GLI ITALIANI CHE NON SI ARRESERO IN AFRICA ORIENTALE, 1941-1943

di Alessandro Lo Piccolo -

La guerriglia italiana contro le truppe britanniche fu condotta da poche migliaia di soldati che rifiutarono la resa dopo la caduta di Gondar nel novembre 1941. La loro resistenza durò fino all’autunno del 1943.

57Poco si sa del colonialismo italiano. Il più delle volte l’argomento è stato oggetto di rimozioni, ad esempio le atrocità commesse da Graziani in Libia e da Badoglio in Etiopia, oppure potremmo citare il film “Il Leone del deserto” del regista Moustapha Akkad, che rievocava gli anni del colonialismo italiano in Libia. Pochi sanno che all’indomani della caduta dell’Impero italiano in Africa orientale voluto da Benito Mussolini nel 1936 e cessato nel 1941 con la caduta di Gondar e la resa del Duca Amedeo d’Aosta, i vertici dell’esercito italiano, tra cui molti gerarchi fascisti, avevano pianificato la costituzione di un movimento di resistenza per contrastare gli inglesi in Etiopia, sperando in una sua riconquista. Lo stesso era stato progettato per Eritrea e Somalia, godendo anche dell’appoggio del Feldmaresciallo tedesco Erwin Rommel, Comandante dell’Afrika Korps nonché artefice di vittoriose controffensive in Africa settentrionale contro i britannici. Nacquero dunque associazioni segrete – quali “ Figli d’Italia” e “ Fronte di resistenza” – il cui scopo era quello di organizzare la resistenza anti-inglese mediante azioni di guerriglia e sabotaggio. Protagonisti di questi eventi sono stati degli ufficiali le cui vicende sembrano uscite da film o romanzi d’avventura.

Amedeo Guillet, il “Comandante Diavolo”

Amedeo Guillet non fece parte di nessuna delle due associazioni segrete sopra accennate, tuttavia merita un ruolo di primo piano in queste vicende. Nato a Piacenza nel 1909, apparteneva a una nobile famiglia di tradizioni militari : suo padre era stato un colonnello dei carabinieri. Dopo l’Accademia militare di Modena nel 1931 divenne sottotenente di cavalleria. Per le sue doti di cavalleggero avrebbe dovuto partecipare alle olimpiadi di Berlino del 1936. Occasione sfumata per via del conflitto etiopico che lo aveva portato in Africa a comandare un reggimento di cavalieri libici, gli “Spaish”. Il 24 dicembre 1935 venne ferito alla mano sinistra durante la battaglia di Selaclaclà.
Nell’estate del 1937 è in Spagna a combattere contro i repubblicani, per il semplice motivo, come ebbe a dire più tardi, che mal tollerava l’ipotesi di uno stato iberico sotto il dominio comunista. Nel 1939 il Tenente Guillet è al comando in Libia del “ Gruppo Amhara”, formazione di cavalleria coloniale composta da eritrei e yemeniti costituita tra il 1° luglio 1938 e il febbraio 1940 per volere di Amedeo Duca d’Aosta, per prevenire azioni di guerriglia nella regione nordoccidentale dell’Eritrea. Nel 1939 in uno scontro a Dougur Dubà, privo del suo cavallo ucciso in combattimento, aveva affrontato il nemico con una mitragliatrice. Grazie a questo suo gesto di coraggio e da vero ufficiale ebbe una medaglia d’argento al valor militare.
Nel gennaio del 1941 dal Forte di Cherù ( Etiopia) gli venne ordinato di affrontare le truppe inglesi che minacciavano i soldati italiani in marcia verso Agordat. Guillet e i suoi uomini affrontarono con spade, pistole e bombe a mano le truppe avversarie blindate nella zona tra Nicotà e Barentù. Nonostante il divario di mezzi, gli inglesi si trovarono disorientati. Il prezzo italiano è stato comunque alto: ottocento tra morti e feriti e fine tragica del fidato collaboratore di Guillet, il tenente Renato Togni. La tenacia e il coraggio con cui Guillet e i suoi uomini mossero contro le forze avversarie è stato testimoniato da un ufficiale inglese.
Il 1° aprile 1941 le truppe inglesi del generale William Platt occupano l’Asmara e l’intera Eritrea. Anche l’Etiopia nella primavera del 1941 è persa definitivamente. Ad Addis Abeba, l’Imperatore Hailè Selassiè, che era ritornato sul trono grazie all’appoggio inglese, cercò di annettere l’Eritrea. L’epopea coloniale dell’Italia era ormai giunta al capolinea. Nei fronti di Libia, Tunisia e più avanti in Egitto ad El Alamein i nostri soldati assieme ai tedeschi erano ormai allo sbando.
Nonostante l’evolversi della situazione, Amedeo Guillet decise di non arrendersi e proprio in Eritrea continuò la sua lotta contro gli inglesi, facendo leva sui sentimenti anti-etiopici degli eritrei e ostentando il pericolo degli inglesi. I suoi uomini l’hanno sempre adorato e in lui vedevano un guerriero portatore di valori in cui si riconoscevano, ossia dedizione, sacrificio e coraggio. Nel corso della sua permanenza in Eritrea, per ben sette mesi, dall’aprile all’ottobre del 1941, organizzò atti di guerriglia contro il nemico, sabotando ferrovie, facendo saltare linee telegrafiche e saccheggiando depositi d’armi e convogli di treni. La sua banda era composta all’inizio da 100 uomini, divenuti poi una trentina a causa delle continue azioni belliche. La sua figura viene accomunata a quella di Lawrence d’Arabia. Da allora comincia la sua leggenda, quella di “Comandante Diavolo” o “Cummandàr es Sciaitan”. All’inizio le autorità militari inglesi attribuirono tutte queste azioni a delle bande di predoni locali o a dei fuorilegge, ma poi capirono che a guidarle era proprio lui, Amedeo Guillet, che finì schedato nei rapporti dell’intelligence e sulla cui testa cominciò a pendere una forte taglia di 1000 sterline. Autore del dossier inglese era il capo dell’intelligence in Etiopia, maggiore Max Harari. Gli inglesi gli diedero la caccia, ma i suoi indigeni non lo tradirono mai, anche perché essendo eritrei preferivano il protettorato degli italiani anziché quello etiopico.
Guillet fu fermato diverse volte: in ogni occasione dichiarava di essere uno yemenita col nome di Ahmed Abdallah al Redai e di essere rimasto in Eritrea dopo la sconfitta dell’esercito italiano. Guillet sapeva che se fosse stato catturato l’avrebbero fucilato. Trascorse la sua latitanza mimetizzandosi tra gli indigeni di un villaggio vicino l’Asmara. Più volte beffò gli inglesi recandosi sotto false spoglie al loro comando militare, fornendo false informazioni che lo riguardavano e intascando così la ricompensa. In un’altra occasione, mentre si trovava all’interno di una fattoria, la casa fu circondata dai soldati britannici. Guillet riuscì a scappare attraverso una finestra, raggiungendo la collina vicina, incurante delle grida dei soldati. Quando un sergente inglese era sul punto di sparargli, intervenne un indigeno dipendente della fattoria, dicendo che non era lui l’uomo a cui davano la caccia. Guillet, anche questa volta ebbe la vita salva. Visse però sempre da braccato, soffrendo per le febbri malariche e per i postumi delle ferite guadagnate nelle varie battaglie. I suoi uomini lo esortarono a salvarsi rifugiandosi nello Yemen, paese ostile alla Gran Bretagna e molto amico dell’Italia.
Dopo lo scioglimento della sua banda venne accompagnato da uno dei suoi ex soldati, uno yemenita di nome Daifallah, a Massaua. Qui lavorò come scaricatore, guadagnando i soldi per raggiungere la costa yemenita. Durante la traversata verso il golfo di Aden, Guillet e il suo fido Daifallah vennero scaraventati in mare dopo essere stati depredati. I due, sfidando i pescecani che infestavano le acque del Mar Rosso, ritornarono a nuoto verso l’Eritrea, dove vennero soccorsi da un cammelliere. Riuscirono a beffare nuovamente gli inglesi ottenendo un lasciapassare per poter raggiungere lo Yemen. L’impresa questa volta riuscì, anche se, giunto ad Hodeida, venne arrestato con l’accusa di essere una spia inglese. Alla fine verrà liberato dall’Imam Yahiah, molto interessato alla sua storia, tanto da nominarlo suo consigliere personale, addestratore dei suoi soldati e precettore dei suoi figli. Alla corte dell’imam rimase fino al giugno 1943, quando ritornò a Massaua, beffando per l’ennesima volta i suoi nemici di sempre. Fingendosi demente riuscì infatti a imbarcarsi su una nave della Croce Rossa, a circumnavigare l’Africa e dopo due mesi arrivare in Italia, a Roma, quando re Vittorio Emanuele III e il maresciallo Pietro Badoglio avevano già firmato l’armistizio con gli ex nemici anglo-americani. Di fronte a questi eventi Guillet si mise a disposizione del re e da Roma, dopo essere sfuggito ai tedeschi raggiunse Brindisi. Lì venne assegnato a missioni di intelligence col grado di maggiore, svolgendo missioni delicate, come il recupero nel territorio controllato dalla RSI della corona del Negus, che era stata trafugata dai partigiani della 52esima brigata “Garibaldi”. A cercare la corona erano anche i suoi ex nemici, gli inglesi che tanto gli avevano dato la caccia. Alla fine venne restituita all’Imperatore d’Etiopia Hailè Selassiè. Dopo la guerra Amedeo Guillet smise la divisa e abbracciò la carriera diplomatica.

La guerriglia delle “bande” italiane

Altri ufficiali italiani continuarono a combattere gli inglesi quando l’impero fascista era già perduto. Il maggiore Lucchetti, creatore del Fronte di resistenza ad Addis Abeba, fu uno di questi. Alla sua organizzazione militare aderirono diverse “bande”. Membri di questo Fronte furono il capitano dei carabinieri Leopoldo Rizzo, il maggiore dei granatieri Enrico Arisi, i maggiori Giuseppe De Maria e Mario Bajon. Molte bande organizzarono ribellioni contro l’autorità del Negus, come accadde a Cobbò (Eritrea) con la tribù Azebò Galla. In altre aree dell’Etiopia sud occidentale, come Caffa e Gimma, vennero organizzati atti di sabotaggio. In Eritrea, nella regione dell’Amba Auda, una centrale della Regia marina comunicava con il Maristat (Stato maggiore della marina) a Roma. Sempre in Eritrea venne organizzata una cellula clandestina che si prendeva cura dei soldati italiani evasi dalla prigionia e realizzò atti di sabotaggio. Era diretta dal capitano di marina Paolo Aloisi e da un ufficiale della milizia fascista, Luigi Cristiani. Quest’ultimo era stato catturato e condannato a morte dagli inglesi. Evitò la condanna grazie all’intervento del vescovo di Asmara.
Tutti questi ufficiali, sottufficiali e soldati, al contrario di quanto aveva dichiarato l’intelligence britannica, non erano dei “disperati” privi di programmi, bensì uomini esperti in azioni di sabotaggio. Le azioni di guerriglia condotte tra l’aprile 1941 e il maggio 1943 interessarono tutte le regioni incluse tra Etiopia Sudan, Kenia , Dancalia e il Mar Rosso. I reparti italiani meglio equipaggiati disponevano di moschetti modello 91, pistole beretta e fucili mitragliatori Breda. L’efficacia delle loro azioni costrinse gli inglesi a chiedere rinforzi supportati da mezzi aerei e meccanizzati dal Kenia e dal Sudan.
Nel febbraio 1942 nella regione del Galla Sidama (Etiopia) scoppiò una rivolta degli Azebò Galla col supporto di reparti italiani attestati nelle zone desertiche e guidati dal generale della milizia Muratori. La rivolta durò fino al 1943, cioè quando fu soppressa da truppe britanniche ed etiopiche. Altre azioni di guerriglia vennero effettuate nella zona del fiume Omo-Bottego (Etiopia), all’inizio del 1942, dove il gruppo comandato dal tenente colonnello dei Carabinieri Calderari attaccò reparti sudafricani. Analogamente in Ogaden e in Dancalia, dove gruppi di militari italiani, tra cui uomini della MVSN (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), davano filo da torcere agli inglesi con varie imboscate.
Sembra che addirittura nel maggio 1942 il Negus Hailè Selassiè intendesse (probabilmente preoccupato per gli iniziali successi delle forze italo-tedesche in Egitto e in Libia, delle armate tedesche in Urss e dei successi giapponesi in Estremo oriente) avviare delle trattative con i gruppi di “resistenza” italiani.
Quando le truppe dell’Asse vennero sconfitte ad El Alamein nell’autunno del 1942, facendo svanire una rapida occupazione dell’Egitto e da lì un’ipotetica avanzata in Medio Oriente, i gruppi “armati” italiani cominciarono a guardare in faccia la realtà. Isolati in un territorio difficile da affrontare e senza più collegamenti con la madrepatria, iniziarono ad abbandonare l’idea di una lotta ormai impari. Solamente il “Fronte di resistenza”, comandato dal maggiore Lucchetti continuava a lottare, nella speranza di un cambiamento della situazione. Ma la sua sarà un’illusione, verrà arrestato dalle autorità militari britanniche all’indomani della sconfitta italo-tedesca a El Alamein.

Una donna nella resistenza contro i britannici

Anche le donne hanno avuto un ruolo in missioni delicatissime in tempo di guerra. E’ il caso di Rosa Danielli, di cui però si sa ben poco, se non è che è stato un medico, reclutata come agente dal Sim (Servizio informazioni militare). Nell’agosto del 1942 si rese protagonista di un clamoroso atto di sabotaggio contro il più sorvegliato deposito inglese di munizioni ad Addis Abeba, facendolo saltare. Danielli sopravvisse all’esplosione, ma non alla cattura da parte degli inglesi che la internarono nel campo di Dire Daua. Rientrò in Italia nel gennaio 1943. Secondo lo storico Fabrizio Di Lalla, autore di Sotto due bandiere. Lotta di liberazione etiopica e resistenza italiana in Africa orientale, l’atto di sabotaggio in realtà avvenne la sera del 15 settembre 1941. Dopo la guerra gli fu assegnata la medaglia di bronzo al valor militare.

Francesco De Martini alias Abba Bahr

Un altro ufficiale protagonista di azioni in Africa orientale è stato Francesco De Martini. Non si hanno notizie certe su luogo e data di nascita. C’è chi sostiene, come Vittorio Beonio Brocchieri, che sia nato in Mesopotamia da famiglia di commercianti italiani, chi invece, come Giuseppe Puglisi, lo vuole nato in Siria. Gianni Ferraro ha sostenuto che era nato nel 1903. Nel 1923 era già in Italia a svolgere il servizio militare di leva in fanteria, destinato ai primi reparti carristi, da poco istituiti in seno al Regio esercito. Venne congedato col grado di caporalmaggiore. Nel 1927 venne richiamato in servizio con una missione speciale: recarsi ad Addis Abeba, dov’ era in visita il Duca degli Abruzzi, allo scopo di sostenere l’avvento al potere di Ras Tafari, reggente dell’impero etiopico(il futuro Negus Hailè Selassiè). Giunto lì, De Martini nel frattempo promosso sergente maggiore, ebbe l’incarico di addestrare le truppe etiopi, in qualità d’istruttore carrista. A Ras Tafari venne donato un esemplare del carro armato Fiat 3000. De Martini all’epoca era già stato reclutato dal SIM ( Servizio informazioni militare), per via delle sue esperienze nel Medio Oriente e per la conoscenza di quelle lingue. Il Servizio informazioni gli aveva affidato le missioni di raccogliere informazioni sulla situazione interna e di proteggere Ras Tafari.
Nel novembre 1930 la situazione ad Addis Abeba si era aggravata, perché erano scoppiati i contrasti tra la fazione che sosteneva l’Imperatrice Zauditù (morta il 2 aprile dello stesso anno) e quelli che sostenevano il nuovo Imperatore Hailè Selassiè. De Martini ebbe il comando di due carri armati Fiat 3000, i quali suscitarono una forte impressione sui rivoltosi, che furono costretti a rinunciare alla lotta, favorendo così la vittoria del nuovo Imperatore.
Nel 1935 De Martini partecipò alla campagna d’Etiopia, inquadrato nel gruppo di 350 Ascari provenienti dallo Yemen, da Somalia e Dancalia e guidati dal sottotenente Gianfranco Litta-Modignani . Questo gruppo venne costituito a Beilul (Dancalia) tra la fine del 1935 e l’inizio del 1936 ed ebbe l’incarico di conquistare Sardò, capitale del territorio dell’Aussà, l’11 marzo 1936. Per essersi distinto nell’azione bellica, De Martini venne promosso sottotenente.
All’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, troviamo De Martini capitano di fanteria e contemporaneamente agente del Servizio informazioni militare, con l’incarico di compiere missioni contro le forze inglesi che cercavano di avanzare nella regione della Dancalia. Nel luglio 1941 venne fatto prigioniero, ma riuscì a evadere e a ricontattare i comandi militari e il Sim. Con la conquista dell’Eritrea da parte inglese e con la perdita definitiva dell’Etiopia, De Martini, allo stesso modo di Guillet e di altri combattenti, decise di non arrendersi. A lui si ascrivono diverse azioni di sabotaggio, come quella del 1° agosto 1941, quando fece saltare un grande deposito di munizioni a Daga (Massaua). Per sfuggire alla polizia militare inglese dovette abbandonare l’Eritrea, attraversando il Mar Rosso con un motoscafo per raggiungere lo Yemen. Da lì, sempre in contatto col Sim e col Comando di Supermarina a Roma, usufruendo di imbarcazioni o “ sambuchi” da pesca, poteva controllare il traffico navale degli alleati lungo il Mar Rosso. Sotto il suo comando c’erano marinai eritrei, rimasti al servizio dell’Italia, i quali chiamavano De Martini “Abba Bahr” cioè “Padre del mare”. Dopo aver messo a segno diverse azioni di sabotaggio contro basi nemiche in Eritrea, il 21 luglio 1942, al termine di un’azione contro le basi inglesi sulla costa eritrea, il suo “sambuco” fu costretto a sostare a Melma, una delle isole Duaiat, lungo la costa araba, per effettuare riparazioni. Qui il 1° agosto venne sorpreso dall’incrociatore Arpha della Royal Navy, forse su segnalazione di alcuni indigeni locali. De Martini e gli altri cinque italiani dell’equipaggio vennero arrestati. De Martini trascorse la prigionia rimase nel campo di prigionia di Yol (India) fino al 1946. Rientrato in Italia continuò la sua carriera nell’esercito, divenendo generale di brigata. Nel 1957 gli fu assegnata la Croce di cavaliere dell’Ordine militare d’Italia.

Per saperne di più
Arrigo Petacco, Faccetta Nera – Mondadori, 2003
Vittorio Dan Segre, La guerra privata del tenente Guillet – Corbaccio, 1993
Fabrizio Di Lalla, Sotto due bandiere. Lotta di liberazione etiopica e resistenza italiana in Africa orientale – Solfanelli, 2016
Alberto Rosselli, Storie segrete – Luculano Editore, Pavia, 2007
Vite avventurose: Francesco de Martini, di Vincenzo Meleca in http://www.ilcornodafrica.it/st-melevite.pdf