GUERRIGLIA, LA “PICCOLA GUERRA” TRA DAVIDE E GOLIA
di Renzo Paternoster -
In risposta alla dissimmetria bellica, da secoli l’arte della guerriglia si avvale dell’invisibilità, dell’elusività, della flessibilità, della rapidità e della pazienza. La sua carta vincente è il tempo, non la potenza di fuoco.
La guerriglia è una forma di strategia militare che si inserisce integralmente nel concetto moderno di “guerra asimmetrica”. Essa è un conflitto nel quale vi è un evidente divario tra le forze militari e le risorse economiche degli avversari, che non consente alla parte più debole un confronto diretto, ma solo uno scontro indiretto che, utilizzando strategie e tattiche non convenzionali, sfrutti le debolezze dell’avversario.
La guerriglia, quindi, si basa su incursioni rapide e improvvise contro basi e convogli nemici, linee di comunicazione, trasporto e rifornimento, esponenti militari e politici. Il fine è quello di ostacolare l’azione del nemico e distruggerne il potenziale bellico, per logorarlo e costringerlo a utilizzare continue risorse. Insomma, come diceva Mao Zedong, la guerriglia può essere considerata «l’arte di fiaccare i nemici con tante punture di spillo».
La mobilità estrema delle formazioni guerrigliere rende assai difficile sconfiggerle. Infatti, mancando della forza numerica e bellica necessaria a contrastare un esercito regolare in campo aperto, le formazioni guerrigliere operano da luoghi di difficile accesso, da cui partono per missioni di disturbo e sabotaggio, oppure sfruttano luoghi particolari per tendere imboscate. La guerriglia, oggi come un tempo, non ha eserciti regolari, spesso ha armi obsolete, ma ha la grande capacità di “dominare” il tempo e lo spazio. I guerriglieri, infatti, non hanno fretta di colpire il nemico, sanno aspettarlo per combatterlo in piccole incursioni dove meno se l’aspetta. Essi hanno anche il controllo dello spazio, poiché i piccoli gruppi di guerriglieri possono muoversi e colpire ovunque e di sorpresa, senza articolati schemi tattici. Per questo la guerriglia dipende in massima parte dall’eccellente conoscenza dei luoghi in cui opera, dal radicamento dei guerriglieri nel territorio e dall’aiuto dei civili per asilo e informazioni.
Il termine “guerriglia” nasce in epoca recente per definire la resistenza spagnola contro l’esercito napoleonico durante la guerra peninsulare (1808-1813): guerrilla, “piccola guerra”.
Nonostante il termine sia relativamente recente, la guerriglia ha origini antiche. È probabile che la guerriglia sia nata nelle antichissime tradizioni nomadi, ovvero tra quelle popolazioni che non avevano ancora raggiunto un grado di urbanizzazione sufficiente per sviluppare vere e proprie strutture militari.
Nell’antichità la ritroviamo descritta anche nell’Antico Testamento e in altre opere di storici come Tacito, Appio, Frontino, Polibio, Plutarco. Essa fu attuata dagli ebrei guidati da Giuda Maccabeo contro i siriani, che occupavano il loro Paese (166-160 a.C.); dagli Arveni, popolazione della Gallia che insorse contro i Romani sotto la guida di Vercingetorige (52 a.C.); da Lusitani e Celtiberi che nel II secolo a.C. combatterono i Romani nella penisola iberica; dagli Zeloti, la setta giudaica che nel I secolo a.C. si ribellò all’occupazione romana della Palestina; dai Romani contro i Cartaginesi.
Più avanti nella storia, fu praticata nella “Guerra dei cent’anni” (1337-1453) e nella rivolta dei Paesi Bassi contro gli spagnoli (1568-1648). La guerra d’indipendenza americana (1775-1783) vide i coloni del continente praticarla contro gli inglesi; i francesi la subirono nella rivolta della Vandea (1793-1796). Durante le campagne militari napoleoniche, le armate francesi furono continuamente impegnate dalla guerriglia scoppiata nelle zone occupate: in Egitto, nel Regno di Napoli, in Spagna dal 1807 al 1814. Sempre i francesi dovettero affrontarla in Algeria e in Marocco, dal 1832 al 1847, dai combattenti berberi guidati dall’emiro Abd el-Kader. La guerriglia fu condotta dai confederati durante la guerra di secessione americana (1861-1865), dai francesi durante la guerra franco-prussiana (1870-1871), dai Boeri contro gli inglesi a cavallo fra il XIX e il XX secolo. I bolscevichi la praticarono contro i reparti dell’Esercito Bianco durante la rivoluzione russa; i guerriglieri libici l’attuarono contro gli invasori italiani agli inizi del XX secolo; i guerriglieri messicani – i cristeros – la praticarono come difesa armata dai piani di distruzione della Chiesa cattolica in Messico da parte del regime del presidente Plutarco Elías Calles.
In generale, dagli inizi del XX secolo la guerriglia diviene la strategia militare utilizzata per combattere il colonialismo, trasformandosi di fatto in guerra di popolo contro i regimi stranieri occupanti.
Dopo il secondo conflitto mondiale, le esperienze più significative di guerriglia sono quelle della popolazione del Vietnam contro la Francia (1954-1961), prima, e contro gli Stati Uniti d’America (1963-1973), dopo. Anche in Algeria la guerra si trasforma in guerriglia contro gli occupanti francesi (1956-1959). In Asia i guerriglieri mujaheddin afghani infliggono un duro colpo all’imperialismo sovietico tra il 1979 e il 1989. In America Latina è utilizzata dal prete guerrigliero colombiano Camilo Torres Restrepo (1929- 1966), dal messicano Augusto Nicolás Calderón Sandino (1895-1934), dal brasiliano Carlos Marighella (1911- 1969), dall’argentino Ernesto Guevara de la Serna (più noto come Che Guevara, 1928-1967), dal messicano Rafael Sebastián Guillén Vicente (più noto come “subcomandante Marcos”, 1957-) e da molti altri guerriglieri che hanno combattuto per la terra e per l’ideologia.
Esiste una vasta letteratura sulle teorie della guerriglia. Analizziamone brevemente qualcuna.
Uno dei primi teorici della guerriglia fu già nel VI-V secolo a.C. Sun Tzu, il generale stratega e filosofo cinese al quale è attribuito il libro Sūnzǐ Bīngfǎ (Arte della guerra), uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi. Egli codificò quella che chiamò “guerra irregolare”, ossia l’arte di piegare la volontà dell’avversario senza fare ricorso allo scontro aperto, perché ‒ come egli scrive ‒ «Chi eccelle nell’uso a metodi non ortodossi è inesauribile come il Cielo e privo di limiti come lo Yangze, il Fiume Giallo».
Un altro documento antico che descrive la guerriglia come tattica da utilizzare per controllare il territorio e difendersi dalle incursioni nemiche è di epoca bizantina: il Peri Paradromēs (in latino De velitatione bellica), attribuito all’imperatore bizantino Nikēphoros II Phōkas (912 c.a.- 969), un manuale sulla guerriglia da attuare nella contesa che si sviluppò tra l’VIII e X secolo tra Bizantini e Arabi. In esso è posto l’accento sulla duttilità tattica e la necessità di privilegiare la velocità di movimento, come strategie vincenti di un’efficace guerriglia contro il nemico.
Il generale prussiano Karl von Clausewitz, nel trattato Vom Krige (Della guerra), pubblicato postumo in tre volumi (1832-1837), delineò come linee fondamentali di un’efficiente guerriglia, innanzitutto l’appoggio popolare, poi l’esistenza di un territorio impervio utile anche per la ritirata strategica, infine un’azione frammentata in numerosi attacchi condotti su vari fronti: «Secondo il concetto che noi ci formiamo della guerra di popolo, essa, come una sostanza nebulosa, non deve mai infittirsi fino a costituire corpi compatti, altrimenti l’avversario dirigerà contro questi nuclei forze adeguate, li annienterà e farà molti prigionieri; in tal caso l’audacia diminuirà, […], e le armi cadranno dalle mani del popolo».
Il generale prussiano, tuttavia, immaginava la guerriglia operare sempre in concorso con un esercito regolare e subordinata a un piano operativo diretto dalle autorità militari.
Il primo grande teorico moderno della guerriglia è stato Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto come “Lawrence d’Arabia”. Nel suo The Seven Pillars of Wisdom (I Sette pilastri della saggezza, 1926) mise innanzitutto l’accento sull’importanza della scelta volontaria nell’aderire al movimento guerrigliero: la guerriglia è prima di tutto guerra individuale, in cui ciascun combattente è un volontario. Per questo i combattenti vanno motivati, ed è necessario che essi siano partecipi in ogni momento e in qualsiasi attività decisionale.
Per quanto riguarda la strategia, essenziale è la mobilità del gruppo di fuoco e la sorpresa in un’azione di guerriglia: tutta l’idea di guerriglia di Lawrence si fonda sul conflitto a distanza e sull’invisibilità, che consentirà ai guerriglieri di mantenere sempre l’iniziativa e, automaticamente, di toglierla all’avversario. La dislocazione del combattimento su più fronti, può permettere di superare lo scoglio della superiorità numerica del nemico.
Per Lawrence il segreto della guerriglia sta nell’essere “come l’aria”, cioè dovunque, ovunque e da nessuna parte, impedendo ai nemici di avere un bersaglio su cui puntare il fucile. La mobilità conta più della forza. E’ chiaro che se il nemico non ti vede, contro chi spara? «Ogni esercito è simile a una pianta, immobile, con radici salde, nutrito attraverso lunghi canali che salgono sino alla cima. Ma noi avremmo potuto essere come l’aria, un soffio d’aria, dovunque ci piacesse. […] Un soldato regolare, […] capace di sottomettere solo ciò contro cui può puntare il suo fucile, un simile soldato, privato d’un bersaglio, si sarebbe sentito abbandonato. […] Le nostre carte erano la rapidità e il tempo, non la potenza di fuoco».
Di conseguenza, se la guerriglia non si avvale di eserciti inquadrati, ma di piccoli gruppi mobili d’incursori, ognuno di essi è importante ed essenziale e non può essere assolutamente mandato al massacro.
Il sabotaggio, l’ostruzione della produzione e l’intralcio alla comunicazione, piuttosto che l’offensiva bellica in senso stretto, sono una buona strategia per combattere il nemico, poiché è più efficace e meno rischioso colpire i beni materiali dell’avversario piuttosto che i suoi soldati. Per Lawrence la mossa vincente è rendere difficile la vita dell’avversario piuttosto che togliergliela. In più, tutta l’attività bellica dovrebbe essere indirizzata alla distruzione sistematica delle infrastrutture (strade, ponti, condutture, ferrovie) e alla sottrazione o al blocco dei rifornimenti del nemico (viveri, acqua, munizioni). Costringere l’avversario a una manutenzione e ricostruzione costante delle proprie linee e mezzi di collegamento equivale a una costante emorragia d’energie e denaro. Per tutte queste ragioni, la corretta strategia della guerriglia per Lawrence è quella di colpire il nemico in un luogo inaspettato, e non direttamente ai suoi centro nevralgici che sono ben protetti; tagliare i viveri, piuttosto che accettare lo scontro diretto; essere imprevedibili, invece che ripetersi, anche quando una scelta ha portato al successo.
I grandi teorici della guerriglia rivoluzionaria del XX secolo, da Lenin a Mao Zedong, da Ho Chi Minh a Che Guevara, ideologi e leader carismatici della guerriglia, intesa come guerra di popolo, hanno praticato questa strategia militare come premessa indispensabile all’insurrezione generalizzata e alla battaglia finale. Le loro teorie si basavano su una guerra distribuita su più fronti, ma soprattutto su una strategia della totale mobilità dei gruppi armati, una specie di continuo mordi-e-fuggi, per fiaccare le forze dell’avversario. Scriveva a riguardo Che Guevara nel suo La guerra de guerrillas: «Mordi e fuggi e aspetta e spia e torna a mordere e a fuggire e così di seguito, senza dar tregua al nemico».
Il leader cinese Mao Zedong è considerato uno dei precettori di questo tipo di guerra. Egli applicò le tecniche della guerriglia con successo fino a quando non fu in grado di affrontare in campo aperto le forze dei cinesi nazionalisti. Il suo più importante scritto sui caratteri specifici della guerriglia partigiana è Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina, del 1936. Per Mao la guerriglia fu intesa come movimento insurrezionale iniziale e come fase di preparazione per la guerra del popolo. Per Mao è importante il legame indispensabile che si deve creare fra le unità di combattenti irregolari e la popolazione, ma anche la stretta connessione che deve sussistere fra la lotta armata e la lotta politica. La strategia militare, per essere vincente, deve prevedere l’integrarsi di operazioni tattiche su scala limitata e piani militari ad ampio respiro per la guerra di lunga durata. A completamento della sua teoria, Mao ritiene che la sorte della lotta armata è decisa soprattutto dalla risonanza e dal sostegno che essa trova nelle masse popolari.
Contributi alla teoria della guerriglia, furono dati anche da Nguyen Tat Thanh, conosciuto con lo pseudonimo di Ho Chi Minh, leader della lotta anticolonialista e fondatore del partito comunista indipendentista (Vietminh) e dal generale vietnamita Vô Nguyen, soprannominato Giap, maestro delle tecniche di guerriglia che l’applicò nelle operazioni militari contro gli occupanti francesi. Sia Ho Chi Minh sia il generale Giap, posero l’accento sull’esigenza inderogabile di affiancare all’iniziativa militare vera e propria, un’intensa opera di propaganda e di proselitismo tra le truppe del nemico. Ovviamente anche i due vietnamiti appoggiavano l’idea del mobilità totale delle truppe guerrigliere.
In un famoso saggio, Revolución en la Revolución, dell’intellettuale francese Régis Debray (pubblicato a Cuba nel 1967), è analizzata l’esperienza cubana, la tattica del foco guerrigliero e l’importanza della diffusione della guerriglia nelle campagne. L’autore praticò una drastica scelta tra partito e guerriglia, a favore della guerriglia, individuando la fragilità democratica e borghese dell’America Latina non più come deficienza e ostacolo, bensì come un’opportunità che la lotta armata avrebbe dovuto cogliere. In un altro libro, La lezione dei tupamaros, Debray si preoccupò di propagandare l’azione del gruppo.
La rivoluzione castrista-guevarista a Cuba (1956-1959) innescò una serie di processi imitativi in quasi tutta l’America Latina, portati avanti con azioni di guerriglia rurale nei Paesi più poveri (Guatemala, El Salvador, Bolivia, Perù), attentati, sabotaggi e guerriglia urbana nei Paesi avanzati come Uruguay, Argentina, Brasile.
Tanti sono stati i miti, gli ideali, le passioni, i sogni che eccitarono intere generazioni di giovani negli anni Sessanta del secolo scorso: il grande rivoluzionario Ernesto Che Guevara de la Serna fu uno di questi miti, la sua figura si colloca fra i grandi personaggi che hanno animato la storia mondiale del dopoguerra con il fascino dell’eroe.
Sulla base dell’esperienza cubana, Guevara attribuì un’importanza decisiva alla natura contadina della guerriglia e alla creazione di focos (focolai) insurrezionali in aree critiche, capaci di dilatarsi e di propagare la sollevazione alle aree vicine. Il suo contatto con i contadini cubani, trasformarono Che Guevara in un “rivoluzionario agrario”. Decisivo per la lotta rivoluzionaria in America Latina (ma anche in Europa e in Asia) è stato il suo manuale Guerra di guerriglia: un metodo, del 1961. In esso Guevara sottolineava il primato della lotta armata “permanente”, criticando le posizioni legalitarie e immobilistiche dei movimenti operai tradizionali del sub-continente latinoamericano.
Come gli altri teorici della guerriglia, anche Guevara riprendeva sostanzialmente le vecchie teorie da adottare in questo tipo di combattimento. «La parola d’ordine “dinamismo, iniziativa, mobilità, decisione istantanea di fronte alle situazioni nuove”, è la somma sintesi della tattica guerrigliera e in queste poche parole si esprime tutta la difficilissima arte della guerra popolare», scriveva nella “Prefazione” per l’edizione cubana di Guerra del popolo, esercito del popolo di Vo Nguyen Giap (1964). Essa, per essere vittoriosa, deve avere «un certo elemento di perfidia, di sorpresa, di predilezione per la notte, che sono evidentemente elementi essenziali della lotta guerrigliera». Guevara parte da un concetto ben definito: mentre il nemico e le sue forze armate regolari sono obbligate a difendere i loro territori e, dentro di essi, molteplici obiettivi, la guerriglia non ha nulla da difendere: «Questo rende vulnerabile il nemico e invincibile la guerriglia».
Decisiva per l’esito della lotta è per Che Guevara la propaganda armata, perché “catalizza” le masse consentendo ai guerriglieri di acquistare nuovi territori. Scrive Guevara in Guerra di guerriglia: «portare avanti questo tipo di guerra senza il sostegno della popolazione è il preludio del disastro inevitabile».
Tutto comincia con guerriglie di piccola entità ma di straordinaria mobilità, attraverso la propaganda armata poi si accresce il numero dei guerriglieri e il consenso popolare, per arrivare a una maggiore capacità di colpire il nemico. La tappa successiva è quella di occupare più zone possibili, per arrivare alla fase conclusiva della lotta, che è la rivoluzione del popolo. Tutto deve partire però dalle campagne, il luogo dove il nemico è debole. Nella città la guerriglia ha solo due determinate funzioni: quella d’appoggio (attraverso il sabotaggio, il rifornimento, la dispersione delle forze nemiche) e quella di preparare le condizioni idonee per l’offensiva insurrezionale del popolo. In pratica la guerriglia urbana era assunta ad avanguardia del proletariato e della rivoluzione finale.
Guevara ha un’idea precisa della figura del guerrigliero, egli è innanzitutto “il generale di se stesso”, poi: «è un riformatore sociale, il quale impugna le armi per rispondere all’irata protesta del popolo contro i suoi oppressori e lotta per cambiare il regime sociale che mantiene tutti i suoi fratelli disarmati nell’obbrobrio e nella miseria; si scaglia contro le condizioni particolari dell’istituzione in un momento dato e si dedica a distruggere, con tutto il vigore che le circostanze consentono, le forme di tale istituzione».
L’esempio cubano è la prova pratica della possibilità effettiva di come un piccolo gruppo di combattenti, che si è nutrito di modeste vittorie e che, attraverso la propaganda armata, è cresciuto fino a far precipitare il piccolo movimento in un’insurrezione di massa, potesse giungere alla vittoria. Scriveva Che Guevara nel suo La guerra di guerriglia: «Sia ben chiaro che la guerriglia è una fase della guerra che non ha in sé la possibilità di conseguire la vittoria; è una delle prime fasi, per essere esatti, e andrà svolgendosi e ampliandosi finché l’esercito guerrigliero con il suo incremento costante acquisisca le caratteristiche di un esercito regolare. Allora sarà pronto a vibrare al nemico colpi decisivi e a riportare la vittoria. Il trionfo finale sarà sempre il prodotto di un esercito regolare, anche se le sue origini sono state quelle di un esercito guerrigliero».
In America Latina le “teorie fochiste” sono state una risposta alle preoccupanti emergenze sociali del sottocontinente. Dopo il fallimento della “guerriglia rurale” nel sottocontinente americano (quella di Che Guevara in Bolivia, di Luis de la Puente in Perù, di Masetti in Argentina, di Yon Sosa in Guatemala), l’orientamento comune fu quello di portare la stessa guerriglia nei centri urbani, poiché in nessuno del Paesi latinoamericani esistevano concrete condizioni per poter prevedere in tempi brevi di innescare vasti movimenti popolari rivoluzionari. Tuttavia, non appena apparve evidente la mancata adesione delle masse popolari all’ipotetica rivoluzione, la guerriglia assunse una deriva terroristica, senza però teorizzare apertamente l’impiego del terrorismo. La via del “terrorismo urbano” risultò così l’unica strategia possibile per preparare il campo a una rivoluzione generale.
La teorizzazione del terrorismo urbano come unico metodo di lotta fu avversata da Che Guevara. Egli diede al suo lavoro dedicato alla guerra di guerriglia rivoluzionaria un alto profilo morale contro condotte ritenute terroristiche, che si dovevano impiegare unicamente se necessarie e, comunque, non dovevano rifarsi alle atrocità perché avrebbero provocato l’inimicizia del popolo.
Posizione diversa fu quella adottata dal rivoluzionario brasiliano Carlos Marighella, fondatore dell’Acao Libertadora Nacional. Egli propose una fusione tra guerriglia rurale, guerriglia urbana e terrorismo. In pratica Marighella teorizzò l’azione di guerriglia rurale esclusivamente in funzione di quella urbana, a sua volta favorita dal terrorismo con i suoi attentati dinamitardi.
Una possibile risposta alla guerriglia arrivò dagli Stati Uniti d’America nel 1960. Per volere dell’allora presidente Kennedy, nacque il JFKSWCS (John F. Kennedy Special Warfare Center and School), una struttura per studiare e sviluppare dottrine e tecniche e addestrare personale e forze speciali per esigenze di counterinsurgency (controguerriglia). Tra le soluzioni ideate per contrastare la guerriglia vi è l’aumento delle capacità di intelligence e l’utilizzo di Human intelligence (Humint). Oltre questo, anche la possibilità di disporre di forze “non convenzionali” (Forze speciali) in grado di condurre, con piccole unità mobili, operazioni mirate e l’utilizzo di nuclei OMLT (Operational Mentoring and Liaison Team) che possano efficacemente addestrare il personale e i comandanti militari locali nella condotta delle operazioni di controguerriglia. Poiché si è capito l’importanza del consenso della popolazione civile in una guerra di guerriglia, è stato proposto anche di evitare nelle azioni di controguerriglia misure militari che alimentano il consenso verso i guerriglieri (razionamenti, rappresaglie, deportazioni). Per questo si tende a far assumere alle Forze Armate anche compiti non prettamente militari, fornendo alla popolazione assistenza sociale e sanitaria: «conquistarne il cuore e la mente», come dicevano gli americani in Vietnam. Ma gli americani in Vietnam persero la guerra, perché non riuscirono a conquistare il cuore e la mente di una popolazione troppo amareggiata e risentita per abbandonare l’appoggio ai guerriglieri, considerati amici del popolo. Lo stesso successe in Afghanistan con la guerriglia dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica.
Per saperne di più
C. von Clausewitz, Della guerra – Einaudi, Torino 2000.
E. Cecchini, La storia della guerriglia. Dall’antichità all’era nucleare – Mursia, Milano 1990.
E. Guevara, La guerra di guerriglia – Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003.
G. Breccia (a cura di), L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz – Einaudi, Torino 2009.
H. Werner, Storia della guerriglia: tattica e strategia della guerra senza fronti - Feltrinelli, Milano 1973.
T. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza - Bompiani, Milano 2000.
R. Paternoster, Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata - Aracne, Roma 2014.
Sun Tzu, Sūnzǐ Bīngfǎ, L’arte della guerra - Newton & Compton, Roma 1994.
T. Argiolas, La guerriglia. Storia e dottrina – Sansoni, Firenze 1967.