I CURDI E IL KURDISTAN, I GRANDI DIMENTICATI DI LOSANNA

di Massimo Iacopi -

Se dopo un secolo dal Trattato di Losanna del 1923 i Curdi sperano di ottenere uno Stato rivendicandone la legittimità, la storia insegna che le strategie messe a punto dalle leadership curde di allora furono a dir poco disastrose…

 

 

I Curdi sono passati alla storia come vittime ingiuste delle grandi potenze. All’indomani della Prima guerra mondiale Francia e Inghilterra per prime avrebbero rifiutato di tener conto della loro esistenza e del loro diritto all’autodeterminazione. Ma questa affermazione non corrisponde al vero ed è comunque inesatta. Prima di tutto, i Curdi sono stati vittime di sé stessi e in particolare della mancanza di chiaroveggenza dei loro dirigenti dell’epoca, capi tribali e intellettuali.

Il Kurdistan alla Conferenza di pace

Nel corso della Conferenza di Pace di Parigi del 1919 la Gran Bretagna – attraverso il primo ministro David Lloyd George – aveva sostenuto la candidatura del Kurdistan a rientrare nella lista dei paesi ammessi nel seno della Società delle Nazioni. Questo sostegno si inseriva nella logica degli impegni internazionali del presidente statunitense Woodrow Wilson. Per quanto riguarda il Medio Oriente, conformemente ai suoi 14 punti, i popoli sottomessi da secoli al dominio ottomano avrebbero dovuto vedersi offrire l’accesso all’indipendenza nazionale dopo, se necessario, un periodo di transizione sotto mandato alleato.
Il Trattato di Sèvres, firmato il 10 agosto 1920 nel salone d’Onore della Manifattura di Sèvres da 14 Stati era costituito da 433 articoli. Gli articoli 62, 63 e 64 della Sezione III si riferivano al processo di creazione di un Kurdistan indipendente.
Ovviamente la creazione di questo Stato rispondeva agli interessi strategici di Francia e Inghilterra, che intravvedevano tutti i vantaggi derivanti dalla nascita di uno Stato tampone fra la Turchia ottomana e i vecchi possedimenti arabi sui quali essi si erano assicurati alcuni mandati: la Francia sulla Siria (che allora inglobava anche il Libano) e la Gran Bretagna sulla Mesopotamia (Iraq) e la Palestina. Il problema del Kurdistan “autonomo” fa la sua comparsa allora per la prima volta.
Non solamente il progetto di un Kurdistan autonomo viene accettato dalla comunità internazionale, ma viene persino approvato dal sultano califfo Mehemet VI, ovviamente senza grande entusiasmo. Occorre sapere che il mantenimento alla testa di quello che resta del suo impero dipende dalla buona volontà degli Alleati e che quindi il califfo non ha altra soluzione che piegarsi alle loro decisioni. Per contro, l’idea di una autonomia curda è combattuta dal movimento nazionale turco guidato dal generale Mustafà Kemal pasha (futuro Ataturk), che, nell’estate del 1920, sostenuto dai resti dell’esercito ottomano, ha acquisito il controllo dell’interno dell’Anatolia e affronta il corpo di spedizione greco, che ha iniziato la conquista dell’Anatolia occidentale dalle coste dell’Egeo.
Ben sapendo con chi ha a che fare, Kemal conduce un’abile propaganda presso i notabili curdi civili e religiosi (i due vanno spesso di pari passo in terra d’islam) per dissuaderli dal collaborare con gli Alleati. La sua campagna d’opinione mette l’accento sul fatto che il suo movimento lotta contro le potenze cristiane che vogliono assoggettare le ultime terre che ancora sfuggono loro. Soprattutto il pasha fa correre la voce che queste potenze meditano di ristabilire gli Armeni e le altre minoranze cristiane nei loro possedimenti, confiscati de facto e ridistribuiti all’indomani del genocidio del 1915. Come dire che tutte le proprietà immobiliari o mobili, accaparrate da poco, dovranno essere restituite ai loro vecchi proprietari: a quelli che sono sopravvissuti o agli aventi diritto. Certamente tutti i Curdi non sono stati gli attori di questo dramma moderno, segnato da una inaudita violenza e ampiezza. Questi sono stati soprattutto la parte maggioritaria dei Sunniti, che si sono comportati come devoti ausiliari dei Giovani Turchi, fautori del genocidio. Il genocidio ha interessato decisamente meno i curdi alevi, vale a dire quelli di obbedienza sciita, che, invece, hanno spesso soccorso e ospitato fuggitivi armeni.

Tensioni con Pasha Kemal

Fra i curdi, che nell’insieme hanno molto da rimproverarsi nell’affare armeno, l’avvertimento di Mustafà Kemal di diffidare delle intenzioni reali delle potenze alleate viene pienamente recepito. Ancora più abilmente Kemal afferma di voler creare nei territori musulmani liberati dall’occupazione straniera uno “Stato dei Turchi e dei Curdi” e di voler restaurare sul trono il sultano califfo Mehemet VI, che egli presenta come virtuale prigioniero nel suo palazzo di Costantinopoli. Il sultano stambuliota, da parte sua, cerca inutilmente di far sapere che la diceria non è vera, ma, in ogni caso, la maggioranza dei curdi, di fronte all’incertezza della situazione, preferisce giocare la carta kemalista. Le prime reclute dell’esercito kemalista arrivano dalle province dell’Asia minore, giustamente da quelle che il Trattato di Sèvres aveva designato per formare il nocciolo del futuro Kurdistan. Questi uomini, che partono per respingere i giaours greci che invadono l’Anatolia con lo scopo di fare applicare il Trattato di Sèvres, non riescono a rendersi conto di essere stati raggirati da quelli che li portano a combattere.
Certamente, coscrizione e requisizioni hanno provocato rivolte curde, ma queste rivolte non hanno un carattere politico; si tratta piuttosto di rivolte contadine locali. E’ il caso della comunità curde alevi di Kocgiri, una regione di alta montagna a est di Ankara. Alla fine del 1920 e agli inizi del 1921, le loro sommosse a ripetizione contro le requisizioni e le tasse imposte dai kemalisti vengono duramente represse dalle truppe e dalle milizie distaccate nella regione.
Si sa oggi che l’alto comando kemalista meditava l’insediamento di uno stato-nazione basato sull’identità turca, escludendo la manifestazione di qualsiasi altra identità nazionale greca (rum), armena e curda. Fino al suo trionfo definitivo sui Greci, nell’estate 1922, gli insorti non cessano, per prudenza, di promettere la creazione di uno stato musulmano di Turchi e di Curdi. E anche dopo la vittoria kemalista, in occasione della Conferenza di Pace riunita a Losanna, i rappresentanti turchi continuano ad affermare di parlare a nome delle “nazioni sorelle” curde e turche.
Ismet pasha (più tardi Ismet Inonu), che dirige con brio la delegazione kemalista, argomenta che l’origine dei curdi è oscura (affermazione sostanzialmente esatta), che essi sono verosimilmente di ascendenza turca (affermazione manifestamente falsa) e che, in ogni caso Turchi e Curdi hanno sempre convissuto in perfetta armonia (anche in questo caso siamo ben lontani dalla verità). Comunque sia, i suoi avversari nella Conferenza di Pace, che hanno ormai rinunciato all’idea di uno stato tampone curdo, hanno accettato le sue tesi.
Il 24 luglio 1921, viene firmato un trattato di pace fra il governo kemalista di Angora (Ankara) e le potenze alleate. Esso rende caduco il trattato di Sèvres, consacra l’annessione della maggior parte del Kurdistan al nuovo stato turco, senza fornire alcuna garanzia riguardo il rispetto del diritto dei Curdi.
A partire dal 1924 e per lungo tempo non si parlerà più di curdi in Turchia, ma di “Turchi delle montagne”. Nell’est anatolico (vecchio Kurdistan) nasce una guerriglia che durerà fino al giorno d’oggi.

La questione di Mosul

L’immensa vittoria dei turchi a Losanna non è tuttavia completa. I negoziatori turchi sono stati costretti a fare delle concessioni. Una fra queste – forse la più importante – è il vilayet di Mosul. Ismet pasha, dopo aver lungamente discusso, acconsente a che la questione dell’attribuzione di questo vasto territorio – 88 mila km quadrati – venga affidato all’arbitrato della Società delle Nazioni. Vale la pena di ricordare il Vilayet in questione (Mosul), quando è stato concluso l’armistizio di Mudros, risultava ancora ottomano. Per i kemalisti, che hanno ormai rinunciato a qualsiasi sogno di riconquista dei Balcani e nella penisola arabica, i territori, che erano ancora controllati dall’esercito ottomano il giorno fatidico del 30 ottobre 1918, conservano comunque una assoluta vocazione a essere inglobati nel nuovo stato turco in formazione.
Questa pretesa viene respinta dai rappresentanti britannici, così come essi si rifiutano di prendere in considerazione gli argomenti etnici proposti da Ismet pasha. Questi argomenti, è vero, risultano speciosi, in quanto descrivono Mosul come una città turca e non araba. Di fatto, la popolazione di questa città è composita, come tutti gli abitanti di quelle delle città ottomane dell’epoca: si tratta di un mosaico umano e religioso. Mosul, situata nel nord dell’Iraq, sulle rive del fiume Tigri, significa “crocevia” in arabo ed è un’importante città commerciale. Si tratta di una città ricca di storia. All’interno delle sue mura coabitavano, a quel tempo, Arabi, Curdi, Turkmeni, Ebrei, Cristiani, Musulmani e Yezidi. I Britannici, che si trovavano sul posto, erano ben piazzati per saperlo. Per contro, i Curdi, pur in assenza di statistiche affidabili, costituiscono la maggioranza della popolazione delle campagne del vasto Vilayet di Mosul.
Da parte loro, in maniera ipocrita, i diplomatici britannici insistono perché l’Iraq abbia “frontiere che gli consentano di vivere, sia dal punto di vista politico, sia da quello economico”. Essi arguiscono che la Mesopotamia irachena non potrebbe prosperare senza la disponibilità di questo vilayet, che costituisce la sua risorsa d’acqua. L’argomentazione viene recepita e nel dicembre 1925 il Consiglio della Società delle Nazioni attribuisce il vilayet di Mosul all’Iraq, posto sotto mandato britannico.

La Commissione di Mosul

A dispetto dei 14 punti del presidente americano Wilson, la proposta turca dell’ultimo minuto per un referendum “per conoscere il punto di vista delle popolazioni interessate” viene respinta. Finalmente ci si mette d’accordo per inviare una commissione d’inchiesta, detta “Commissione di Mosul”, per consultare le popolazioni. Essa è composta da tre inquisitori: il diplomatico svedese Einar al Wirsen (1875-1936), il conte ungherese Pal Teleki (1879-1941) e il colonnello ingegnere militare belga Albert Paulis (1875-1933), oltre a un geografo rispettato.
Tre personalità che hanno in comune il fatto di essere originari di paesi che, all’indomani della Guerra Mondiale sono sotto influenza britannica; evidentemente una scelta deliberata e che per il Regno Unito si rivela pagante.
La Commissione soggiorna nel nord dell’Iraq dal gennaio al marzo 1925. Il 16 dicembre 1926 deposita il suo rapporto a Ginevra, sede della SDN. Come era da attendersi, il risultato è sostanzialmente favorevole alla tesi britannica: la frontiera settentrionale dell’Iraq, o “linea Bruxelles”, che corre lungo 532 chilometri con la Turchia, risulta conforme ai desiderata inglesi. La sovranità del regno d’Iraq viene riconosciuta sull’essenziale del vilayet di Mosul, a eccezione di monti Hakkari. Gli assiri (oscura popolazione cristiana, sempre maltrattata dalla storia) che popolavano tali monti – che si erano tuttavia impegnati nella guerra a fianco degli Alleati – vengono sacrificati; ma si tratta in larga parte di paria, la cui sorte poco importa alla comunità internazionale, tanto più che sono detestati dalle popolazioni musulmane, siano esse arabe, curde o turche. Gli altri grandi perdenti sono i Curdi: le loro terre ancestrali sono ancora una volta divise e la loro lotta per il riconoscimento dei diritti fondamentali è compromessa.
Vale la pena notare che la Commissione giustifica la sua decisione attraverso il ruolo cruciale dell’acqua, considerata vitale per lo sviluppo del Regno dell’Iraq. Per contro, rimane molto discreta per quanto riguarda il petrolio, che, a dire il vero, risulta ancora sfruttato in maniera artigianale. In definitiva, la Commissione giudica, come tutte le popolazioni interessate, che l’ordine e il progresso non sono possibili che sotto la tutela britannica.

Risposta turca

Il 17 dicembre la Turchia risponde con la firma di un Trattato di amicizia con la Russia sovietica. L’Inghilterra non si lascia impressionare e sostiene senza esitazione il suo uomo nella regione, l’insignificante re Feisal, insediato sul trono iracheno il 23 agosto 1921. Dopo prolungate tensioni, che comprendono minacce di scontri armati rilanciate dalla stampa turca, il realismo riesce a imporsi ad Ankara.
In effetti, Mosul e il suo territorio non sono altro che una provincia periferica, una marca di frontiera con la Persia, senza grande importanza economica. Il 5 giugno 1926 il Regno Unito, l’Iraq e la Turchia firmano ad Ankara un trattato che si ispira al testo della SDN. Il tracciato della frontiera fra la Repubblica turca e il Regno d’Iraq viene definitivamente fissato secondo l’arbitrato della Società delle Nazioni. Unica compensazione ottenuta dalla Turchia, l’Iraq si impegna per 25 anni a versare il 10% del totale dei profitti della Turkish Petroleum Company e di altre compagnie che potrebbe essere portate a sfruttare il petrolio.
Va precisato che le royalties sulle entrate petrolifere irachene compensano la rinuncia turca su Mosul, ma rappresentano una quantità decisamente insufficiente. Certamente, questa concessione finanziaria risultava necessaria affinché Mustafà Kemal potesse concludere l’accordo di Ankara senza perdere la faccia. Ma per comprendere la sua decisione occorre guardare sul lato della questione curda. L’accordo prevede la responsabilità mutua dei firmatari a impedire “qualsiasi atto di saccheggio e brigantaggio” nei confronti dello stato vicino. L’accordo viene completato con impegni di cooperazione di polizia e di estradizione. L’articolo 9 recita: “Nel caso in cui più individui armati abbiano compiuto un crimine o un delitto nella zona di frontiera, le autorità di quest’ultima zona sono tenute ad arrestare questi individui per metterli, secondo la legge, a disposizione delle autorità dell’altra parte, da dove provengono con il loro bottino e le loro armi”. L’articolo seguente precisa inoltre che la zona di frontiera nella quale viene applicata questa disposizione “… sarà tutta la frontiera che separa la Turchia dall’Iraq, come anche una zona di 75 km di profondità da una parte e dall’altra di questa frontiera”. Infine, l’articolo 12 precisa che le autorità turche e le autorità irachene non permetteranno nella zona di frontiera nessuna organizzazione di propaganda né riunioni dirette contro uno o l’altro stato. Queste disposizioni risultano ancora oggi d’attualità. Esse sono servite come base giuridica ai molteplici interventi dell’esercito turco in Iraq contro gli oppositori Curdi, che conducevano azioni di guerriglia, a partire dalla frontiera dell’Iraq.

Conclusione

Chi oggi proclama che l’Europa ha un debito nei confronti dei Curdi si sbaglia clamorosamente, proprio perché non conosce la storia. Certamente, all’indomani della Prima guerra mondiale, le potenze alleate erano ben lontane dal giocare un ruolo positivo in Medio Oriente, ma per quanto concerne i Curdi, non si può avallare alcuna accusa di tradimento. I Curdi nel periodo 1919-1922 hanno liberamente fatto la loro scelta di allearsi con i Turchi. Senza dubbio, il popolo curdo (se un popolo curdo esiste, ma questo è un altro problema) è stato vittima dell’avidità e della cecità dei suoi dirigenti dell’epoca; capi tribali e dignitari religiosi hanno scelto di sostenere i kemalisti per non dover restituire case e beni usurpati ai (rari) sopravvissuti armeni. Una scelta che, sul breve periodo, si è dimostrata disastrosa: essi sono i principali se non gli unici responsabili del fatto che lo Stato curdo che, nel 1922, doveva essere costituito a Sèvres ed era quasi sul fonte battesimale, nacque morto, frammentato fra i diversi Stati ostili.