GLI ZOO UMANI: LA STORIA DI SAARTJIE E OTA
di Renzo Paternoster -
A partire dal XIX secolo, assieme ad animali stravaganti ed esotici, si cominciarono ad esporre anche uomini e donne provenienti da terre lontane. Questa categoria espositiva fu declinata in varie forme: negli zoo, nei circhi, nei parco divertimento, durante le esposizioni universali. Fu il triste spettacolo della “differenza”, la prova tangibile che esisteva un’altra umanità, quella deumanizzata.
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A partire dalla prima metà dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America nascono i “Freak Show”, spettacoli in cui sono portati in scena persone con particolari malformazioni o con malattie rare. È l’impresario Phineas Taylor Barnum che comincia a girare con il suo strano circo nel quale, anziché leoni, elefanti o altri animali esotici sono mostrate persone appunto freak, strane, affette da nanismo, gigantismo, acromegalia (anomala crescita delle ossa del volto), focomelia (arti superiori fusi, simili a pinne), ectrodattilia (dita simili a chele); oppure con malformazioni o con modifiche volontarie.
Esistono precedenti più o meno simili. L’esempio più antico lo ritroviamo nell’America precolombiana, in Messico: il sovrano azteco Montezuma aveva a Ecatepec un giardino botanico con oltre milleduecento specie di piante, nel quale erano esposti animali rari e “specie particolari” di uomini, tra cui nani e albini.
Anche nell’Italia preunitaria esisteva qualcosa di simile. In Vaticano era infatti allestito un giardino zoologico da parte della famiglia De’ Medici, dove erano in bella mostra non solo animali particolari, ma anche esseri umani provenienti dalle terre più lontane, come i mori che facevano fantasie equestri su cavalli arabi, abili arcieri tartari o lottatori turchi.
Nel Cinquecento si registra in Europa la presenza di Wunderkammer, letteralmente “Camere delle meraviglie”. Sono queste una specie di musei in cui sono esposte “cose straordinarie”, sia di origine naturale sia artificiale. Dunque, non solo artefatti particolari o rocce preziose, zanne di elefante, rami di corallo, piante rare esiccate, ma anche animali imbalsamati e, in barattoli di vetro feti umani e parti di corpo umani deformi immersi in un liquido per la conservazione.
La naturale propaggine di queste esposizioni sono stati i cosiddetti “zoo umani” dell’Ottocento, esibizione pubblica di persone provenienti dalle colonie più remote in ambienti creati ad hoc. Così, dopo i viaggi iniziali verso nuove e sconosciute terre, diventa usanza far conoscere al vecchio continente non solo piante e animali nuovi, ma anche esemplari umani prima sconosciuti. Si inizia a esporre alcuni esemplari nei salotti borghesi (la più nota protagonista è l’ottentotta Saartjie Baartman), per poi passare a veri e propri zoo umani, con tanto di gabbie, che solo molto più tardi saranno trasformati in “esposizioni etnografiche”. L’idea è quella di presentare la natura selvaggia dei popoli “scoperti”, di rendere visibile teoria evoluzionista mostrando quello che era ritenuto l’anello di congiunzione tra le scimmie e l’essere umano evoluto. Questo anche per legittimare le imprese coloniali.
Negli anni Settanta del XIX secolo, infatti, diventano di gran moda le esposizioni di esseri umani provenienti dalle colonie più remote. L’europeo, con la stessa naturalezza del diritto di conquistare e colonizzare terre di altri popoli, si appropria anche del diritto di “esibire” quella gente a cui ha sottratto terra e libertà.
In Germania, un mercante di animali selvatici, tale Carl Hagenbeck, inizia a esporre nel suo zoo di Amburgo persone “primitive”, tra cui alcuni samoani. Anche Parigi, a partire dal 1877, ospita Le Jardin zoologiche d’acclimatation, una serie di esposizioni etnografiche che si sono protratte sino al 1912. Pure l’Italia ha le sue esposizioni di “primitivi”. La più nota è quella che si tenne a Torino nel 1884, nel Parco del Valentino, nella quale sei africani provenienti dalla baia di Assab sono messi in mostra. In Italia, dopo la conquista coloniale africana e sino al 1940, si avrà un moltiplicarsi di “villaggi africani” (per la precisione “villaggi eritrei” e “villaggi somali”) per tutta la penisola. Sempre in Italia, con Prima mostra triennale delle terre italiane d’oltremare, organizzata a Napoli nel 1940, si conclude il vezzo di mettere in mostra l’“altra umanità deumanizzata”.
Famoso è lo spettacolo “L’anello mancante” che, nel 1906 è inaugurato allo zoo del Bronx di New York, in cui un pigmeo del Congo di nome Ota Benga viveva circondato da primati (oranghi e scimpanzé), esibendosi anche nel tiro con arco.
Queste esposizioni di “altre umanità” diventano la prova scientifica dell’esistenza dei “sotto-uomini” e la traduzione visiva del darwinismo sociale imperante alla fine dell’Ottocento, specialmente quello divulgato dall’antropologo francese Georges Vacher de Lapouge (1854-1936), convinto dell’importanza del fattore razziale nell’evoluzione della civilizzazione e promotore dei concetti darwiniani di “selezione naturale” e “lotta per l’esistenza”: lo stato in cui erano presentati (rinchiusi in gabbie o recinti) e la netta differenza fisica non solo non creò nessun senso di pietà degli spettatori verso quegli esseri umani, ma rafforzò l’idea della netta superiorità dell’europeo sugli altri popoli. Questi spettacoli non solo accontentavano la curiosità della gente comune, ma servirono come “materiale” di studio per numerosi scienziati dell’epoca di tante discipline (anatomia umana, antropologia, etnografia).
La fornitura del “materiale” da esporre si ingrossava man mano che le conquiste coloniali si ingrandivano. Dall’iniziale imprigionamento ed esposizione forzata, le persone esibite diventano comparse pagate, truccate rispecchiando gli stereotipi in vigore, obbligate da contratto a indossare abiti tipici, vincolate a comportarsi secondo le regole stabilite dai direttori di queste mostre.
La deumanizzazione delle persone messe in mostra continua anche dopo la loro morte, spesso avvenuta per malattie e maltrattamenti. Infatti, alcuni di loro vengono sezionati per essere studiati, altri frazionati per essere conservati in barattoli poi esposti nelle teche dei musei etnografici europei e nord-americani.
Finito il secondo conflitto mondiale gli zoo umani scompaiono per sempre e al loro posto nascono le esposizioni universali, l’Expo. Si passa così dalla visione del selvaggio feroce a quella più culturale. Infatti, sono ricreati villaggi etnici all’interno dei vari Expo, in cui sono in vendita i prodotti della tradizione locale e le persone sono veri e propri intrattenitori pagati che si prestano a riproporre le usanze e i modi di vita del loro Paese natio con canti e balli tipici. Al termine della giornata fieristica, infatti, queste persone sono libere di girare per le città e di ritornare all’albergo dove alloggiano.
La famosa foto in cui è ritratta una bambina a cui viene data una banana è stata scattata nel 1958 proprio all’Expo di Bruxelles, durante l’esposizione universale dal 17 aprile al 19 ottobre. Spesso è usata erroneamente per incolpare di razzismo, ma la bambina congolese era parte di un gruppo di persone pagate per rappresentare gli usi e i costumi di un villaggio del Congo. Cerco, il gesto della donna che porge la banana alla bambina è da ribrezzo e spiega la mentalità razzista mai spenta.
Tra tutte le storie delle persone strappate dai loro villaggi, spiccano le vicende umane di due inconsapevoli protagonisti: Saartjie “Sarah” Baartman e Ota Benga.
Saartjie Baartman, nome europeizzato in Sarah, era una donna di etnia khoikhoi, un gruppo umano dell’Africa sudoccidentale, altrimenti noto come etnia ottentotta (termine che deriva da hottentots che nel dialetto olandese vuol dire “balbuziente”, per via dei suoni della loro parlata).
Saartjie nasce nel 1789 nelle vicinanze del fiume Gamtoos nell’odierno Sudafrica. Probabilmente il suo vero nome è un altro, ma è chiamata Saartjie, “piccola Sarah” in dialetto afrikaans, appellativo affibbiato per via della sua piccola statura da una famiglia di boeri per la quale ha lavorato.
Saartjie dalla nascita soffre di un’anomalia genetica oggi chiamata steatopigia, un carattere somatico consistente in ipertrofia o iperplasia delle masse adipose dei glutei e delle cosce, insomma aveva natiche molto prorompenti. Rimasta orfana in tenerissima età, appena adolescente va a lavorare come domestica presso le famiglie di europei di Città del Capo. Tra i suoi datori di lavoro c’è il famoso schiavista Peter Cesars. Saartjie è comunque sempre una donna libera, seppur assoggettata dai suoi datori di lavoro.
William Dunlop, un chirurgo militare scozzese amico di Hendrik Cesars, nuovo datore di lavoro di Saartjie e fratello dello schiavista Peter, la convince a seguirlo in Inghilterra per esibirsi in spettacoli esotici e guadagnare un po’ di soldi.
La “piccola Sarah” si imbarca per l’Europa nel 1810 con William Dunlop e Hendrik Cesars. A Londra Dunlop riesce a ottenere un contratto per esporre nella sala egiziana di Piccadilly Circus la ragazza con l’appellativo di “Venere nera”. Il 24 novembre 1810 Saartjie è mostrata per la prima volta ai londinesi.
Tuttavia, in virtù dello “Slave Trade Act”, che aveva reso illegale nel 1807 la tratta degli schiavi, lo spettacolo è interrotto e la questione se Saartjie fosse stata costretta a esibirsi o l’avesse fatto di sua spontanea volontà è rimessa ai giudici. Non sappiamo cosa dice Saartjie ai giudici, fatto sta che questi decidono il prosieguo del suo “spettacolo”, poiché la ritengono una donna libera e la sua esibizione frutto della sua volontà.
Questa vicenda è tutta a vantaggio di Dunlop, poiché crea una grande pubblicità su Saartjie.
La sua peculiarità fisica dei suoi glutei, risaltata dalla bassa statura della giovane donna (di circa un metro e trenta centimetri), riporta Saartjie a “evidenti tratti scimmieschi”, come aveva stabilito il naturalista francese Georges Cuvier. Questo attira numerosi curiosi e ogni esibizione registra il pieno di pubblico. Prima di iniziare altre esposizioni, la “piccola Sarah” è fatta battezzare nella cattedrale di Manchester il 1° dicembre del 1811. Come donna libera, che ha abbracciato il cristianesimo, riprendono i suoi “spettacoli”.
Dopo Londra, Saartjie è mostrata in una fiera a Limerick in Irlanda e poi a Bury St. Edmunds nel Suffolk nell’Inghilterra orientale. Nel 1814, Saartjie è probabilmente venduta a Henry Taylor, che la porta in Francia. Taylor a sua volta è venduta a un addestratore di animali, tale Réaux, che la espone per circa 15 mesi al Palais Royal di Parigi. Probabilmente Saartjie è condotta anche sulla strada della prostituzione.
La triste vita che la donna conduceva portano la “piccola Sarah” all’alcolismo.
Saartjie ha un’altra peculiarità, che non può essere mostrata al pubblico ma attira l’interesse di scienziati. La donna, infatti, oltre alla steatopigia ha la macroninfia, ossia una rilevante dimensione in lunghezza e volume delle piccole labbra della vulva, che sporgevano di circa 8 centimetri.
Il 29 dicembre 1815 a soli 26 anni Saartjie “Sarah” Baartman muore. Non si conoscono le cause, alcuni ritengono si fosse ammalata di vaiolo, altri di sifilide o polmonite. Dopo la morte, Georges Cuvier, naturalista francese ne asporta il cervello, i genitali e l’intero scheletro, poi esposti fino alla metà degli anni settanta del Novecento al Musèe dell’Homme di Parigi.
Un libro racconta oggi la triste storia di Saartjie “Sarah” Baartman, è scritto Stephen Jay Gould e si intitola “The Hottentot Venus”. Nel 2010 l’attore, regista e sceneggiatore tunisino naturalizzato francese Abdellatif Kechiche, ne fa un film, Vénus noire (Venere nera), poi presentato alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Nelson Mandela, dopo essere stato eletto presidente del Sudafrica inizia a battersi per riabilitare e onorare la memoria, dando una degna sepoltura a Saartjie. Così nel 2002 il leader africano riesce a far ricondurre i resti mortali della donna in Sudafrica per seppellirli degnamente, dopo un funerale di Stato, in una tomba nella valle del fiume Gamtoos.
Oggi a Sarah Baartman è dedicata una municipalità distrettuale di Port Elizabeth, sempre in Sudafrica. Nella sua città natia è stata intitolata un’ala dell’università e un centro destinato a donne e bambini sopravvissuti alla violenza consumata tra le mura domestiche. Porta il suo nome: “Saartjie Baartman Centre for Women and Children”.
Ota Benga è, invece, un maschio pigmeo Mbuti originario della provincia del Kasai, attuale Repubblica Democratica del Congo. A 23 anni è stato la maggiore attrazione dell’EXPO di St. Louis del 1904. Arriva negli Stati Uniti assieme ad altri quattro “primitivi”, grazie a Samuel Phillips Verner, un missionario evangelico che operava come agente della Compagnia per L’Esposizione Universale di St. Louis. Poiché il missionario lo aveva riscattato dalla schiavitù, Ota lo segue con fiducia nel “mondo civilizzato”.
I cinque africani si esibiscono all’Expo, cantando le loro canzoni, arrampicandosi sugli alberi e compiendo altre abilità tipiche della sua tribù.
Ota aveva particolarità che attirano il vasto pubblico, accorso ad ammirare quel ragazzo primitivo “strano”: era basso (un metro e 25 centimetri) e, soprattutto, aveva i denti limati a punta, come da tradizione nella sua tribù. Questo è interpretato come segno di cannibalismo dal pubblico affluito per guardare il giovane africano.
Concluso l’esposizione di St. Louis, padre Samuel Phillips Verner riaccompagna Ota nel suo villaggio africano. Qui si sposa, ma ben presto resta vedovo: sua moglie muore in seguito a un morso di un serpente. Questo è interpretato dagli abitanti del suo villaggio come segno di stregoneria attribuito allo stesso ragazzo. Ota è costretto ad abbandonare il suo villaggio e, grazie padre Verner ritorna negli Stati Uniti nell’agosto del 1906. Alloggia nel Museo di storia naturale di New York, ma non è esposto al pubblico. Ota è libero di circolare all’interno della struttura, ma non può né uscire né farsi vedere dai visitatori.
La “clausura” forzata segna il giovane ragazzo, che inizia a manifestare comportamenti aggressivi. Il direttore del museo è costretto così a allontanarlo dalla struttura.
L’antropologo Madison Grant, capo della Wildlife Conservation Society, porta il giovane Ota al Bronx Zoological Gardens di New York. Qui, il direttore William Temple Hornaday lo mette in una gabbia assieme con gli scimpanzé, poi con un orango indonesiano di nome Dohong e un pappagallo. Inizia l’esposizione al pubblico di Ota col titolo “L’anello mancante”.
La nuova attrazione dello zoo newyorkese attira numerosi visitatori, ma gli ecclesiastici e la comunità afroamericana della città iniziano a protestare per il trattamento “animalesco” che Ota è costretto a subire.
Grazie alle proteste, il direttore dello zoo “libera” Ota e lo porta all’Howard Coloured Orphan Asylum di Brooklyn, l’orfanotrofio per bambini neri della città. Ota passa così sotto la supervisione del reverendo James Gordon. Questo si prodiga per “americanizzare” il ragazzo, facendo correggere finanche i denti.
Ota impara l’inglese e inizia a lavorare in una fabbrica di tabacco. Ma il giovane avrebbe voluto ritornare nella sua terra, cosa ormai impossibile per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ota inizia a essere depresso e a manifestare comportamenti aggressivi. Il 20 marzo 1916 il giovane Ota si toglie la vita.
Inumato inizialmente nel cimitero pubblico della città, è poi tumulato nel cimitero di White Rock a Lynchburg. Il 16 aprile 2010 gli è dedicata una targa ricordo nel perimetro della Virginia University di Lynchburg.
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Per saperne di più
N. Bancel, P. Blanchard, G. Boëtsch, E. Deroo, S. Lemaire (a cura di) Zoos humains. De la Vénus hottentote aux reality shows, edition La Découverte, Parigi 2002 (trad. it. Zoo umani. Dalla venere ottentotta ai reality show, Ombre corte, Verona 2003).
N. Kalumvueziko, Le pygmée congolais exposé dans un zoo américain: sur le traces d’Ota Benga, L’Harmattan, Parigi 2011.
G. Abbattista, Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940), Edizioni Università Trieste, Trieste 2013.
V. Domenici, Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica, il Saggiatore, Milano 2015.
R Holmes, The Hottentot Venus. The Life and Death of Sarah Baartman, Bloomsbury, Londra 2016.