GLI STATI DELLA FORESTA IN EUROPA ORIENTALE

di Aldo C. Marturano -

L’ecosistema forestale dell’immensa pianura russa è sopravvissuto grazie alle tradizioni pagane. L’uomo doveva assumersi il compito di conservare e difendere ogni entità della selva, quale che fosse, giacché la foresta era un macrocosmo vivo che ospitava fra gli altri anche l’uomo. E nessuno, uomo o altro essere, poteva danneggiarla impunemente. Da qui ebbe origine la Rus’ di Kiev e la Magna Bulgaria…

 

 

Per tutto il Medioevo gran parte degli odierni popoli europei, compresi i russi e gli affini slavi e i non slavi del nordest, sono vissuti dello sfruttamento dell’antica ed enorme foresta boreale. Oggi la selva non è più sfruttata come prima e ha “riacquistato” il suo ruolo di “polmone verde”, ma conserva nei documenti i “suoi ricordi” di aver favorito milioni di uomini a sopravvivere. Per di più, come è avvenuto nella porzione “russa” a nord delle steppe ucraine, sono nati degli Stati all’interno di essa, strettamente collegati a questo tipo di natura, e ciò a noi è sembrata una novità nella scena storica medievale europea. Non potevamo quindi prescindere dal fare un tentativo per spiegarne gli aspetti particolari e più distintivi.
A questo riguardo abbiamo subito pensato alla fondazione di uno Stato nell’Europa Occidentale come esempio e quasi automaticamente ricordando che nei secoli VIII-IX d.C. i barbari entravano e si insediavano in territori dell’ex Impero Romano non potevano essere che costoro a tentare un’impresa del genere. A quell’epoca d’altronde, lungo le marche europee orientali specialmente, individuata una città sede di vescovado, bastava accordarsi col vescovo per trasformare la regione intorno in un piccolo regno o comunque in un appannaggio soddisfacente ogni esigenza di dominio. Tutto era già predisposto secondo il modello classico conservatosi e il vescovo, da quando la chiesa aveva preso il potere dopo la scomparsa o l’inefficienza dell’autorità imperiale, si prendeva cura di tributi, tribunali, sfruttamento delle risorse, relazioni con i vicini etc.

E queste sono infine delle avventure fortunate che leggiamo per parecchie élites gotiche poiché nella Pianura Russa tali o simili situazioni non esistevano. Imperi a livello organizzativo, logistico, militare e di comunicazioni pari a quello romano non ce ne erano mai stati qui. Anzi, da lungo tempo la foresta purtroppo per ragioni ideologiche prevalentemente importate era divenuta un luogo misterioso e impenetrabile, seppure fosse il pilastro economico del mondo medievale e, come tale, se nel nordest non poteva essere trascurata in nessun budget di tipo statale come un cespite d’entrata secondario, lo stesso accadeva in Occidente dove i prodotti forestali erano negli elenchi tributari carolingi, mentre la selva rimasta in questa parte d’Europa continuava a diminuire.
La ricerca comparata con Stati localizzati in biocenosi simili in altri Paesi del mondo – pensiamo a Angkor Wat o ai Maya peraltro contemporanei alla Rus’ di Kiev, ma situati nelle foreste pluviali – ci suggerisce due tipi di sfruttamento più diffusi a livello budgetario statale e, per quanto riguarda la Pianura Russa, ambedue abbastanza ben documentati: al nord la raccolta e la caccia all’interno della selva e al sud ai margini della selva la coltivazione agricola sedentaria.
Quest’ultimo modo di vivere – parliamo meglio di orticoltura – risulta da secoli la più conveniente e per di più, superata Kiev verso sud o dopo la confluenza del Kama nel Volga sempre a valle di questa seconda corrente, esiste un’ampia fascia di suolo a loess che con la sua fertilità ha permesso nei secoli passati di essere coltivato con attrezzi primitivi, con rese sufficienti a far vivere comunità fino a 200 persone. Se colorassimo di rosso i raggruppamenti agricoli su una carta geografico-storica dei secoli XI-XII d.C. noteremmo tante piccole macchie vermiglie intorno a un mare verde di alberi, ma noteremmo pure l’assenza di grandi conglomerati abitati.

Dal folclore contadino della Pianura Russa, che possiamo includere in quello paneuropeo perché analogo nei contenuti alle favole e alle epopee della foresta note nel resto d’Europa, sappiamo che l’ecosistema forestale era percepito sovente come una minaccia incombente, essendo infestato da esseri non troppo umani e persino non umani sotto forme fantastiche di animali feroci, mostri e folletti. Con tali presenze nell’ambiente silvicolo la tradizione pagana avvertiva che occorreva patteggiare onde evitare assalti mortali allorché l’uomo volesse addentrarvisi. Vuol ciò forse dire che esistesse una fondamentale ostilità fra chi viveva intorno o nella foresta e gli altri esseri viventi della selva che, altra tipicità da segnarsi, erano considerati per nulla inferiori in sentimenti e intelligenza agli uomini? E fra sedentario e raccoglitore-cacciatore esistevano altrettante differenze nel comportamento di fronte alla selva visto che il primo era ancorato ai terreni che coltivava mentre il secondo andava e veniva da posti diversi?
Le ricerche di antropologia culturale ci dicono che i rapporti fra gli uomini e il resto della biocenosi erano antropomorfizzati e rafforzati dalla religione. In altre parole, entrare, uscire e vagare nella selva richiedeva non solo un rispetto dell’uomo verso gli animali, ma anche e soprattutto viceversa. Nel Medioevo si attribuivano agli altri esseri viventi dei tratti, dei comportamenti e delle proprietà fisiche che appartengono alla sfera dell’umano e perciò ci si aspettava reazioni e sensibilità narcisisticamente umane. Si istituirono persino tribunali che giudicavano e condannavano gli animali per certe offese come ladrocinio o stupro e, alla stessa stregua, si credeva nell’efficacia delle benedizioni o delle maledizioni per punire piante e terreni colpevoli di avere avvelenato o affamato consapevolmente la gente.

Vladimiro Monomaco si riposa dopo una caccia

Vladimiro Monomaco si riposa dopo una caccia

La caccia, ad esempio, era una guerra vera e propria fra esseri viventi di pari dignità e c’erano animali ostili o ribelli da combattere o insidiare e a cui l’uomo dichiarava guerra “di difesa” con pieno diritto. Altri erano invece considerati animali amici e andavano risparmiati e in caso di comportamento non conforme il cacciatore era obbligato a fare ammenda pubblica. Nel suo famoso Insegnamento (Poučenie) Vladimiro Monomaco, sovrano della Rus’ di Kiev del XII secolo, raccomanda proprio ciò quando scrive dei suoi scontri con tori selvaggi, cinghiali e alci nelle sue numerose cacce nei dintorni di Černigov. Anzi, dipinge il tutto glorificandosene come se avesse intrapreso campagne di guerra contro dei nemici umani e le avesse spesso vinte. Un altro confronto caratteristico in senso antropomorfico e che nel Diritto Russo (Russkaja Pravda, che rifletteva i rapporti sociali presenti nella Rus’ di Kiev dei secoli XI-XIII) chi catturava un castoro e lo rivendeva, scoperto rischiava la multa di 12 grivne ossia una somma uguale all’indennizzo dovuto per l’assassinio di uno schiavo!
E a questo punto la nota finale va fatta: antropomorfizzare significa riconoscere gli altri viventi (insieme con certi corpi inerti naturali) alla pari con l’uomo come membro componente della stessa biocenosi. Di conseguenza si attribuiscono ai non umani espressioni, gesti, linguaggi che l’uomo traduce come se fossero uguali ai suoi e perciò, arrogarsi una superiorità per richiedere un rispetto maggiore per la sua cultura e in omaggio ai suoi usi e alle sue necessità diventa un’operazione conflittuale per la conquista della preminenza dell’uomo sul resto del creato.

Ma che ruolo hanno le diverse religioni presenti nella Pianura Russa medievale in queste battaglie di vita nello stimolare o giustificare le ostilità o l’amicizia fra uomini e selva vivente?
La linea di demarcazione fra il comprensibile naturale e il sovrannaturale incomprensibile è molto labile e in continua mutazione in ogni comunità umana. Soprattutto però nel Medioevo il materiale e l’immateriale condizionavano pesantemente i modi di vivere degli uomini e le fantasticherie mescolate con le esperienze scientifiche reali degli antenati si conservavano gelosamente raccolte nei vari Paganesimi. Queste credenze per conquistare l’ambita preminenza dell’uomo sul resto del creato consideravano obbligatori svariati riti religiosi da celebrare accuratamente nel tempo e nello spazio.
Facciamo allora un confronto: che cos’e la foresta per un cristiano? Una concessione divina all’uomo di buona volontà che ne può far ciò che vuole e quando gli serve. Gli altri esseri silvicoli? Demoni nemici di cui ci si libera facendosi il segno della croce. Insomma l’uomo medievale dell’Europa battezzata aveva assimilato i modi di vedere “cristiani” ed era perciò costretto a convivere sempre all’erta contro le abominevoli entità che il mondo “silvicolo” scatenava.

Dove però la religione cristiana non era ancora penetrata, vedi il nordest, l’obbligo insegnato dalla tradizione era di prendere su di sé il dovere di conservare e difendere ogni entità della selva, quale che fosse, giacché la foresta era un macrocosmo vivo che ospitava fra gli altri anche l’uomo, e nessuno, uomo o altro essere, poteva danneggiarla impunemente. Non solo. Secondo il credo pagano certi atti parzialmente distruttivi di piante o di animali o fatti sul suolo stesso, come costruirsi una casa o scavare un pozzo nella foresta, erano in ogni caso da espiare con sacrifici cruenti come affogamenti di uomini già condannati a morte o con lo sgozzamento di bimbi infanti…
Il fatto grave e che il Cristianesimo, giunto nel nordest molto tardi, a partire dal X secolo, si era da tempo trasformato in un durissimo antagonista delle credenze autoctone e aveva fatto in modo di obliterarne ogni ricordo ricorrendo persino alle armi. Se però l’operazione anti-pagana sembrava riuscita in Occidente, qui nel nordest il Paganesimo resistette e non risultò – neppure ufficialmente – mai morto. Purtroppo si è salvato pochissimo dei riti e delle credenze antiche e, per quanto è possibile differenziarlo, si può soltanto definire come esistente e ancor vivo un generico credo pagano cui si dà in ambiente slavo-russo la denominazione di “Religione degli Antenati”.
I documenti di fonte ecclesiastica (comprese le cronache) elencano nella regione kievana e nelle regioni millantate come soggette alla Rus’ di Kiev gli Slavi, che praticavano, pur con l’avvento del Cristianesimo, cerimonie pagane esecrabili nei rispettivi contesti culturali. Si indicano fra gli altri i Radimici, i Vjatici, i Severjani e si scrive di riti, sacrifici e tabù vari. I riti erano di tipo orgiastico e nelle feste sacrificali, compresi i riti funebri, si mangiava e si beveva e si indulgeva in balli e canti osceni. Si lamenta persino l’uso profuso del legno in pire e falò, nell’intagliare oggetti sacrificali e talismani quasi con l’intento di limitare un’attività deforestante non necessaria.

Fra i riti propiziatori da farsi nella selva c’era persino l’accoppiamento umano con femmine di animali o rito della copula bestiale; lo vogliamo ricordare poiché serviva non solo per assicurarsi delle prede di caccia, ma perché presso i popoli silvicoli – dal Pacifico all’Atlantico, dalla Siberia al Canada – gli animali selvatici erano venerati come i capostipiti – totem – di gruppi umani o di intere nazioni.
Il rapporto con i totem era di stretta parentela come è già facilmente deducibile da ciò che abbiamo scritto poc’anzi sull’antropomorfizzazione, e in ogni caso con i medesimi e profondi sentimenti d’amore e di venerazione. Ancora oggi la “Religione degli Antenati” rinnova il rispetto per i totem come se trattasse di parenti e di agnati di una grande famiglia, sebbene oggi tali simulacri si presentino (alcuni!) nelle sembianze di santi cristiani.
In conclusione, fra materie prime e risorse alimentari più le aree nuove da coltivare o da sfruttare per la raccolta e la caccia, la foresta restava soggetta alla decimazione della fauna e della flora, violenze al bioma.

Se facciamo adesso il punto, le genti che abitavano la Pianura Russa si possono dividere su base economica in tre grossi gruppi: 1. I Raccoglitori-cacciatori concentrati nel settentrione in un clima insolito e non molto favorevole a una vita di abbondanza, dove si percepisce un desiderio latente di evitare di accrescersi nel numero di consumatori e si e spinti a emigrare a sud. 2. Gli Agricoltori (o meglio gli Orticultori) concentrati a sud nella zona con stagioni differenziate, sono favoriti nell’accumulo delle risorse alimentari e sono già in aumento demografico. 3. I Nomadi-pastori concentrati nelle steppe del sud, più inclini al commercio e allo scambio.
È possibile dare un’identità etnico-linguistica a ognuno di questi tre gruppi? In realtà no, perché le situazioni descritte non lasciano molte tracce materiali verificabili con certezza nell’archeologia.
È certo invece che nel lungo termine gli Agricoltori diventano l’obbiettivo militare, religioso e culturale degli altri gruppi. Come mai? Nelle ricerche sulla conflittualità interetnica nel mondo di ieri e di oggi emerge che i nomadi-pastori sono inclini a un’aperta aggressività verso i sedentari fino a scivolare nel conflitto. Se però la situazione geografica e i contatti sono troppo irritanti il nomade-pastore mette semplicemente da parte l’aggressività e si scarica in fastidiose razzie e scaramucce. Al contrario gli agricoltori preferiscono reprimere l’aggressività e scaricarla nella magia, nell’incantesimo e in simili fatture, una volta individuato il nemico. Per quanto poi riguarda i raccoglitori-cacciatori, se per costoro lottare in armi era l’ultimo ricorso da adottare contro l’intruso, notiamo che, essendo la loro presenza maggiore fra la tundra e la taiga, il contatto con chi veniva dal sud costituiva l’unica via alla conoscenza del resto del mondo.

Tuttavia per i nomadi c’e una particolarità da sottolineare: sono degli importanti attori nell’evoluzione culturale etnica tramite gli atteggiamenti a loro peculiari. Queste genti (in grande maggioranza da molti secoli turcofone) si offrono volentieri alle migrazioni che diremo: 1. Positive, se sono aggregazioni di vecchi clan che nel porsi in movimento conservavano l’identità etnica d’origine. 2. Negative, se combinano l’abbandono del territorio finora occupato con le tradizioni anch’esse da lasciare dietro le spalle. In tal modo, un trasferimento previsto senza ritorno spesso presuppone un conseguente cambio di identità personale ed etnica. Presso di loro – e non presso i sedentari – pertanto si verificavano le condizioni per nuove etnogenesi al di la delle invasioni barbariche devastatrici tanto temute dalle società conservatrici d’Occidente.
Meno duro invece era lo scontro degli Slavi a nord poco sotto il Circolo Polare Artico coi cacciatori-raccoglitori, fra cui gli Ugro-finni che prevalevano in numero di etnie piuttosto che in numero individui. Con loro accadeva che in certe zone eliminare alberi e arbusti significava causare l’emigrazione o l’estinzione di una parte della fauna e della flora e danneggiare cosi gli interessi vitali del pur raro abitante umano in questione che giudicava indispensabile per la propria esistenza (compreso il lato economico dello scambio di risorse) che la foresta rimanesse integra. Dunque nessuna deforestazione, quantunque limitata essa fosse da parte di contadini giunti da chissà dove. Nelle favole e nell’epica nordica si trova la diffidenza e l’ostilità rancorosa verso chi viene a stabilirsi in modo permanente in aree poco abitate, ma già occupate.

R. Edgerton spiega tutto ciò col fatto che l’agricoltore risiede stabilmente in un certo luogo e ha rapporti stabili con i vicini, ad esempio raccoglitori-cacciatori, ma sfugge il conflitto preferendo deviare l’aggressività verso obiettivi terzi possibilmente remoti e irraggiungibili. Teniamone conto una volta accettato un modello di questo genere pure nel caso della Pianura Russa, poiché l’agricoltore che conosciamo nella foresta boreale europea non è poi così costantemente sedentario. Quando si esaurisce il vecchio terreno, ne deve cercare un altro da mettere a coltivo. Ne sceglie a caso ai margini o nelle radure fuori o dentro la foresta. La scelta (i documenti del VII secolo attribuiscono tali modi di fare agli Slavi, noti come spericolati contadini) ricadeva su quei suoli che davano delle rese eccezionali.
Quali suoli? Guarda caso nella Pianura Russa esistevano aree di passaggio dalla selva alberata alla steppa: le cosiddette Terre Nere (Černozjom) o Terre a loess, ossia suoli di un’argilla tipica capaci di ospitare e nutrire un bioma fatto soprattutto di una ricca vegetazione erbacea.

E qui sorgevano i dissapori e le contraddizioni della Rus’ di Kiev a cui accenniamo brevemente qui di seguito.
Le Terre Nere mantenute a pascolo stagionale, immediatamente e senza fatica alcuna, erano contese fra i nomadi pastori della steppa e gli Slavi agricoltori, i quali ultimi le vedevano esclusivamente da convertire in campi coltivati quando occorreva terreno vergine. Temendo così le ritorsioni nomadi, i contadini a sud di Kiev o di Černigov invocavano da questi centri l’intervento degli armigeri, ma poi erano costretti a mantenere questi armati per tempi indeterminati causando danni ai coltivi molto maggiori di una razzia nomade. Se poi passare di campo (vecchio) in campo (nuovo) è una provata realtà migratoria seppur periodica e scontata degli Slavi, dove si trovavano costoro prima che nascesse la Rus’ di Kiev? E come mai, altresì con tale regime di vita, con quali mezzi, materiali e immateriali, si affermarono come etnia prevalente su tutte le altre nel Medioevo Russo? Non toccheremo qui l’argomento “origine degli Slavi” poiché ora ci interessa altro e cioè capire se e per quanto possibile, dove quando e perché nasce uno Stato nella foresta e, se non soltanto agli Slavi, a quale dei tre gruppi sopra descritti possa essere più appropriatamente attribuibile una nuova realtà politica.

Vediamo meglio. Uno Stato nasce non appena si verificano certe condizioni minime di base: 1. Un’élite alla ricerca di dominio 2. Un territorio abitato 3. Una teoria dello Stato e della sua amministrazione 4. Mezzi materiali per mettere in pratica funzionante il progetto.
E quando possiamo dire che uno Stato è funzionante e registrabile come tale nei documenti di 1000 e più anni fa? Non ci sono criteri ben fissati, ma, se la storia antica scritta può insegnarci qualcosa a riguardo, riusciremo a riconoscere un’organizzazione statale non appena individueremo un’attività legislativa, come il famoso codice del babilonese Hammurabi (Hammu- Rapi, 1792-1750 a.C.). In conclusione dovremmo aspettare che l’élite che vorremmo riconoscere a capo della Rus’ di Kiev acquisisca la scrittura e assimili l’abitudine di fissare regole e leggi per iscritto e cioè, sebbene con parecchie riserve, arrivare all’epoca di san Vladimiro.
E prima di san Vladimiro quale gruppo di persone autoctone o immigrate, fra quelle che abbiamo conosciuto finora, deteneva un progetto statale? Purtroppo non troviamo raccontato tutto come vorremmo e dobbiamo ridurci a dare uno sguardo – dove possiamo – alle élites che ambiscono al potere già a partire dal VII secolo d.C. nella Pianura Russa.
Ne troviamo parecchie accennate nei documenti, ma un’élite – teniamolo ben presente – vede sé stessa favorita a ritagliarsi uno dominio/stato soltanto se sa come risolvere i suoi problemi economici. Subito dopo deve assicurarsi la sopravvivenza.

Partiamo dalla sussistenza, che oltre alla selvaggina – richiestissimo cibo carneo che gli dei concedono peraltro ai nobili e ai plebei permettendo loro la caccia nella foresta – ha bisogno soprattutto delle granaglie/cereali e cioè del prodotto dei contadini. Non c’e scelta. Nell’assurgere al potere in un territorio, i primi ad essere sottomessi e obbligati a produrre un surplus non tanto in risposta alle loro proprie esigenze di consumo quanto come contributo alle velleità di un nuovo potere sono appunto gli agricoltori… una volta posti in condizioni di sudditanza.
Ed ecco un problema peculiare per uno Stato nella Pianura Russa: localizzare il contadino.
La realtà trasmessa dai documenti è di famiglie di una decina di persone che ogni 8-10 anni lasciano il vecchio insediamento perché il terreno si è esaurito e migrano alla ricerca di una nuova radura nella selva da trasformare in nuovo villaggio. Il vecchio abitato è abbandonato e a volte cancellato dalla memoria collettiva. Con un simile regime di vita, peraltro più raro in Occidente, come fa il potere a individuare e a raggruppare i propri sudditi intorno a sé quando non riesce a legarli alla terra? La Pianura Russa è priva di strade romane che penetrano nei territori più impervi e ha un clima continentale severissimo, con superfici ghiacciate e neve che dura per molti mesi, per cui un eventuale censimento è assolutamente impraticabile persino muovendosi lungo i fiumi con la bella stagione. In primavera si forma fra neve sciolta e terriccio una fanghiglia spessa che dura mesi e fa perdere la strada. Addirittura, nel caso in cui un villaggio già individuato e sottomesso si rifiuti di pagare il contributo, come si fa a muovergli contro una spedizione punitiva?

E non solo. La prossimità geografica indelebile con la steppa causa nuove e diverse circostanze per un insediamento statale nuovo, in quanto la percezione della vita qui non è solo di quella dell’uomo, ma pure di quella dei capi di bestiame che dipendono dal foraggio di cui gli animali si nutrono. Inoltre élites tradizionali al governo esistono anzitempo fra i nomadi, ma logicamente hanno interessi opposti a quelli della Rus’ di Kiev e alla fine per forza di cose le ostilità e le divergenze col dikoe polje (in russo e il nome comune che si da alla steppa e ai suoi abitanti e significa “campo non coltivato”) saranno perenni con conflittualità a volte costose in termini ideologici per la storia kievana.
Se ciò costituisce uno dei punti deboli della Rus’ di Kiev, non si può dire che al nord regni la pace assoluta nella gestione dei territori. Grande Novgorod, città-stato legata in qualche modo a Kiev e che appare tardivamente sulla scena (ca. 930 d.C.) con un tipo di élite di carattere oligarchico e repubblicano, ha a che fare con i ripetuti tentativi di conquista degli scandinavi dal nord e di Kiev dal sud.
Qui giunti, abbiamo dato una prima sommaria distinzione fra le topiche da affrontare, sebbene abbiamo preferito introdurre senza indugi quei problemi che saltavano subito agli occhi di chi si ingegnava a stabilire un dominio. Siccome poi la nostra ricerca si focalizza sulla Rus’ di Kiev, è comprensibile che l’attenzione si rivolga al faro di civiltà più prossimo: Costantinopoli e, in modo più sfocato, all’Impero Carolingio. Questi think-tanks dell’epoca, non appena l’élite kievana fu in grado di scegliere e optare per un suo Stato slavo-russo, diventarono i fornitori di consigli e di benvenuti consulenti militari. Ma l’élite ora kievana non avrebbe dovuto portare con sé un minimo di tradizioni/ideologie, viste le diverse componenti etniche nel coacervo della Pianura Russa? E la composizione etnica è un fattore di legittimazione importante di qualsiasi élite che aspiri al potere nella Pianura Russa. Fra il VII e il IX sec. abbiamo vari centri i cui sviluppi possono far pensare a embrioni di Stati possibili già osservandone i resti archeologici, sebbene sia in realtà difficile disegnare delle originalità nell’esercizio del potere se i modelli sono altrove.

Il problema maggiore nella nostra ricerca è che essa si basa su documenti scritti nell’arco di tempo del Medioevo europeo e questi scritti portano schemi che si rifanno sempre e comunque alla religione cristiana. Questa prescrive che un’organizzazione di uomini si possa definire Stato se ha ottemperato le condizioni minime costitutive riconosciute dai canoni contenuti nelle Sacre Scritture. Dunque deve essere un’autorità suprema cristiana a permettere che uno Stato nuovo entri nel Commonwealth cristiano e, siccome questa accoglienza è indispensabile specie per i contatti economici, la Rus’ di Kiev, quando si farà avanti, non può che essersi costruita su queste basi. Ritorneremo sull’ultimo punto, adesso però entriamo in questioni un po’ più tecniche.
In primo luogo uno Stato modifica l’ambiente con la sua presenza e se l’ambiente muta, lo Stato deve pure mutare o scomparire. Per questi motivi la conoscenza del territorio e dei suoi abitanti è fondamentale. Qual è allora la percezione che il sovrano ha del suo dominio? Se Carlomagno può usufruire di strade solide e usare cavalli e carrozze, l’élite slavo-russa di regola non viaggia come lui né dispone di ministri itineranti da mandare in giro e l’unica porzione di territorio che frequenta è la parte di foresta dove va a caccia e conosce il tratto di fiume che percorre per andare a trovare i parenti più vicini. Intanto l’uso del cavallo gli è d’impiccio, ma di cammino a piedi neppure a parlarne. Anzi, muoversi a piedi è una maniera di spostarsi degradante riservata ai mercanti o agli ecclesiastici di rango minore.

Giusto per fare un paragone, vale la pena rammentare che il servizio di posta (e quindi la trasmissione di ordini) lungo le strade romane a cavallo o il yam (posta tataro-mongola del XIII secolo, sempre a cavallo) nelle steppe euroasiatiche metteva in rapida comunicazione i capi con le loro truppe o il sovrano con gli informatori mandati in ricognizione in territorio nemico. Tutto al contrario avveniva nelle “strade” della foresta, cioè lungo i fiumi. Il tempo di percorrenza (nella buona stagione) nel senso della corrente è diverso e molto minore che non controcorrente per cui le distanze per un viaggio o per una campagna militare sarebbero in ogni caso complicate da pianificare e, come si usa, da misurare in più giornate di navigazione, oltre ai trasbordi sugli spartiacque con i disagi relativi in barconi da caricare e scaricare. Ci sono poi le stagioni e le gelate delle correnti da prevedere…
I corsi d’acqua servono poi da confini del dominio, che però sono concepibili – e questo è un aspetto peculiare della multietnicità della Pianura Russa – soltanto come frontiere etniche e in parole più semplici: Su questa riva ci sono io e i miei (russo moi) e su quella riva ci sono gli altri non-miei (in russo ne-moi) che non parlano la mia lingua. Gli altri perciò sono degli estranei (in russo čužoi) e forse anche nemici≫. Altro è invece riconoscere il dominio sull’altra riva di un sovrano rivale.

È sorprendente persino pensare che, se in Occidente da un monte o da un’alta collina è possibile contemplare il proprio dominio con un’occhiata circolare, qui nella Pianura Russa monti non ce ne sono e le colline si elevano a altezze relative al suolo di massimo 100 m, da dove si vede un mare di foglie e basta! Fili di fumo che indichino case abitate? Inutile cercarne poiché le case russe (izba) non hanno comignoli!
In uno Stato si governa, cioè si comanda per incombenze diverse altri uomini e, se i Varjaghi nei primi incontri con i locali si erano presentati come coloro che avrebbero difeso la comunità dalle incursioni di altre bande pure varjaghe, ora che la Mafia Varjaga è al vertice del suo Stato che percezione ha dei sudditi? Abbiamo scritto che un problema peculiare dello Stato slavo-russo è quello di localizzare (e di contare) i sudditi, per cui nei documenti e nel folclore per il sovrano, non sapendolo riconoscere, un suddito è simile al suo cane o al suo cavallo. Non gli si parla a lungo perché chissà che lingua usa, lo si comanda attraverso persone fidate e lui obbedisce oppure lo si batte, se osa negarsi. Nome? Provenienza? Attività? Per il sovrano sono dettagli inutili… È questa una concezione aristocratica tipica “russa” che si ritrova persino nella letteratura dell’Ottocento e che creerà la patetica figura ben nota fino al XVI secolo del povero burlak, un tragico uomo-strumento che alava i barconi dalle rive dei fiumi controcorrente legato agli altri “colleghi”. Se cadeva tramortito per la fatica, era lasciato sul posto mentre gli altri proseguivano sotto le sferze del knut (frusta con nodi russa) del caporale!
Il quadro che si disegna è triste, ma era la realtà del Medioevo e non solo del Medioevo Russo.

Lo Stato comunque alla fine non può mancare e i modelli da imitare almeno al principio non sono molti, anzi! È uno solo: l’Impero Romano. L’ideale di sovrano? L’Imperatore che risiede a Costantinopoli. Visto che Roma ha prodotto in copia regni e regnucoli nel mondo slavo dell’Europa Centrale, diamo allora un’occhiata alla soluzione esemplificata dalla figura dell’Imperatore romano-cristiano. Il personaggio si afferma essere investito del potere su genti e paesi da un dio superiore invincibile, è padrone del mondo e condivide tale potere col rappresentante di quel dio ossia col capo religioso, Patriarca o Arcivescovo, ideologo depositario del sistema cristiano destinato a controllare che tutto fili secondo i canoni divini “rivelati”.
Alcuni varjaghi assaporeranno, stando a servizio personale di questo tipo di monarca, come funziona il sistema imperiale e il passo è facile nel decidere di emularlo. In questo e solo in questo risulta perciò allettante per un pagano adottare il Cristianesimo. Una volta ingaggiati nella guardia imperiale si era ben pagati e, se le condizioni lo permettevano, era possibile anche ricevere vita natural durante una piccola marca di frontiera da cui, se arrideva ulteriore fortuna, ci si poteva costruire un piccolo dominio quasi indipendente. D’altronde l’avventura varjaga auspicava giusto questi esiti, ben noti per i Germani di Sassonia o di Baviera (i famosi ducati etnici). Tutto il resto, cioè come accettare e mantenere il controllo ideologico (religioso) gestito dagli indispensabili preti di Costantinopoli appariva un corollario di passi non troppo difficili. Addirittura, fra i Goti sporadicamente qui e là presenti in territorio in parte slavofono – l’odierna Polonia, ad esempio – la variante “ariana” del Cristianesimo aveva già fatto dei proseliti e un goto ariano era ormai tollerato anche al potere, come abbiamo accennato.
In breve, se tale sistema funzionava da secoli, perché non riprodurlo in misura magari minore nella foresta russa? Roma sul Bosforo ha i migliori esperti per dire come fare ed è pronta a offrirli alle élites che vorranno seriamente di aderire al Commonwealth Cristiano.

E il progetto bulgaro perché era fallito? L’esempio di Stato creato da Costantinopoli (per noi è l’esempio importante) e cioè la Bulgaria nota nei documenti imperiali col nome Magna Bulgaria, sotto la guida per oltre un cinquantennio del khan Kubrat, alla morte di quest’ultimo si era disfatta. E il passato bulgaro (VII sec. d.C.), è da notare, si era articolato giusto intorno a Kiev multietnica e avvertiva chiaramente che rimpiazzare le ideologie religiose era e restava un’operazione oltremodo delicata. La compagine statale nuova ai confini dell’Impero era stata affidata infatti al personale ecclesiastico mandato da Costantinopoli affinché si propagasse e si affermasse il Cristianesimo che, consolidando il potere di Kubrat, eliminasse la minaccia bulgara.
La religione cristiana aveva i suoi metodi sperimentati da secoli, che prevedevano riti e feste con la partecipazione obbligatoria dei sudditi. I riti e le feste richiedevano luoghi appositi, cioè le chiese dove celebrare e (in greco Case di dio) da disseminare nel territorio in numero sufficiente. Questo era il tradizionale compito/lavoro della chiesa e, costruendo il consenso dei sudditi persino quando il credo cristiano si trovava in forte contrasto con le credenze pagane locali, restava l’unico pilastro sul quale si rafforzava il potere reale del sovrano.
Ad esempio, all’inizio si costruirono le chiese a spese del potere, ma poi si erigevano con le corvees imposte ai locali e fra i Bulgari non si accettava volentieri che Dio (in turco-bulgaro Tenri) che abitava nel cielo o nella natura della selva e delle montagne, si facesse costruire una casa dall’uomo. Comunque sia era importante creare nei battezzati il senso di appartenere a un gruppo eletto, a una nazione che contava e nei riti si ripeteva all’infinito il nome del sovrano che aveva costruite le chiese date in consegna ai sudditi come luogo di pace e concordia.

In breve, sotto forma di ringraziamento si rinnovava e si rafforzava l’obbedienza allo Stato e alle sue leggi e il prete-parroco aveva il compito primario di andare a scovare, persino a costo della vita, gli abitati più remoti e più reconditi onde evangelizzarli negli schemi detti, non senza avervi prima costruito una nuova Casa di dio. Insomma, erano tanti gli elementi che furono o non ben compresi o sottovalutati da Kubrat, capo militare, che aveva perduto ora da cristiano ogni funzione di “padre totemico” religioso.
Quanti poi fossero questi parroci e che preparazione avessero e in quante chiese agissero fino al XIII-XIV sono dati che, almeno per la regione kievana, non possediamo, ma che l’archeologia ci avverte essere stati talmente pochi che probabilmente le tracce cristiane lasciate nella gente del medio Dnepr dopo Kubrat risultarono esigue e labili. Non solo, quando la Magna Bulgaria si dissolse, pure i piani intrapresi per l’evangelizzazione sparirono, riapparendo pero nel IX secolo presso il Patriarca Fozio, che ne elaboro di nuovi.
I Bulgari e i congeneri Cazari, finora vissuti insieme dentro l’area kievana, a questo punto addirittura aderirono a altre ideologie religiose meno totalizzanti del Cristianesimo e si spartirono il territorio delle steppe ucraine dividendosi per sempre.