GLI IDEALI DI LIBERTÀ DI MELCHIORRE GIOIA

di Massimo Ragazzini -

Il suo progetto di un’Italia repubblicana, libera, democratica e indivisibile influenzò Mazzini e anticipò lo stesso Cavour, in particolare sulle modalità di costruzione dell’unità del Paese. Lontano dalle astrattezze dell’epoca – siamo nel 1797 -, delineò un sistema istituzionale che coniugava il livello teorico con quello della concreta situazione politica e culturale italiana.

 

(dal n. 81, aprile-giugno 2015, di “Libro Aperto”; si ringrazia il direttore Antonio Patuelli per la gentile concessione)

Melchiorre_GioiaMelchiorre Gioia nacque a Piacenza il 19 gennaio 1767 [i] da una famiglia artigiana. A cinque anni perse il padre Gaspare, stimato argentiere, e a 13 anni la madre, Marianna. Assunse la sua tutela lo zio materno Giovanni Coppellotti, avvocato, che lo avviò alla carriera ecclesiastica [ii].
Dopo gli studi superiori compiuti nel Collegio di San Pietro, nel 1784 divenne alunno del prestigioso Collegio Alberoni, dove lo aveva preceduto Gian Domenico Romagnosi. Il Collegio piacentino, fondato nel 1732 dal cardinale Giulio Alberoni, oltre a formare il clero locale, intendeva anche aprirsi criticamente alla società e alle teorie del tempo e disponeva di un’aggiornata biblioteca con i testi più significativi dell’età dei lumi. Gioia poté così aggiungere agli studi filosofici e teologici, finalizzati al sacerdozio, anche quelli scientifici ed economici [iii].
Terminati gli studi, fu ordinato sacerdote nel 1792. Lasciato il Collegio, prestò servizio come precettore presso una famiglia della nobiltà locale. Approfondì i filosofi illuministi e si tenne costantemente al corrente degli eventi della rivoluzione francese, ai cui ideali politici di libertà e uguaglianza già aveva aderito nell’ultimo periodo della permanenza nel Collegio. Divenne poi uno dei protagonisti della nuova stagione politica aperta dall’arrivo delle truppe francesi in Italia.

Il Triennio rivoluzionario

Il Direttorio francese aveva pianificato per il 1796 un attacco all’Austria da parte di due armate attraverso la Franconia e la Svevia. Il piano originario prevedeva che una terza armata, quella d’Italia, attuasse una mera diversione, ma il suo comandante di fresca nomina, il generale ventisettenne Napoleone Bonaparte, riuscì a ottenere dal Direttorio la facoltà di attraversare la valle padana per ricongiungersi a Vienna con le altre armate. Entrato in Piemonte, in poche settimane mise  fuori combattimento le truppe sabaude, costringendo il re Vittorio Amedeo III a cedere alla Francia Nizza e la Savoia. Bonaparte si diresse quindi verso la Lombardia austriaca. Dopo la vittoria al ponte di Lodi, il 15 maggio entrò trionfalmente a Milano. In giugno le truppe francesi invasero lo Stato Pontificio, occupando Bologna, Ferrara, la Romagna e Ancona. Dopo la caduta di Mantova nel febbraio 1797, temendo un attacco su Vienna delle altre due armate, gli austriaci dovettero ritirarsi verso il Tirolo. Accettarono pertanto i preliminari di pace di Leoben, poi confermati dal trattato di Campoformio, che mise fine alla prima campagna d’Italia [iv].
La discesa delle truppe francesi in Italia non può essere considerata soltanto come l’inizio di un periodo di occupazione straniera. Per gran parte della recente storiografia, il cosiddetto Triennio rivoluzionario 1796-1799 ha costituito il punto di partenza del Risorgimento, pur nella complessità e nelle contraddizioni dei rapporti venutisi a creare fra l’Italia frammentata e sottomessa e la Francia rivoluzionaria, “contemporaneamente liberatrice e dominatrice” [v].
Coloro che avevano preso parte idealmente alla rivoluzione francese salutarono in Napoleone il portatore di una nuova era di libertà e democrazia e cominciarono a progettare un’Italia libera dalla dominazione straniera. Gli italiani, moderati o rivoluzionari che fossero, si cimentarono nella partecipazione politica attiva e svilupparono inediti laboratori di discussione e confronto, dando vita a un’esperienza di grande importanza nell’evoluzione della coscienza politica del popolo italiano.
Il significato per la nostra storia del Triennio rivoluzionario è stato efficacemente evidenziato da Italo Mereu: “La generazione che operò in Italia negli anni brucianti [del periodo napoleonico] dovrà occupare un posto di primaria importanza. Generazione ‘giacobina’, cioè rivoluzionaria, mediante la quale si operò il ‘primo risorgimento’ politico con il passaggio dalle parole all’azione, dal riformismo alla democrazia, dal cosmopolitismo alla nazionalità. (….) Il ‘primo risorgimento’ [trattò] i temi più importanti per l’avvenire politico dell’Italia: dalla libertà come fondamento dello Stato democratico rappresentativo, alla repubblica o alla monarchia costituzionale quali strutture portanti del nuovo assetto politico, all’organizzazione giuridica centralizzata oppure federalista, alla soluzione del problema religioso o a quello della parità femminile, al matrimonio civile e al conseguente problema del divorzio, per arrivare all’educazione civica – impartita a tutti gli studenti – per formare le nuove classi dirigenti” [vi].
Durante il Triennio, per la prima volta, la prospettiva dell’indipendenza e dell’unità della penisola fu al centro del dibattito delle élite politiche italiane. Furono nel contempo messi in discussione i vecchi simboli del privilegio in un vasto moto di rinnovamento promosso da minoranze audaci ed entusiaste appartenenti a diversi ceti sociali [vii].

Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia

Nel maggio 1796 Bonaparte istituì come governo per la Lombardia l’Agenzia militare, composta solo da francesi, e sottopose tutti gli atti, anche quelli amministrativi, all’intitolazione “Nel nome della Repubblica francese”, manifestando così in un primo momento una linea politica contraria alle pretese di autogoverno della classe politica locale. Tre mesi dopo, tuttavia, l’Agenzia fu soppressa e al suo posto fu istituita l’Amministrazione generale della Lombardia, organo che sarebbe cessato con l’istituzione della Repubblica Cisalpina il 29 giugno 1797.
Nel clima di vivace dibattito politico e di fioritura culturale che si era creato con la discesa in Italia dei Francesi, il 27 settembre l’Amministrazione bandì un concorso sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia, con il premio al vincitore di una medaglia d’oro del valore di duecento zecchini. Secondo Armando Saitta, non sarebbe stato estraneo all’idea del concorso lo stesso Bonaparte [viii].
Il concorso aveva la finalità di aprire un dibattito e raccogliere proposte sull’ordinamento da dare in un primo tempo alle regioni italiane nelle quali la Francia aveva esportato, sulla punta delle baionette, i princìpi dell’89 e poi, in un auspicato futuro, a tutta la penisola.
Al bando fu data un’ampia diffusione in tutta Italia, attraverso fogli pubblici e anche con l’invio a persone note per l’impegno politico e culturale. Le dissertazioni trasmesse al concorso entro il termine prescritto di due mesi furono cinquantasette. I partecipanti (oltre a sei francesi) erano originari di diverse parti d’Italia. Vi furono trenta lombardi, sette piemontesi, cinque emiliani, tre napoletani, due veneti, due toscani, due romani [ix], quasi tutti esponenti, ha osservato Carlo Zaghi, di “quelle forze che fino dal primo momento erano corse incontro ai Francesi e avevano salutato il loro ingresso a Milano e nelle città emiliane come l’inizio di una nuova era: scrittori, politici, giornalisti, militari, profughi, anche religiosi” [x]. E fu proprio a uno dei religiosi, a Melchiorre Gioia (peraltro sul punto di abbandonare l’abito talare), che il 26 giugno 1797 la Commissione giudicatrice del concorso, presieduta dall’economista e letterato Pietro Verri e composta da alcuni degli intellettuali più in vista in quel momento, attribuì il premio all’unanimità.

La dissertazione vincitrice

In questo fondamentale testo in cui Gioia affronta alcune decisive questioni politiche, è evidente l’influsso della grande tradizione del pensiero europeo tra Seicento e Settecento, con particolare riferimento a Locke. Dell’inglese Gioia accetta sostanzialmente l’impianto giusnaturalistico, mentre segue Montesquieu per quanto riguarda i princìpi della rappresentanza e della divisione dei poteri. Lo studioso piacentino, tuttavia, pur muovendosi all’interno dei paradigmi concettuali dei due filosofi, si distacca da alcune delle loro conclusioni teoriche. La stima per Montesquieu, ad esempio, non gli impedisce di criticare decisamente la sua teoria dell’interdipendenza tra condizioni climatiche e istituzioni.
Nella prima parte della dissertazione, dopo avere compiuto un excursus storico che va dal “genio repubblicano” di Roma alle repubbliche italiane del Medioevo, Gioia difende il governo repubblicano perché è governo libero e perché risponde alle esigenze di comune benessere degli uomini associati.
Il motivo essenziale nel suo pensiero politico è la scelta della forma di governo migliore per l’effettiva tutela dei cittadini da ingerenze e violazioni dei loro diritti da parte dello stato [xi], il cui ruolo deve limitarsi a quello di garante del giusto riconoscimento dei meriti individuali e della parità delle condizioni di partenza. Il potere affidato al governo deve essere limitato in estensione e in durata, in modo che siano rispettati “e la sovranità degli associati, e l’eguaglianza di ciascheduno, e l’esercizio espedito de’ loro naturali diritti; cosicché ciascuno goda della sicurezza della sua persona, della libertà nelle sue opinioni, del pacifico ed invariabile possesso della sua proprietà e della sua industria” [xii].
Gioia ritiene che questa esigenza si trovi realizzata nella costituzione francese dell’anno III (1795), perché in essa sono stabiliti gli opportuni contrappesi affinché la facoltà legislativa e il potere esecutivo non divengano oppressivi. L’orientamento di Gioia è pertanto dettato non solo da ovvi motivi di opportunità conseguenti alle contingenze storiche, ma anche da considerazioni giustificate teoricamente.
Lo studioso piacentino esamina le forme di governo che si sono presentate nella storia: monarchia, aristocrazia e democrazia. La monarchia, fondata sulla dignità ereditaria, è di per sé ingiusta in quanto viola l’uguaglianza naturale, assurda perché presuppone che le capacità per esercitare il potere siano trasmesse per eredità e, infine, dannosa perché “sacrifica la pubblica libertà all’ambizione, all’interesse di un solo” [xiii].
Ancor più netta è la condanna del regime aristocratico, che ha come caratteristica sua propria di essere nemico del “principio di uguaglianza naturale” e sembra un “muro di bronzo” che tiene divisi coloro che ubbidiscono. Gioia considera questo governo “una moltitudine di tiranni che cospirano d’accordo contro la felicità del popolo”. Pertanto lo scettro deve essere strappato di mano agli aristocratici “per consegnarlo al popolo” [xiv].
La sovranità, afferma lo studioso piacentino, risiede essenzialmente nell’universalità dei cittadini. Sono tuttavia molto gravi gli inconvenienti che emergono dalla sovranità esercitata immediatamente dal popolo: “un’assemblea popolare è il teatro in cui vengono a contesa le più grandi passioni, l’avidità degli uomini cupidi, l’interesse degli inquieti, l’orgoglio degli ignoranti, l’ambizione degli usurpatori (…) e la tragedia finisce colla comparsa d’un despota che intima i suoi ordini e tutto sottomette” [xv].
Non potendo esercitare direttamente il potere, il popolo deve scegliersi dei rappresentanti ai quali affidare “la cura dei suoi affari politici” [xvi]. I rappresentanti potrebbero abusare dell’autorità, e poiché la riunione di funzioni e poteri “nelle medesime mani s’avvicina al dispotismo di un solo”, la facoltà di fare le leggi deve essere disgiunta “dalla forza di farle eseguire”[xvii]: vale a dire che il potere esecutivo deve essere separato da quello legislativo. Gioia esamina il bicameralismo adottato nella costituzione francese del 1795 e rileva come esso sia stato regolato in modo tale da generare alcuni inconvenienti nell’esercizio della funzione legislativa, anche se riconosce l’importanza di procedimenti di approvazione delle leggi che evitino gli “effetti dell’entusiasmo e le risoluzioni precipitose”. Se si decidesse di optare per il monocameralismo, occorrerebbe accompagnarlo con opportune procedure di ‘raffreddamento’ e ‘riflessione’ [xviii].
Per evitare l’abuso del potere è necessario che le cariche elettive siano limitate nel tempo: la durata di un incarico politico deve essere inversamente proporzionale alla sua estensione e poiché il potere degli organi esecutivi (il Direttorio) è maggiore di quello degli organi legislativi, la durata in carica dei componenti dei primi deve essere minore di quella dei componenti dei secondi.
La costituzione dovrebbe anche stabilire che i membri del corpo legislativo non siano rappresentanti dei dipartimenti dove sono stati eletti, ma della nazione intera.
Pur favorevole a provvedimenti anche radicali in tema di proprietà, Gioia respinge il principio dell’uguaglianza sociale. Il popolo italiano non può immaginare “che tutti i membri della società debbano partecipare d’un’eguale quantità di ricchezze. (…) il diritto d’eguaglianza altro non richiede se non che tutti i cittadini, qualunque sia la loro professione, sieno soggetti alle stesse leggi, che le stesse virtù conducano agli stessi onori, che agli stessi delitti sia fissata la pena istessa”. La vera uguaglianza è la possibilità, concessa a tutti, di “elevarsi a qualunque dignità, purché abbiano le qualità richieste per esercitarla e che ne siano irrevocabilmente esclusi allorquando ne sono privi” [xix]. Il governo repubblicano apre ugualmente a tutti la carriera, stimolando “il merito, i talenti, le virtù” [xx]. Emerge qui nitidamente la sostituzione del privilegio del sangue con la meritocrazia.
Anche se tiene ben presenti i principi, i valori e gli elementi fondamentali stabiliti nella costituzione francese del 1795, Gioia avanza numerosi appunti, presentandoli come emendamenti migliorativi da introdurre nell’ordinamento istituzionale italiano.
In primo luogo critica la sovrabbondanza del numero dei parlamentari, che per l’Italia dovranno essere dimezzati, e la differenza d’età minima per l’accesso alle due camere che, a suo giudizio, non aveva ragion d’essere. E comunque nella costituzione italiana dovrà essere prevista un’età di accesso inferiore a quella stabilita in Francia, che era di trent’anni per il Consiglio dei Cinquecento e quaranta per il Consiglio degli Anziani, composto da duecentocinquanta membri. Osserva poi che nella costituzione francese manca un “termine d’esclusione” [xxi]: sebbene manifesti un grande rispetto per l’età senile, sostiene che “quelli che sono giunti all’anno sessantesimo” [xxii] debbano essere esclusi dall’elettorato passivo e che l’età dei membri del Direttorio sia fissata fra i trentacinque e i cinquantacinque anni.
Gioia analizza in dettaglio altri articoli della costituzione del 1795, suggerendo come modificarli. In nome del principio d’uguaglianza ritiene che non debba essere copiata tale costituzione laddove essa “richiede proprietà in quelli che entrano nelle assemblee elettorali” [xxiii]. Quanto alle sedute dei Consigli, propone l’abolizione di ogni possibilità di voto segreto e che, ad assistervi, ci sia la più ampia presenza di popolo. Un ulteriore punto sul quale suggerisce di non seguire l’esempio francese è quello secondo il quale i senatori dovevano essere coniugati o vedovi.
Nelle conclusioni della prima parte, Gioia assume posizioni in tema di ricchezza che riecheggiano, come rileva Domenico Frassi, motivi presenti nella letteratura del socialismo utopistico [xxiv]. Egli ricorda che la rivoluzione francese non era stata ostacolata dalla piccola nobiltà e dal basso clero, ma dai “nobili milionari” e dai “vescovi doviziosi”, che “le contrastarono il terreno palmo a palmo e le fecero pagar caro la vittoria” [xxv]. Da questa valutazione discendono le proposte dell’ineleggibilità delle “persone soverchiamente ricche” [xxvi] e della fissazione di “un certo limite alle proprietà terriere” [xxvii]. Anche sul pagamento delle tasse la posizione è radicale: poiché “né il clero, né i nobili pagarono mai imposte sotto l’antico governo”, per i primi dodici anni successivi all’instaurazione della repubblica le imposte dovranno essere pagate solamente dal clero e dalla nobiltà, così che queste classi privilegiate restituiscano in parte “quanto per loro mancanza dovettero pagare le altre classi della società” [xxviii]. Sempre in tema di tasse, Gioia si pronuncia a favore di un’imposizione fiscale progressiva.
Nella seconda parte dell’opera, Gioia si pone il problema se convenga dividere l’Italia in “repubbliche isolate e indipendenti”, o in “repubbliche confederate”, o adottare “una sola repubblica indivisibile” [xxix]. Subito afferma che “tante repubbliche isolate formerebbero tante sfere differenti di patriottismo” [xxx]. Lo studioso piacentino utilizza numerosi richiami storici per concludere che, in questo modo, l’Italia andrebbe incontro alla propria rovina e alla conclusione fatale dell’invasione straniera.
Né Gioia è più favorevole al federalismo, ritenendolo, salvo particolari eccezioni, un fattore di debolezza. Per l’Italia, esposta ai pericoli dell’invasione sia per mare che per terra e bisognosa di una rapida concentrazione di tutte le sue forze per una tempestiva difesa, sarebbe addirittura una sciagura. Per di più, alla luce dell’esperienza antica e recente del nostro paese, un sistema di piccole repubbliche confederate aprirebbe il campo “a mille discordie feroci che si riprodurrebbero sotto tutte le forme possibili” [xxxi]. In una confederazione di vari corpi politici, che hanno leggi proprie e interessi particolari, aumenterebbero le differenze esistenti e ciascuno stato membro, “non calcolando che il proprio interesse, allontanando ogni idea di futuro particolare bisogno” [xxxii], trascurerebbe l’interesse generale. Gioia ne fa conseguire che “i disordini delle repubbliche indipendenti, la lentezza e la gelosia delle repubbliche confederate” lasciano all’Italia un’unica soluzione, quella di “riunirsi in una sola repubblica indivisibile” [xxxiii]. L’organizzazione unitaria e centralizzata dello stato è lo strumento più idoneo per liberare l’intera penisola da ogni tirannia e renderla autonoma e potente.
Lo studioso piacentino, con spirito patriottico, vede nascere nell’Italia unita un orgoglio nazionale che consentirà la liberazione di tutte le energie compresse da secoli di dominazioni straniere. Egli descrive quindi le glorie dell’Italia passata e celebra il genio della nazione italiana, la cui grandezza renderà più forte e inarrestabile la volontà di rinascita. Felice Momigliano ha ritenuto queste pagine conclusive della seconda parte, le più commosse dell’opera e dense di “accenti lirici che preannunciano l’orchestra fremente e appassionata dei patrioti idealisti della generazione successiva” [xxxiv].
Gioia è consapevole che la diffusione degli ideali di libertà, uguaglianza e democrazia avrebbe incontrato, in un primo momento, forti resistenze culturali e politiche. Nella terza e ultima parte, illustra quindi i provvedimenti da adottare per raccogliere i consensi a favore del nuovo stato repubblicano e dare una solida base alle nuove istituzioni. Gli unici irrimediabilmente perduti alla causa della libertà italiana sono i monarchi. Ma le altre forze che avversano i nuovi ordinamenti possono essere neutralizzate o, addirittura, rese favorevoli. Il tradizionale conservatorismo dei ceti popolari potrà risolversi in un positivo apporto alla repubblica, adottando riforme economiche miranti ad allargare il numero dei proprietari mediante la concessione di terre confiscate alla Chiesa e a seguito della fissazione di un limite alle proprietà terriere. Il Frassi ha osservato che questo tema ritorna con notevole frequenza in molti scrittori dell’epoca [xxxv].
Gioia vede la possibilità di rimuovere la maggior parte dell’opposizione della nobiltà e del clero, le forze che difendono l’antico regime, utilizzando i dissensi interni a questi ceti. E’ tuttavia da evitare l’immediata abolizione dei titoli nobiliari, con la quale si otterrebbe solo di rendere solidali tutti i nobili contro la rivoluzione. Bisogna invece attrarre il grande numero dei ‘cadetti’, sacrificati dall’antico regime agli interessi dei primogeniti. Con l’abolizione dei diritti di primogenitura, e la conseguente uguaglianza ereditaria fra tutti i figli, la maggior parte della nobiltà diventerà favorevole al nuovo regime.
Si può ottenere anche il sostegno della gran massa dei parroci e ciò, data la loro influenza sul popolo, specialmente nelle campagne, costituirebbe un vantaggio importante alla causa della repubblica. Una parte dei beni appartenenti all’alto clero e agli ordini monastici, beni che nella loro totalità saranno incamerati, dovrà essere devoluta a vantaggio dei parroci, i quali, ottenendo dal governo i loro mezzi di sussistenza, si integreranno  nella logica di appartenenza civica alla comunità politica.
Un ruolo fondamentale nella costruzione della nuova società sarà svolto dalle donne, fino a quel momento “impedite nella disposizione de’ loro beni da leggi inventate dal capriccio e dalla forza, avvilite da un’esclusione parziale dalla paterna eredità, escluse affatto dagli onori a cui danno diritto le loro virtù”. Il pensiero di Gioia sull’argomento è netto: “vorremmo noi, apostati dell’eguaglianza, condannare le donne al silenzio e all’oblio?” [xxxvi].
Ribadisce poi, a difesa dei diritti individuali, il principio costituzionale della libertà di pensiero e di stampa: “conviene che sia permesso a ciascuno di scrivere e parlare liberamente” [xxxvii]. È quindi evidente che per lo studioso piacentino democrazia politica e libertà di stampa sono due termini inscindibili; senza la libertà di stampa tutte le altre conquiste, per grandi che siano, diventano illusorie ed effimere [xxxviii].
Gioia conclude la dissertazione descrivendo il percorso attraverso il quale realizzare la repubblica in Italia.
Con spirito pragmatico, ritiene che tale obbiettivo non possa essere raggiunto attraverso un moto rivoluzionario che si accenda subito e contemporaneamente in tutti i punti della penisola; crede invece che la repubblica unitaria possa realizzarsi con una serie di atti tali da produrre un cambiamento di mentalità nel popolo. Occorre tener presente che, quando veniva scritta la dissertazione, la situazione italiana, seppur percorsa quasi ovunque da movimenti premonitori, si era modificata di fatto in senso rivoluzionario solo negli ex ducati di Milano e di Modena e nelle ex Legazioni Pontificie. Erano questi i territori sui quali, secondo Gioia, si sarebbe dovuto inizialmente costituire e consolidare il nuovo ordinamento repubblicano, con un intelligente piano di riforme, con un illuminato spirito di comprensione degli interessi concreti e con la conciliazione dei diritti supremi della persona con le esigenze di un ordinato vivere civile. I saggi provvedimenti che sarebbero stati adottati avrebbero generato consensi al nuovo stato repubblicano da parte degli abitanti delle altre regioni italiane: “Questo spettacolo interessante agirà di riverbero sopra il restante dell’Italia; nasceranno de’ paragoni favorevoli alla repubblica; si spargerà un fermento universale foriero di rivoluzione; la voce e la penna de’ missionari politici accenderà l’entusiasmo, e i presenti della libertà si accresceranno a vista d’occhio; se non m’inganna il desiderio, le rivoluzioni scoppieranno rapidamente le une dopo le altre e l’Italia intera verrà rigenerata nel battesimo della libertà” [xxxix].
La vittoria nel concorso diede a Gioia la prima notorietà. Il suo scritto, tuttavia, entrò in circolazione solo all’inizio del 1798, quando ormai fra i patrioti, come ha ricordato Salvo Mastellone, “parecchie illusioni erano cadute dopo il trattato di Campoformio” [xl]. Liberato dal carcere del ducato di Parma e Piacenza, dove era stato rinchiuso per le sue posizioni contro il duca e contro il vescovo, Gioia si trasferì a Milano e lasciò il sacerdozio. Nel 1799 fu nuovamente rinchiuso nelle carceri ducali in seguito all’avanzata delle truppe austro-russe in Italia. L’anno successivo, con la vittoria di Napoleone a Marengo, fu liberato e poté tornare a Milano, dove iniziò l’attività di funzionario governativo, inframmezzandola con una prolifica attività pubblicistica [xli].
La caduta del regno d’Italia nel 1814 segnò anche “la fine di ogni attività svolta dal Gioia al servizio governativo, dato il sospetto con cui lo guardava l’Austria che ne conosceva bene le convinzioni liberali” [xlii]. Da allora si dedicò intensamente a opere di argomento filosofico, economico e statistico, collaborando anche alla “Biblioteca italiana”, e imponendosi come uno dei principali esponenti dell’ambiente intellettuale lombardo. A causa delle sue idee subì nel 1820-21 un lungo periodo di carcere. Morì a Milano il 2 gennaio 1829.

Conclusioni

Il successo ottenuto dal saggio di Gioia è probabilmente da attribuirsi al fatto che il suo progetto di un’Italia repubblicana, libera, democratica e indivisibile, pur non privo di alcune ingenuità, si distingue per chiarezza logica, è lontano dalle stravaganze che caratterizzavano alcuni partecipanti al concorso ed è anche il più innovativo. Nel suo scritto, ricco di argomentazioni, il sistema istituzionale è delineato senza astrattezze; il pensatore piacentino riesce infatti a coniugare il livello teorico con quello della concreta situazione politica e culturale dell’Italia. E ci riesce senza rinunciare a fondare la sua proposta su di una forte tensione etica. Altri concorrenti, fautori del modello federale, propongono invece di procedere per gradi e promuovono un federalismo inteso solo come fase transitoria per raggiungere la repubblica unitaria, con il risultato di privare di forza morale le dissertazioni che sostengono tale soluzione.
A ciò si aggiunga, come osservato da Nicola Raponi, che il presidente della Commissione giudicatrice, Pietro Verri, “rappresentava a un tempo la tradizione riformatrice dell’illuminismo settecentesco, la difesa borghese della proprietà, una moderata simpatia alla nuova forma di governo repubblicano, ed insieme un’esigenza di libertà e d’autonomia dai nuovi padroni” [xliii]. E’ plausibile che la consonanza con questi princìpi abbia indotto la Commissione a proporre la dissertazione di Gioia per il primo premio.
Lo scritto dello studioso piacentino trovò il più alto momento di celebrità nel ventennio 1830-1850, durante il quale fu più volte ristampato, e circolò diffusamente nelle regioni del nord e nell’emigrazione politica italiana in Francia e in Svizzera. Poiché proponevano una Repubblica unitaria, le parti prima e seconda della dissertazione ricevettero particolare attenzione da Mazzini. La Giovine Italia, fondata nel 1831, era per l’indipendenza, per la forma repubblicana e per l’unità contro ogni forma di federazione. La scelta della ‘repubblica unica’ proposta da Gioia venne condivisa  dall’esule genovese: all’Italia meglio conveniva il governo repubblicano che un governo monarchico costituzionale e meglio conveniva una soluzione unitaria che una soluzione federativa[xliv]. La parte terza della dissertazione, caratterizzata da soluzioni gradualistiche, non poteva incontrare il favore di Mazzini che, in quel momento, progettava insurrezioni popolari dapprima negli Stati sardi e in Lombardia contro l’Austria, poi nel resto del paese. Gioia, in quest’ultima parte della dissertazione, sembra piuttosto anticipare alcune posizioni di Cavour, in particolare per quanto riguarda il modo concreto di costituirsi dell’unità italiana, con un procedimento che ha delle analogie con quello che effettivamente nel biennio 1859-1860, sotto la guida appunto di Cavour, rese possibile la formazione di un’Italia libera e unita.
La maggior parte delle riedizioni del testo del Gioia, ormai un classico della letteratura politica italiana, si colloca a partire dal 1945, subito dopo la Liberazione. Oltre al citato Domenico Frassi, curarono nuove edizioni della dissertazione Carlo Sforza [xlv] e Carlo Pischedda[xlvi]. Nel 1964 Armando Saitta pubblicò anche le altre dissertazioni presentate al celebre concorso.

Note

[i] D. Frassi, in Melchiorre Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, Ambrosiana, Milano, 1945, indica come data di nascita il 20 settembre dello stesso anno.
[ii] F. Sofia, GIOIA (Gioja), Melchiorre, in Dizionario biografico degli Italiani, Volume 55, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2001.
[iii] D. Frassi, cit., p. 7.
[iv] D. M. G. Sutherland, Rivoluzione e controrivoluzione, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 322-325.
[v] G. Pecout, Il lungo Risorgimento, Bruno Mondadori, Milano, 1999, pp. 47 e 48.
[vi] Tale valutazione è contenuta in un saggio sul Compagnoni, il ‘padre del Tricolore’. Vedasi I. Mereu, “Giuseppe Compagnoni: giacobino e ‘anticlericale’ del primo risorgimento”, in I castelli di Yale 3/III (1998), p. 3.
[vii] E. Riva, Milano, 1796: federalisti e unitari a confronto, in Confronti 2/2012, p. 161.
[viii] A. Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un celebre concorso (1796), Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Vol. 1, Roma, 1964, p. VIII.
[ix] E. Riva, cit., p.163.
[x] C. Zaghi, L’Italia giacobina, Utet Libreria, Torino, 1989, pp. 133 e 134.
[xi] D. Frassi, cit., p. 19.
[xii] M. Gioia, Dissertazione di Melchiorre Gioia sul problema dell’Amministrazione generale della Lombardia “Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia?”, in M. Paganella, Alle origini dell’unità d’Italia, Ares, Milano, 1999, p. 110. D’ora in poi Dissertazione, seguito dal numero della pagina.
[xiii] M. Gioia, Dissertazione, p. 110.
[xiv] M. Gioia, Dissertazione, pp. 112-114.
[xv] M. Gioia, Dissertazione, p. 114.
[xvi] M. Gioia, Dissertazione, p. 115.
[xvii] M. Gioia, Dissertazione, p. 116.
[xviii] Scrive infatti Gioia, cit., p. 117: “Mi pare altronde che si potrebbero sfuggire gli effetti dell’entusiasmo facendo percorrere, dirò così, alle decisioni certe forme ed intervalli pria che fossero trasformate in leggi, forme ed intervalli che calmando il bollore d’un’assemblea in fermento dessero luogo alla ragione”.
[xix] M. Gioia, Dissertazione, p. 120.
[xx] M. Gioia, Dissertazione, p. 144.
[xxi] M. Gioia, Dissertazione, p. 121.
[xxii] M. Gioia, Dissertazione, p. 122.
[xxiii] M. Gioia, Dissertazione, p. 132.
[xxiv] D. Frassi, cit., p. 17.
[xxv] M. Gioia, Dissertazione, p. 126.
[xxvi] M. Gioia, Dissertazione, p. 127.
[xxvii] M. Gioia, Dissertazione, p. 135.
[xxviii] M. Gioia, Dissertazione, p. 134.
[xxix] M. Gioia, Dissertazione, p. 134.
[xxx] M. Gioia, Dissertazione, p. 153.
[xxxi] M. Gioia, Dissertazione, p. 166.
[xxxii] M. Gioia, Dissertazione, p. 160.
[xxxiii] M. Gioia, Dissertazione, p. 164.
[xxxiv] F. Momigliano, Un pubblicista, economista e filosofo del periodo napoletano: Melchiorre Gioia, in Rivista di filosofia e scienze affini, 1903, p.146.
[xxxv] D. Frassi, cit., p. 29.
[xxxvi] M. Gioia, Dissertazione, pp. 199 e 200.
[xxxvii] M. Gioia, Dissertazione, p. 226.
[xxxviii] Cfr. C. Zaghi, cit., p. 201.
[xxxix] M. Gioia, Dissertazione, p. 229.
[xl] S. Mastellone, in Melchiorre Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, Centro editoriale toscano, Firenze, 1997, p. XI.
[xli] F. Sofia, GIOIA (Gioja), Melchiorre, cit.
[xlii] G. Fiori, La formazione di Melchiorre Gioia, in Otto/Novecento, Rivista bimestrale di critica letteraria, n. 5 (1982), p. 159.
[xliii] N. Raponi, Verri, Parini e Gioia, tra giacobini e moderati, in M. Paganella, cit., p. 9.
[xliv] S. Mastellone, cit., p. XV.
[xlv] M. Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, con introduzione e note di Carlo Sforza, Roma, Atlantica, 1945.
[xlvi] M. Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, con introduzione e note di Carlo Pischedda, Torino, Vega, 1946.