-1861): anch’egli dell’Illinois come Lincoln, ma ben più famoso statista e oratore, detto “il piccolo gigante”, per la levatura morale e politica – e la bassa statura fisica [7]. Inoltre, un quarto candidato avrebbe complicato le cose: il popolare senatore del Tennessee John Bell (1796-1869), che sottrasse altri voti ai democratici.
Il “dominio repubblicano” da Lincoln a Taft (1860-1912)
Sull’onda delle vittorie ottenute nell’estate 1864, dopo essere stato a lungo svantaggiato dalle pesanti sconfitte nordiste, Lincoln fu rieletto nel 1864 – il primo a ottenere un secondo mandato dai tempi di Jackson – battendo un suo ex generale in capo, succeduto a Scott nel 1861-1862: il giovane – 38 anni – George B. McClellan (1826-1885), candidato dai democratici del Nord.
Ucciso il 14 aprile 1865, Lincoln restò senza eredi; e anche il vicepresidente subentratogli, Andrew Johnson, un democratico unionista del Tennessee, non fu candidato nel 1868, quando i repubblicani puntarono sul vincitore della guerra civile: il generale Ulysses S. Grant, che batté facilmente il democratico Horatio Seymour (1810-1886), già governatore di New York. Nel 1872 Grant sconfisse anche il popolarissimo giornalista newyorkese Horace Greeley (1811-1872), presentatosi come candidato indipendente di una coalizione di ex repubblicani, whig e democratici. Peraltro Greeley morì poco dopo la chiusura delle urne, il 29 novembre 1872: primo e sinora unico caso di candidato appena battuto a non vedere l’insediamento del suo vittorioso rivale.
Nel 1876, i repubblicani candidarono Rutherford B. Hayes, ex generale nordista e governatore dell’Ohio, che sconfisse il democratico Samuel J. Tilden (1814-1886), un altro boss della politica newyorkese, come Seymour e Greeley.
Nel 1880 Grant (che 4 anni prima aveva respinto l’idea di un terzo mandato), tentò senza successo di riottenere la nomination repubblicana, vista la contrarietà di Hayes a ricandidarsi. A vincere fu invece James A. Garfield, un colto deputato dell’Ohio, e generale nel 1862 (appena trentenne), che sconfisse un suo ex collega dell’Esercito nordista: Winfield Scott Hancock (1824-1886), democratico della Pennsylvania, uno dei più abili condottieri della guerra civile, poi rimasto in uniforme sino alla morte.
Caduto assassinato anche Garfield nel 1881, il suo vice e successore Chester A. Arthur non fu ricandidato per il 1884 dal GOP, che gli preferì il potente senatore del Maine James G. Blaine (1830-1893), più volte Segretario di Stato e speaker della Camera nel 1869-1875, già in gara per la nomination nel 1876 e 1880. A dispetto del curriculum, il campione repubblicano fu sconfitto – per la prima volta dal 1856 – da un candidato democratico: Grover Cleveland, governatore di New York. Cleveland fu davvero l’uomo delle prime volte: sconfitto – ma non nel voto popolare – nel 1888 da Benjamin Harrison, sbiadito senatore ed ex generale dell’Indiana [8], 4 anni più tardi ribaltò il verdetto a suo favore: unico presidente ad aver ottenuto due mandati non consecutivi, almeno fino a Trump.
Va detto che quella del 1892 fu una gara a tre, poiché dopo varie elezioni dominate dai soli candidati dei due grandi partiti nazionali, ottenne un bel po’ di voti anche un populista dell’Iowa, James B. Weaver (1833-1912). Un terzo incomodo che segnalava il crescente disagio di una fetta di elettorato che non si sentiva più rappresentato da partiti e leader considerati (non a torto) corrotti, e proni ai voleri dei grandi trust economici del tempo. Un’ansia riformista – passata alla storia come Progressive Era – che nel 1896 fu raccolta dal Partito democratico, che candidò un brillantissimo oratore appena 36enne, William Jennings Bryan (1860-1925), che si presentava con una dinamica piattaforma progressista, ma che fu tuttavia sconfitto dal repubblicano William McKinley, che ripeté l’impresa 4 anni più tardi.
Nel 1900 però l’impresa apparve più difficile, contro un Bryan ora reduce dalla guerra ispano-americana del 1898, cui aveva partecipato al comando di un reggimento di volontari. Pertanto, a fianco di McKinley fu schierato un candidato alla vicepresidenza appartenente alla nuova generazione di politici riformisti, eroe della guerra a Cuba, e popolare leader newyorkese: Theodore “Teddy” Roosevelt [9]. Che, quando nel settembre 1901 McKinley fu assassinato, dopo aver vigorosamente preso le redini del paese e del partito, divenne il primo vicepresidente succeduto a un presidente morto in carica a essere confermato dal voto, nelle elezioni del 1904, battendo il democratico Alton B. Parker (1852-1926), un giudice di New York. Nonostante l’eccezionale popolarità, avendo di fatto ricoperto due mandati “Teddy” non volle venire meno alla “regola di Washington”, e nel 1908 si limitò a sostenere la candidatura dell’amico e collaboratore William Howard Taft, già suo ministro della Guerra, che batté largamente Bryan, tornato a candidarsi per la terza e ultima volta.
Tuttavia, Taft deluse profondamente il suo mentore e amico, restando sulle tradizionali posizioni conservatrici del GOP, mentre Roosevelt era convinto che fosse necessario introdurre importanti riforme, per sottrarre tale agenda ai democratici, e prevenire derive socialiste e populiste ormai nell’aria. E si arrivò alle drammatiche elezioni del 1912, che spezzarono oltre mezzo secolo di quasi incontrastato predominio repubblicano.
Tra guerre, crisi e riforme, la prevalenza democratica da Wilson a Johnson (1912-1968)
Fallito il tentativo di riprendere il controllo del Partito repubblicano con una piattaforma riformista, l’energico Roosevelt decise di correre da indipendente, alla testa di un movimento progressista, popolarmente detto Bull Moose Party. Si trattò dell’unica volta in cui si vide un terzo partito, rispetto a quelli ormai tradizionali, ottenere il secondo posto: il sempre popolarissimo Teddy, infatti, pur seriamente ferito in un attentato, raccolse 700.000 voti più di Taft, relegando il GOP sullo scalino più basso del podio. Tuttavia, un elettorato assetato di riforme sociali ed economiche – un quarto candidato corse per il Partito socialista da poco nato, ottenendo con l’ex deputato democratico dell’Indiana Eugene V. Debs (1855-1926), più volte imprigionato come “sovversivo”, quasi un milione di voti – optò per un candidato democratico dichiaratamente progressista [10]: Woodrow Wilson, accademico e politologo, rettore della Princeton University e governatore del New Jersey. Nel 1916 Wilson fu riconfermato correndo questa volta contro il solo candidato repubblicano, Charles Evans Hughes (1862-1948), ex governatore di New York, poi segretario di Stato nel 1921-1925 e presidente della Corte Suprema dal 1930 al 1941, uno dei maggiori giuristi del tempo, anche a livello internazionale.
Le elezioni del 1920 inaugurarono invece il primo dei due intermezzi repubblicani, in oltre mezzo secolo a predominanza democratica e progressista. Fu infatti eletto presidente Warren Harding, battendo James M. Cox (1870-1957), governatore dell’Ohio, stato di provenienza anche del vincitore. Harding morì nel 1923, e il suo vice e successore, Calvin Coolidge, fu confermato alle elezioni del 1924, battendo il democratico del West Virginia John W. Davis (1873-1955), ex collaboratore di Wilson, e il senatore del Winsconsin Robert M. La Follette (1855-1925), combattivo ex compagno di corsa nel 1912 di Teddy Roosevelt, di cui aveva raccolto la bandiera progressista [11]. Anche Coolidge non volle ricandidarsi nel 1928: e il GOP fece eleggere Herbert Hoover, un oscuro tecnocrate dal 1921 ministro del Commercio, che batté il primo candidato cattolico giunto alla corsa per la presidenza, il governatore di New York Al Smith (1873-1944).
A meno di un anno dalla sua elezione, Hoover, esperto di economia e produzione, fu travolto dalla più grande crisi economica della storia moderna: e nel 1932 fu rimandato a casa da Franklin D. Roosevelt. Sebbene militasse nel Partito democratico, il nuovo presidente era cugino del popolarissimo Teddy, e come lui impegnato sul fronte delle riforme, correndo già come candidato alla vicepresidenza nel 1920 con James M. Cox. Eletto con una valanga di voti, grazie a una attiva politica riformista mirata a superare la “grande crisi”, nel 1936 Roosevelt fu trionfalmente riconfermato, schiacciando il repubblicano Alf Landon (1887-1987), governatore del Kansas [12].
Forte di un eccezionale consenso, aumentato dalla crisi internazionale poi sfociata nel 1939 nello scoppio di una nuova guerra mondiale, un anno dopo Roosevelt decise di sfidare la “regola di Washington” e di correre per un terzo mandato, per garantire continuità alla nazione in quell’epoca tempestosa, ben sapendo che gli USA non potevano restarne fuori. Una scommessa vinta, seppur con un margine di vantaggio inferiore rispetto alle elezioni precedenti, nei confronti dello sfidante repubblicano Wendell Willkie (1892-1944): un giurista ex attivista democratico, che aveva collaborato al New Deal di Roosevelt, prima di schierarsi con i repubblicani, tentando di battere il presidente sul terreno delle riforme.
Deciso a riprovarci nel 1944 con una piattaforma progressista e di unità nazionale, quando l’ormai logorato FDR correva per un quarto mandato, nel pieno della guerra che dal dicembre 1941 coinvolgeva gli Stati Uniti, Willkie fu battuto alle primarie repubblicane: e morì nell’ottobre 1944, dopo essere stato sondato nei mesi precedenti da Roosevelt per fargli da vicepresidente. Il presidente uscente si trovò così di fronte Thomas E. Dewey (1902-1971), giovane e dinamico governatore di New York, dove da procuratore generale negli anni ‘30 aveva combattuto senza esclusione di colpi la mafia, spedendo in galera anche Lucky Luciano. Già in corsa per le primarie del GOP nel 1940, e anch’egli favorevole alle riforme del New Deal e allo sforzo bellico, Dewey contrapponeva giovinezza e dinamismo al vecchio e malato presidente: che riuscì a vincere di nuovo, ma con un margine minore e ben poche prospettive, poiché morì tre mesi dopo l’inizio del suo quarto mandato, il 12 aprile 1945.
A questo punto, dopo il lungo “regno” democratico, i repubblicani erano convinti di ritornare alla Casa Bianca nel 1948: anche perché il nuovo presidente Harry S. Truman sembrava impopolare, e il Partito democratico era scosso da scissioni e scandali. A destra, infatti, i sostenitori del vecchio Sud segregazionista, i Dixiecrat, ruppero l’unità del partito appoggiando un loro campione: il potente e quasi immortale senatore del South Carolina Strom Thurmond (1902-2003) [13]. A sinistra, l’ala più progressista, non sentendosi rappresentata dal moderato Truman, si affidò a Henry A. Wallace (1888-1965), tecnocrate dell’Iowa e uomo chiave della politica di riforma agricola di Roosevelt, di cui era stato vicepresidente nel 1941-1945. I due democratici ribelli tuttavia non indebolirono Truman, nonostante il presidente fosse dato per spacciato dai sondaggi, e nelle prime edizioni di alcuni giornali usciti a urne chiuse: infatti batté Dewey, che si era ricandidato per il GOP dopo una serrata corsa alla nomination.
Nel 1952 Dewey si sarebbe invece speso per il nuovo candidato messo in campo dai repubblicani, per rompere 20 anni di ininterrotto dominio democratico. Nel 1951 la ratifica del XXII Emendamento alla Costituzione, che imponeva ai presidenti il limite dei 2 mandati, e lasciava al vicepresidente che “abbia agito come Presidente, per più di due anni di un mandato in cui un’altra persona è stata eletta Presidente” la possibilità di essere eletto alla presidenza non più di una volta, non si applicava al presidente in carica; ossia a Truman, che però alla fine decise di non ricandidarsi. Per la prima volta dal 1932, quindi, a battersi non sarebbero stati un presidente in carica e uno sfidante, ma due new entry.
Per il GOP scese in campo il generale Dwight D. Eisenhower, il popolare “Ike”, rispettato comandante alleato in Europa nel 1944-1945, che non ebbe problemi a battere sia nel 1952, sia nel 1956, il rivale democratico e liberal Adlai Stevenson (1900-1965), un diplomatico dell’Illinois che aveva contribuito alla nascita delle Nazioni Unite, collaboratore di Roosevelt e poi di Kennedy. Nel ’56 la vittoria fu addirittura schiacciante, anche perché “Ike” aveva seguito una politica rispettosa e moderata verso le riforme varate da Roosevelt.
Nel 1960, scaduto il mandato del vecchio generale, il GOP puntò sul suo vicepresidente, un politico abile e controverso, Richard Nixon. Dopo una serrata lotta alle primarie, i democratici avrebbero invece corso con il giovane John Fitzgerald Kennedy, che vinse per un soffio contro il più esperto, ma meno telegenico rivale; e nonostante l’azione di disturbo effettuata dall’inossidabile dixiecrat Thurmond, che nel Sud raccolse voti con la candidatura estremista di Harry F. Byrd (1887-1966). Dato come nettamente favorito per le elezioni da tenersi nel novembre 1964, il dinamico e popolare JFK non ci sarebbe mai arrivato, essendo stato assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. Ad affermarsi fu il suo vicepresidente Lyndon B. Johnson, che stracciò senza problemi (61% a 38) il rivale repubblicano Barry Goldwater (1909-1998), senatore dell’Arizona ed ex generale della US Air Force, esponente quasi estremista della destra del GOP. Che, in effetti, iniziava a cambiare pelle… [14]
Tra ritorno repubblicano e alternanza: da Nixon al bis di Trump (1968-2024)
Le elezioni del 1968 furono dense di eventi drammatici, e con qualche punto di contatto con la campagna svoltasi nel 2024. In teoria, visto il travolgente successo del 1964, il presidente Johnson era il candidato naturale del Partito democratico, dato che, avendo governato solo nell’ultimo anno del mandato iniziato dallo sfortunato JFK, non era limitato dal XXII Emendamento. Tuttavia, all’inizio di quell’anno cruciale la guerra in Vietnam, già impopolare, conobbe una svolta negativa, e Johnson crollò nei sondaggi: il 31 marzo 1968, a primarie già aperte, il presidente annunciò il suo ritiro dalla corsa. In quel momento, solo uno sconosciuto accademico progressista, da quasi 20 anni rappresentante del Minnesota al Congresso, Eugene McCarthy (1916-2005), era sceso in campo con una piattaforma contraria alla guerra del Vietnam.
Ritirandosi, Johnson diede il proprio supporto al suo vicepresidente, Hubert Humphrey (1911-1978), anche lui del Minnesota, eletto nel 1964 a fianco del successore di Kennedy. Ma proprio un altro Kennedy, Robert, il fratello del presidente ucciso, 42enne senatore di New York e già ministro della Giustizia nel 1961-1964, decise di correre con un programma progressista, che finì però per spaccare in due il fronte contro la guerra. Dopo un avvio difficile, la campagna di Robert Kennedy sembrava avere buone chance di vittoria per la nomination democratica, e poi a novembre per le presidenziali, quando il giovane senatore cadde anch’egli assassinato a Los Angeles il 5 giugno 1968, poche ore dopo aver vinto le cruciali primarie in California. Scossa da questo omicidio, e da quello di Martin Luter King avvenuto due mesi prima, la Convention democratica fu anche turbata da violente contestazioni e spaccature, compresa la candidatura da indipendente del leader populista e segregazionista dei democratici del Sud George Wallace (1919-1998), per un quarto di secolo potente governatore e “boss” dell’Alabama, indebolendo il candidato alla fine prescelto, il vicepresidente Humphrey.
I repubblicani non erano stati meno divisi, con un serratissimo testa a testa tra due candidati provenienti dalla California: l’ex attore e neo-governatore Ronald Reagan, e Nixon, deciso a ritentare dopo una lunga traversata del deserto, segnata da frustrazioni (come quando perse le elezioni per il governo della California, nel 1962) e depressione. Benché Reagan fosse avanti coi voti popolari, il controverso ma esperto ex vicepresidente ottenne la nomination, e il 5 novembre 1968 sconfisse i democratici: per un soffio al voto popolare, ma nettamente nella conta dei collegi statali, a causa della divisione del fronte avversario [15].
Nel 1972 le cose per Nixon sarebbero filate ancora più lisce: dopo amletici dubbi, i democratici candidarono George McGovern (1922-2012), scialbo senatore del South Dakota [16], che fu letteralmente schiacciato dal presidente uscente. Paradossalmente, nonostante l’evidente debolezza del fronte democratico, alcuni collaboratori di Nixon spiarono gli avversari, arrivando a mettere cinici nella sede del loro comitato elettorale, nell’albergo Watergate: in uno scenario di complotti e paranoie, Nixon tentò di insabbiare tutto, ma finì per essere travolto dallo scandalo, e costretto a dimettersi (9 agosto 1974). Dieci mesi prima si era dimesso, con accuse di corruzione, anche il suo vicepresidente Spiro Agnew, eletto con Nixon nel ’68 e confermato nel 1972. Grazie a un nuovo emendamento varato nel 1967 [17], Nixon lo aveva sostituito con Gerald Ford, che si trovò così catapultato alla Casa Bianca come il primo presidente a non essere stato eletto in un “ticket” presidenziale. Eroe sportivo e di guerra, di specchiata onestà, Ford era tuttavia un candidato debole, per un Partito repubblicano al contrario ancora in forma: ma nonostante Reagan si fosse ripresentato con forza, sfidando il presidente uscente, fu l’ex deputato del Michigan a correre nel 1976 contro i democratici, guidati da Jimmy Carter, altrettanto onesto – e poco carismatico – imprenditore e governatore della Georgia [18].
Che i repubblicani fossero ancora in una fase ascendente, lo avrebbero dimostrato non solo le elezioni del ’76, comunque perse di poco a dispetto degli scandali dell’era Nixon. Nel 1980 Carter, indebolito da una politica interna ed estera incerte, sfidato senza successo alle primarie da Ted Kennedy (1932-2009), celebre e controverso erede della dinastia del Massachussetts, fu pesantemente sconfitto da Reagan. Una vittoria, quella del vecchio cowboy di Hollywood, ancora più netta, se si pensa alla presenza di un terzo candidato indipendente, John B. Anderson (1922-2017), fino a quel momento potente esponente repubblicano dell’Illinois, che sottrasse voti al suo ex partito.
Sempre più popolare, Reagan non ebbe problemi, nonostante i suoi 73 anni, a vincere anche le elezioni del 1984; e alle primarie democratiche, i candidati favoriti si limitarono a correre per farsi conoscere, come il senatore del Colorado Gary Hart (classe 1936), sconfitto di poco dall’ex vicepresidente Walter Mondale (1928-2021). Onesto e sbiadito quanto Carter, che aveva affiancato nel 1976, Mondale fu mandato allo sbaraglio, e perse nel voto popolare con quasi 20 punti di distacco, ottenendo appena 13 delegati su 538. Un disastro che però i democratici temperarono con alcuni passaggi in prospettiva positivi. In primis, per la prima volta in un ticket presidenziale compariva una donna: Geraldine Ferraro (1935-2011), italo-americana di New York, compagna di corsa di Mondale. Inoltre, terzo classificato nelle primarie democratiche era stato, per la prima volta, un afroamericano: il reverendo Jesse Jackson (classe 1941), considerato l’erede politico di King.
Le prospettive per il 1988 sembravano a quel punto buone, per il partito dell’Asinello, dopo un ventennio di quasi incontrastato predominio repubblicano. Alla luce dei primi scricchioli del boom economico reaganiano, i democratici puntavano sul popolare governatore italo-americano di New York, Mario Cuomo (1932-2015), un liberal carismatico e pragmatico dalle brillanti doti oratorie; molti poi sognavano un dream team formato da Hart e Jackson: ma Cuomo rifiutò di scendere in campo, e Hart fu affondato da uno scandalo extraconiugale. Le primarie furono così combattute da un gruppo di sette candidati di forza iniziale molto simile, ingenerosamente stigmatizzati come i “sette nani”, da cui emerse Michael Dukakis (classe 1933), un altro ottimo governatore, che alla guida del Massachussetts dal 1975 al 1991 ne aveva rilanciato l’economia [19]. Ma il reaganismo era ancora popolare, e la sua amministrazione godeva dei primi effetti del declino dell’URSS e dello spegnersi della Guerra Fredda. Il vicepresidente uscente George H. Bush, uno stimato politico esperto di affari internazionali, riuscì a sconfiggere Dukakis, ancora una volta con un forte vantaggio. Ma le cose stavano per cambiare: le primarie democratiche dell’88 non erano state palestra solo per dei nani, e si erano posti in luce alcuni leader quarantenni, di cui risentiremo parlare a lungo, come Al Gore e Joe Biden, mentre un ruolo lo aveva avuto anche un giovane governatore dell’Arkansas, Bill Clinton.
Gore e Clinton erano in corsa entrambi alle primarie del 1992: e a vincerle, contro ogni pronostico iniziale, fu Clinton, sebbene provenisse da un piccolo stato, e sembrasse essere stato azzoppato anch’egli da uno scandalo a carattere extraconiugale; Gore divenne il candidato alla vicepresidenza.
Ancora più a sorpresa, a novembre Clinton batté – e con un buon vantaggio – il potente presidente uscente Bush, penalizzato dalla recessione economica, e dalla presenza di un terzo candidato di grande forza: il miliardario Ross Perot (1930-2019), che, pur correndo da indipendente con proposte che sottraevano consensi ad ambo i rivali, era pur sempre un conservatore vicino ai repubblicani, e un texano, al pari di Bush. Perot ottenne ben 20 degli oltre 100 milioni di voti espressi nel 1992, sebbene non conquistasse nemmeno un delegato, e si ripresentò con minore successo nel 1996, quando un Clinton assai popolare, per la ripresa economica in atto, e per la sua immagine moderna – fu definito il “presidente di MTV”, e la sua popolarità è sopravvissuta sino a oggi, nonostante il pruriginoso e imbarazzante sex scandal Lewinsky -, sconfisse largamente il rivale Bob Dole (1923-2021). Presentato dal GOP come candidato di bandiera, Dole era dal 1969 un anziano e rispettato senatore del Kansas, eroe di guerra e ultimo veterano del Secondo conflitto mondiale a correre per la Casa Bianca.
Nel 2000 i democratici non ebbero problemi a candidare Al Gore (classe 1948), dal 1992 vicepresidente di Clinton. Più rigido e meno empatico del suo leader, questo ex parlamentare del Tennessee, giornalista e veterano del Vietnam, si era dimostrato un vicepresidente attivo e determinato, come pochi a proprio agio con dossier economici, e in materie come l’ambiente, di cui era uno strenuo difensore [20]. Un candidato forte, che dovette però fare i conti con lo strascico del “caso Lewinsky” (che finì per danneggiare più lui di Clinton), e con la nuova fase della politica americana, ormai dominata non più da lunghi periodi di prevalenza democratica o repubblicana, ma da continue alternanze, tanto alla Casa Bianca quanto al Congresso.
A batterlo per un pugno di contestatissimi voti raccolti in Florida (e con Gore avanti di 500.000 voti popolari), e dopo 5 settimane di riconteggi e polemiche, fu George W. Bush, figlio dell’ex presidente sconfitto proprio dalla coppia Clinton-Gore 8 anni prima.
Decisamente piena la riconferma ottenuta da Bush junior nel 2004, segnata dal conflitto iniziato dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, che avevano compattato la nazione attorno a lui, soprattutto dopo la sconfitta inflitta a Saddam Hussein nel 2003. Gli errori e gli scandali emersi con le guerre in Afghanistan e Iraq stavano iniziando solo lentamente a emergere, e il presidente uscente poté battere, sia nel voto dei collegi sia in quello popolare, il candidato democratico John Kerry (classe 1945), senatore del Massachussetts ed eroe di guerra in Vietnam, per poi schierarsi contro quel conflitto, e criticare anche la strategia di Bush in Medio Oriente, crollata negli anni seguenti, assieme all’economia americana.
Nel 2008 in effetti i repubblicani finirono per essere azzoppati dagli effetti delle fallimentari politiche del presidente uscente, ormai non ricandidabile, mentre anche il suo ormai impopolarissimo vice Dick Cheney, considerato “l’anima dannata” della fazione Neocon repubblicana, nemmeno ci provava. A vincere le primarie fu alla fine un altro anziano eroe di guerra, il senatore dell’Arizona John McCain (1936-2018), rampollo di una dinastia di ammiragli americani, e a sua volta pilota della US Navy distintosi in Vietnam, dove rimase prigioniero di guerra per 6 anni dopo essere stato abbattuto su Hanoi nel 1967.
McCain era un repubblicano progressista, di grande carisma e molto rispettato, affiancato da una giovane donna di destra, la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, classe 1964, che si pensava potesse attirare l’elettorato conservatore e femminile, e che invece generò solo molte controversie.
I democratici, invece, partiti con delle primarie molto divisive, con vari leader forti in corsa, come l’ex candidato alla vicepresidenza del 2004 John Edwards, il senatore di lunghissimo corso Joe Biden del Delaware, e soprattutto con Hilary Clinton, classe 1947, moglie brillante ma poco empatica dell’ancora amatissimo presidente degli anni ’90, trovarono un candidato quasi a sorpresa: sarà infatti il 47enne senatore dell’Illinois Barak Obama a diventare il primo presidente di colore degli Stati Uniti (con Biden vicepresidente), con un risultato assolutamente schiacciante, e 10 milioni di voti di vantaggio su McCain. Nel 2012 Obama, che aveva avviato il rilancio dell’economia, non ebbe problemi a battere il nuovo candidato avversario: un repubblicano moderato del Massachussetts, Mitt Romney, classe 1947, già in corsa alle primarie del 2008, governatore del suo Stato e poi senatore dello Utah.
Nel 2016 tuttavia le cose si sarebbero complicate per i democratici, mentre il GOP, col declino della sua ala interventista Neocon, e della vecchia anima conservatrice, ma moderata e aperta sui diritti civili, avrebbe definitivamente cambiato pelle. Non ricandidabile l’ancora popolare Obama, sfilatosi – paradossalmente, alla luce dei successivi eventi – l’esperto ma anziano vicepresidente Biden, le primarie democratiche si spaccarono tra la Clinton, cui il presidente uscente aveva fornito supporto, sebbene non convintamente [21], e un candidato anziano e decisamente “socialdemocratico”, per gli standard americani: il senatore del Vermont Bernie Sanders, classe 1941. Solo dopo mesi di lotta la Clinton riuscì a battere il rivale radicale, ma solo per trovarsi di fronte un altro “estremista”: questa volta un populista di destra, il repubblicano Donald J. Trump, che l’avrebbe sconfitta con un margine non eccezionale di delegati (304 contro 227), e pur ricevendo ben 3 milioni di voti in meno rispetto alla rivale.
La prima presidenza Trump è stata controversa e irta di problemi, con il dramma del Covid-19, mal gestito dalla amministrazione del Tycoon, esploso proprio a ridosso della nuova campagna per le presidenziali del 2020.
Queste hanno visto contrapporsi, al presidente uscente, un ex vicepresidente ormai considerato in pensione: il quasi ottuagenario Joe Biden, senatore del Delaware dal 1972, già numero due dell’amministrazione Obama dal 2009 al 2017, e candidato alla presidenza per le primarie democratiche sin dal 1987. Un autentico ritorno, nonché una sfida della “terza età” (complessivamente Trump e Biden contavano ben 152 anni, contro i 90 del duello Kennedy-Nixon del 1960), dovuta alla necessità per i democratici, usciti spaccati dalle sfortunate elezioni del 2016, di trovare un punto di equilibrio, affidandosi a un vecchio e sperimentato “saggio” [22]. La scelta si rivelò tuttavia azzeccata; perché non solo Biden ottenne una nomina ampia, ma sconfisse Trump con 306 delegati contro 232, e con una differenza di 7 milioni di voti: va anzi sottolineato che, con quasi 81,3 milioni di suffragi raccolti, Biden è a tutt’oggi il recordman dei 236 anni di elezioni presidenziali; a dispetto degli inconsulti tentativi di Trump di inficiare il risultato elettorale, non riconoscendo la pur netta sconfitta.
Tentativi sfociati in una vera e propria sollevazione popolare, con il fallito assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, e accesi dal fatto che, nel corso dei decenni, in effetti a fare la differenza nei grandi collegi elettorali indecisi (o swing states) sono sempre più spesso stati poche decine di migliaia di voti. Ma tutto questo non ha impedito a Trump di ripresentarsi per un secondo mandato non consecutivo, alle elezioni del 2024, inseguendo il risultato raggiunto solo da Grover Cleveland nel 1892.
Gradualmente il Tycoon ha preso il controllo del GOP, ormai profondamente mutato e spostato a destra: e alle primarie ha sbaragliato senza troppi problemi i maggiori e più giovani rappresentanti delle tradizionali anime repubblicane, come il governatore della Florida Ron DeSantis (classe 1978), e l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley (classe 1972).
Sul fronte democratico, ci si aspettava che Biden, afflitto dall’età avanzata (80 anni compiuti il 20 novembre 2022) e da sondaggi sconfortanti, annunciasse l’intenzione di non ricandidarsi, come sembrava logico supporre. Invece, il 25 aprile 2023 annunciava di voler correre per un secondo mandato, togliendo vento alle vele di chi stava già scaldando i motori nel partito dell’Asinello.
Quanto è accaduto appartiene più alla cronaca che alla storia: e ci si interrogherà a lungo su quello che sembra essere stato l’unico grave errore fatto da un politico di lunghissimo corso e di enorme esperienza, come il “vecchio Joe”. Errore che ha consegnato alla storia politica americana un altro sconfitto democratico nella gara alla presidenza. Costretto infatti Biden a ritirarsi il 21 luglio, dopo il crollo nei sondaggi, a primarie ormai concluse, il partito dell’Asinello ha dovuto optare per una nomina “sul tamburo” effettuata alla convention di Chicago. Mancando alternative clamorose e capaci di sparigliare le carte, come Michelle Obama, classe 1964, empatica moglie dell’ex primo presidente afroamericano, decisa però a non candidarsi, e non potendo riaprire le primarie (che sono un fondamentale strumento non solo per selezionare i candidati, ma anche per forgiarne la leadership in mesi di lotta, e nel contempo tastare il polso al proprio elettorato), la scelta è corsa sui binari istituzionali, cadendo sulla vicepresidente uscente Kamala Harris. Al di là delle capacità personali, la Harris – nata nel 1964, di colore, e prima donna vicepresidente della storia americana -, pur lanciandosi in una campagna elettorale dinamica e glamour (forse troppo, glamour), non è riuscita a risalire la china: e il 5 novembre 2024 è stata sconfitta da Trump, sia in termini di “collegi” che di voto popolare.
Tuttavia, quattro anni nella politica americana passano in fretta, cadenzati come sono dalle elezioni parlamentari cosiddette di mid-term – le prossime si svolgeranno nel novembre 2026 -, e dal fatto che le prime candidature alle primarie dei partiti vengono presentate l’anno precedente alle presidenziali. Turno quest’ultimo previsto per il 7 novembre 2028: le prime manovre per la Casa Bianca le vedremo quindi già nella primavera-estate del 2027; anche perché Trump non potrà correre, e sarà sfida aperta tra due candidati nuovi.
Per il GOP la scelta istituzionale punterebbe su J.D. Vance, giovane (classe 1984) vicepresidente eletto con Trump, un ex marine dell’Ohio dai trascorsi familiari difficili, poi scrittore, imprenditore e politico di successo. Ma ci potrebbero riprovare anche DeSantis e Halley, senza contare i possibili outsider, come l’ex segretario di Stato nel 2018-2021 Mike Pompeo, classe 1963: più complicate le cose per l’onnipresente alleato di Trump Elon Musk, che essendo nato al di fuori degli Stati Uniti (a Pretoria, nel 1971), da cittadini stranieri, non è eleggibile. Più incerta la scelta dei democratici. A parte un possibile secondo tentativo della Harris, o un non prevedibile ripensamento di Michelle Obama, l’Asinello può contare su un gruppo di potenti e validi governatori, già presi in considerazione per il 2024: da Gavin Newsom (classe 1967) della California, a Josh Shapiro (1973) del decisivo swing state della Pennsylvania, alla combattiva Gretchen Whitmer (1971) del Michigan.
Quattro anni, come abbiamo detto, passano in fretta.
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[1] Per 5.000 voti: all’epoca il suffragio era ancora limitato e non universale, sebbene in alcuni stati in quei primi anni votassero già afroamericani liberi, e addirittura, per qualche tempo, anche qualche donna, bianca e benestante.
[2] La norma costituzionale che limita a soli due mandati la presidenza è stata introdotta nel 1951. Tuttavia, avendo Washington rinunciato a una terza candidatura, da allora ci si attenne, con poche eccezioni e senza risultati concreti sino al 1940, a questa ufficiosa “regola di Washington”, sebbene alcuni ex presidenti restassero assai influenti dopo il pensionamento. A volte anche con incarichi ufficiali: lo stesso Washington fu richiamato a capo dell’Esercito nel 1798.
[3] Clinton fu più volte sindaco della futura “grande mela” tra 1803 e 1815, e governatore dello Stato omonimo nel 1817-1823 e dal 1825 alla morte. Ad ogni modo Madison fu anche l’unico Presidente a essere “scacciato” armi alla mano dalla Casa Bianca: dagli inglesi, che il 24 agosto 1814 occuparono la capitale, briciandone gli edifici governativi in uno dei momenti più drammatici e umilianti per la storia americana.
[4] Il segretario di Stato più che un primo ministro è il “primo dei ministri” nelle amministrazioni americane, e si occupa di Affari Esteri.
[5] Lo speaker della Camera dei rappresentanti è l’equivalente americano del nostro Presidente della Camera dei deputati, e la seconda figura istituzionale in linea di successione dopo il vicepresidente.
[6] Scott aveva ben chiari i termini strategici del conflitto fratricida appena scoppiato, e dovette dimettersi soprattutto per l’età avanzata (75 anni), restando però un ascoltato consigliere ufficioso di Lincoln.
[7] Entrambi corteggiatori della futura moglie di Abram Lincoln, di cui erano amici con legami di vicinanza territoriale, Breckinridge – il più giovane vicepresidente della storia americana, a soli 36 anni – fu generale e ministro della Guerra della Confederazione. Allo scoppio della guerra civile, invece, Douglas si schierò risolutamente per l’Unione a fianco di Lincoln, ma morì poche settimane dopo.
[8] E nipote di William H. Harrison, presidente per solo un mese nel 1841.
[9] Garret Hobart, eletto vicepresidente con McKinley nel 1896, era morto in carica nel 1899. All’epoca, e sino al 1967, in caso di morte del vicepresidente la carica restava vacante, e a presiedere il Senato era il suo presidente pro tempore.
[10] Sebbene dovesse approvare leggi sulla segregazione in ambito federale e contro il voto alle donne, per ammansire i conservatori sudisti del Partito democratico: i “Dixiecrat”, debellati definitivamente solo negli anni ’60. Segretario di Stato di Wilson dal 1913 al 1915 fu Bryan, il capofila dei progressisti “dem”.
[11] Davis ebbe come candidato alla vicepresidenza il fratello minore di Bryan: ultime leve della Progressive Era a cavallo tra XIX e XX secolo.
[12] Nel 1935 era invece stato assassinato un possibile sfidante interno di Roosevelt, a sua volta sfuggito a un attentato nel 1933: il potente democratico-populista Huey Pierce Long (1893-1935), della Louisiana, ammiratore dei regimi autoritari, e protagonista – sotto altro nome– del romanzo Tutti gli uomini del re di Robert Penn Warren, dopo aver ispirato anche un racconto distopico di Sinclair Lewis.
[13] Thurmond non solo è morto ultracentenario, ma ha ricoperto l’incarico di senatore dal 1954 sino al gennaio 2003, pochi mesi prima di morire.
[14] Goldwater tuttavia sui temi dei diritti civili e dell’ambiente, si schierò su posizioni progressiste e libertarie.
[15] Nixon ottenne 31,8 milioni di voti (e 301 delegati) contro i 31,3 milioni di voti, e 191 delegati, del vicepresidente Humphrey: il democratico indipendente Wallace ottenne invece 46 delegati e ben 9,9 milioni di voti, per lo più sottratti nel Sud al proprio partito.
[16] Wallace ci riprovò, ma fu messo fuori gioco da un attentato che lo lasciò paralizzato, sebbene restasse governatore dell’Alabama sino al 1987, e si ricandidasse alle primarie del 1976.
[17] Fino a quel momento, infatti, in caso di morte o dimissioni del vicepresidente, il presidente in carica non poteva nominarne un altro, e la successione andava allo speaker della Camera, e al presidente pro tempore (vicepresidente) del Senato.
[18] Tuttora vivente, il 1° ottobre 2024 Carter, in carica dal 1977 al 1981, ha compiuto 100 anni: primo ex presidente a tagliare tale traguardo, e decano della Casa Bianca.
[19] Inoltre Dukakis nel 1977 riabilitò gli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, giustiziati mezzo secolo prima per un reato mai commesso, e sottoposti dallo Stato del Massachussetts a un ingiusto processo.
[20] Attivismo che gli è valso nel 2007 la condivisione del Nobel per la pace col Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU, e diversi premi – compreso un Oscar – per libri e documentari sull’ambiente.
[21] Durante il primo mandato, Obama aveva avuto quale segretario di Stato la Clinton, seguita nel 2013-2017 da un altro ex candidato alla presidenza, John Kerry.
[22] Peraltro non si può dire che i più votati tra gli avversari interni di Biden fossero dei giovanotti: oltre a Sanders, di nuovo in pista a 79 anni, vanno segnalati Elizabeth Warren (classe 1949), e Michael Bloomberg, coetaneo di Biden.
Tabella – I “vincitori” (°)
Elezioni Presidenti “anagrafe” partito
1788/1792 George Washington 1732-1799 Virginia Indipendente
1796 John Adams 1735-1826 Massachussetts Federalista
1800/1804 Thomas Jefferson 1743-1826 Virginia Democ-Repub.
1808/1812 James Madison 1751-1836 Virginia Democ-Repub.
1816/1820 James Monroe 1758-1831 Virginia Democ-Repub.
1824 John Quincy Adams 1767-1848 Massachussetts Democ-Repub.
1828/1832 Andrew Jackson 1767-1845 Tennessee Democratico
1836 Martin van Buren 1782-1862 New York Democratico
1840 (*) William H. Harrison 1773-1841 Ohio Whig
1844 James K. Polk 1795-1849 Tennessee Democratico
1848 (*) Zachary Taylor 1784-1850 Louisiana Whig
1852 Franklin Pierce 1804-1869 New Hampshire Democratico
1856 James Buchanan 1791-1868 Pennsylvania Democratico
1860/1864 Abram Lincoln (**) 1809-1865 Illinois Repubblicano
1868/1872 Ulysses S. Grant 1822-1885 Illinois Repubblicano
1876 Rutherford B. Hayes 1822-1893 Ohio Repubblicano
1880 (**) James A. Garfield 1831-1881 Ohio Repubblicano
1884 Grover Cleveland (I) 1837-1908 New York Democratico
1888 Benjamin Harrison 1833-1901 Indiana Repubblicano
1892 Grover Cleveland (II) *secondo mandato non consecutivo Dem.
1896/1900 William McKinley(**) 1843-1901 Ohio Repubblicano
1904 (°°) Teddy Roosevelt 1858-1919 New York Repubblicano
1908 William Howard Taft 1857-1930 Ohio Repubblicano
1912/1916 Woodrow Wilson 1856-1924 New Jersey Democratico
1920 (*) Warren Harding 1865-1923 Ohio Repubblicano
1924 (°°) Calvin Coolidge 1872-1933 Massachussetts Repubblicano
1928 Herbert Hoover 1874-1964 California Repubblicano
32-36-40-44 Franklyn D. Roosevelt 1882-1945 (*) New York Democratico
1948 (°°) Harry S. Truman 1884-1972 Missouri Democratico
1952/1956 Dwight D. Eisenhower 1890-1969 Texas Repubblicano
1960 (**) John F. Kennedy 1917-1963 Massachussetts Democratico
1964 (°°) Lyndon B. Johnson 1908-1973 Texas Democratico
1968/1972 Richard M. Nixon (***) 1913-1994 California Repubblicano
1976 Jimmy Carter 1924 Georgia Democratico
1980/1984 Ronald Reagan 1911-2004 California Repubblicano
1988 George H. Bush 1924-2018 Texas Repubblicano
1992/1996 Bill Clinton 1946 Arkansas Democratico
2000/2004 George W. Bush 1946 Texas Repubblicano
2008/2012 Barak Obama 1961 Illinois Democratico
2016 Donald Trump (I) 1946 New York Repubblicano
2020 Joe Biden 1942 Delaware Democratico
2024 Donald Trump (II) *secondo mandato non consecutivo Repubblicano
Legenda
(°) Dalla lista sono esclusi i vicepresidenti subentrati per morte o dimissioni ai presidenti eletti, ma mai confermati da un successivo voto popolare:
- John Tyler (1790-1862), subentrato a W.H. Harrison, in carica dal 1841 al 1845
- Millard Fillmore (1800-1874), vicepresidente nel 1849, subentrato a Taylor nel 1850-1853
- Andrew Johnson (1808-1875), vicepresidente di Lincoln nel 1865, gli subentrò dopo soli 40 giorni, sino al 1869
- Chester A. Arthur (1829-1886), eletto vicepresidente nel 1880, succeduto a Garfield nel 1881-1885
- Gerald Ford (1913-2006), nominato vicepresidente nel 1973, succeduto a Nixon nel 1974-1977
(°°) Vicepresidente, divenuto presidente durante il precedente mandato
(*) Morto in carica
(**) Assassinato
(***) Dimissionario