I CONSIGLI PROVINCIALI NEL REGNO DI NAPOLI

di Michele Strazza -

Voluti da Giuseppe Bonaparte nel 1806 per trasferire nel Mezzogiorno l’organizzazione amministrativa della Francia rivoluzionaria, i consigli avviarono un vero e proprio processo di centralizzazione burocratica. Cui non fu estranea l’esigenza di ottenere il consenso della media e grande borghesia terriera al nuovo regime.

Giuseppe Bonaparte

Giuseppe Bonaparte

Nel Regno delle Due Sicilie dei Borboni, divenuto a seguito della conquista francese Regno di Napoli, si diede avvio ad un periodo di profonde trasformazioni, conosciuto come “Decennio francese” (1806-1815), tanto che lo storico Giacomo Racioppi lo definì un vero e proprio “mondo nuovo”.
A Giuseppe Bonaparte (1806-1808) successe Gioacchino Murat (1808-1815) che cercò di realizzare in Italia meridionale gli obiettivi della Rivoluzione Francese anche attraverso iniziative di riforma dell’amministrazione pubblica. Un processo di modernizzazione istituzionale che non sempre riuscì ad attivare un uguale processo di modernizzazione sociale ed economico.
Un importante tentativo fu fatto con la legge n. 132 dell’8 agosto 1806 “sulla divisione ed amministrazione delle provincie del regno” che introduceva un vero e proprio processo di centralizzazione burocratica basato sul rapporto fondamentale tra Ministero dell’Interno e l’Intendente, nuovo rappresentante dello Stato nella Provincia, definito “magistrato incaricato dell’amministrazione civile, finanziaria e dell’alta polizia”.

Il Regno era, infatti, stato diviso in province e distretti alle dipendenze, rispettivamente, degli Intendenti e dei Sottointendenti. Questa struttura centralista aveva, tuttavia, subito un temperamento con la istituzione di tre altri organismi: il Consiglio Generale della Provincia, il Consiglio Distrettuale e il Consiglio Comunale (Decurionato, sorto dopo l’abolizione dei “Pubblici Parlamenti”), con il chiaro intento di costruire uno spazio istituzionale per le classi dirigenti locali che venivano valorizzate quali centri di potere solo formalmente periferici.
La funzione principale dei Consigli Provinciali consisteva nella ripartizione delle imposte dirette fra i distretti. I Consigli Distrettuali le avrebbero, a loro volta, ripartite tra i Comuni. Altro compito delle assisi provinciali era l’esame dei problemi amministrativi locali per esprimere un parere sullo stato della Provincia e avanzare proposte per il suo miglioramento.
Così recitava l’art. 15, titolo II, paragrafo III, della Legge n. 132 dell’8 agosto 1806: «Ogni Consiglio fa nella sua provincia la ripartizione de’dazj diretti fra i distretti, pronunzia su le loro doglianze, relativa alla quota degli anzidetti dazj, a cui sono tassati; riceve ed esamina i conti dell’intendente, riguardo alle spese fatte a carico della provincia su i fondi a ciò destinati dallo stesso Consiglio provinciale; il rapporto di questi oggetti sarà dal Consiglio rimesso per mezzo dell’intendente, al Ministro delle finanze; ma il Consiglio rimetterà al Ministro dell’interno il suo parere sullo stato della provincia, e proporrà i mezzi che crederà conducenti a renderlo migliore».

Regno Napoli mapLa normativa stabiliva che i Consigli Provinciali si sarebbero riuniti una volta all’anno, dopo quattro giorni dalla chiusura dei consigli distrettuali, con sessione della durata di non “più di venti giorni”. Sul sistema di elezione dei componenti il Consiglio (tra i 15 ed i 20) e sulle “condizioni di proprietà” richieste si rinviava ad un successivo provvedimento.
Infatti, secondo la Legge n. 211 del 18 ottobre 1806 i consiglieri provinciali sarebbero stati proposti dai decurionati fra i proprietari aventi una rendita di almeno 480 ducati, doppia rispetto a quella prevista per i consiglieri distrettuali. Le liste degli eleggibili, inoltre, dovevano essere preparate dai Sottointendenti i quali dovevano indicare i nomi dei proprietari e le relative rendite soggette all’imposta fondiaria.
Sulla base di queste liste la parola passava poi ai decurionati che avevano il compito di proporre, per il Consiglio Distrettuale, un numero pari a un decimo del proprio consiglio comunale e, per il Consiglio Provinciale, da uno a tre nomi rispettivamente se si trattava di Comune fino a 3.000 abitanti, da 3.000 a 6.000 abitanti, superiori a 6.000 abitanti. Comunicati i nominativi ai Sottointendenti, questi ultimi avrebbero composto una lista, annotando giudizi e preferenze, inviata poi all’Intendente. Questi avrebbe proceduto a comporre terne per ogni piazza sulla base delle quali il sovrano, per ultimo, avrebbe fatto la propria scelta a mezzo del Ministro dell’Interno.

Con questo sofisticato meccanismo il governo centrale tentava di raggiungere un duplice obiettivo: da un lato scegliere i consiglieri provinciali e distrettuali tra gli appartenenti al ceto della media e grossa borghesia terriera, classe in ascesa e su cui si basava il consenso del nuovo regime, dall’altro controllare direttamente la composizione degli organismi.
Era dunque chiaro che si voleva evitare che diventassero consiglieri persone non gradite al nuovo potere. Di qui la richiesta di ulteriori requisiti necessari per ricoprire una carica pubblica: la probità e l’idoneità, consistendo, la prima, nel non avere pendenze con la Giustizia e nel collaborare con le nuove istituzioni e, la seconda, nel possedere conoscenze teoriche ed esperienze pratiche in settori specifici (agrario, economico, giuridico ecc.).
Una nuova classe, quella dei proprietari, pronta a prendere le redini del potere nella provincia meridionale, affiancandosi alle vecchie aristocrazie solo parzialmente colpite dalle fortune economiche. Una nuova nobiltà basata sul censo e sulla proprietà che proprio alla scomparsa della feudalità e alla vendita dei beni ecclesiastici doveva la propria ascesa. Su di essa era pronto a scommettere il potere francese, come saranno pronti a farlo gli stessi Borboni dopo la Restaurazione, in quanto garante dell’ordine interno locale. Tanto è vero che la presenza massiccia di ex giacobini continuerà anche con il ritorno dei Borboni, dando una certa stabilità ai nuovi organismi che, grazie a persone motivate e convinte, riusciranno, pur tra tante difficoltà, a funzionare. Non così accadrà quando, dopo i moti del 1820-21, il numero di tali elementi diminuirà, aprendo una fase di disinteresse e demotivazione dei partecipanti che condurrà a una stasi dell’istituzione provinciale conseguente spesso alla mancanza del numero legale nelle sedute.

Ritornati, dunque, i Borboni sul trono napoletano, i Consigli Provinciali, nonostante qualche dubbio iniziale, non vennero aboliti e poterono continuare a far sentire la propria voce su argomenti importanti della vita politica e sociale del tempo.
La tradizionale competenza degli organismi venne riaffermata nella legge organica sull’amministrazione civile del 12 dicembre 1816. Così recitava l’art. 30: «Il Consiglio provinciale da cui la provincia è rappresentata, esamina e discute i voti del Consigli distrettuali; vota la quantità della sovrimposta facoltativa, che crede necessaria per le spese particolari della provincia, e ne propone l’impiego; forma sulla proposizione dell’intendente il progetto dello Stato discusso provinciale, che dev’essere sottomesso alla nostra approvazione dal ministro dell’Interno; discute il conto morale dell’Intendente sull’impiego dei fondi provinciali; dà il suo parere sullo stato della provincia e dell’amministrazione pubblica, particolarmente sulla condotta e sulla opinione generale dei pubblici funzionari, e propone i mezzi che crederà più conducenti a renderlo migliore; nomina le deputazioni per la direzione e la vigilanza sulle opere pubbliche provinciali; propone i fondi per le opere pubbliche medesime; discute il conto morale dell’impiego di tali fondi; e dà il suo avviso sui progressi delle opere, e sugli espedienti da adottarsi per migliorarne l’esecuzione; destina, ove lo creda opportuno, uno o due deputati scelti nel suo seno o fuori, per sollecitare presso l’Intendenza o presso i ministeri la risoluzione ed il compimento delle sue deliberazioni».

La stessa legge regolò, anche, in maniera dettagliata i Consigli Provinciali e Distrettuali, stabilendone le funzioni e il criterio di nomina. In particolare gli artt. 124-130 disciplinavano la nomina dei consiglieri provinciali e distrettuali.
Era compito dei decurionati proporre un nome per ciascuno dei due consigli nei Comuni con meno di 3.000 abitanti, due nomi in quelli dai 3.000 ai 6.000 abitanti e tre nomi nei Comuni con oltre 6.000 abitanti. Eleggibili erano i proprietari con rendita imponibile superiore rispettivamente ai 400 e 200 ducati. L’intendente inviava, poi, l’elenco dei designati, insieme a una propria relazione, al Ministro dell’Interno il quale, a sua volta, proponeva la nomina al Re, ultimo anello di competenza.
Il nuovo governo, pertanto, convocò regolarmente le assisi provinciali nell’ottobre del 1815. Pur rinominando i componenti con decreti dell’agosto-settembre, la scelta venne fatta in larga parte tra gli ex consiglieri.
I nuovi Consigli furono, innanzitutto, impegnati nella richiesta di mantenere alcune delle riforme introdotte dai francesi, in primis l’abolizione della feudalità, riforme che avevano largamente favorito proprio il ceto dei possidenti da cui erano formate le assisi e che ormai costituiva la classe sociale di riferimento di ogni regime politico.

 

 

Per saperne di più
Bollettino delle leggi e dei decreti originali del regno di Napoli – Napoli, 1806
R. Feola, “Lo Stato amministrativo nel Regno di Napoli dall’età napoleonica alla Restaurazione”, in AA.VV., Il mezzogiorno fra ancien regime e Decennio francese – Edizioni Osanna, Venosa, 1992
A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia. Dall’Antico Regime alla società borghese (1657-1860), vol. 2 – Liguori, Napoli, 1986
A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno pre-unitario. Economia, società e istituzioni – Dedalo, Bari, 1988
A. Scirocco, I corpi rappresentativi nel Mezzogiorno dal “Decennio” alla Restaurazione: il personale dei Consigli Provinciali, in “Quaderni Storici”, n. 37, 1978
M. Strazza, Il Consiglio Provinciale di Basilicata (1808-1868) – EdiMaior, Venosa, 2008