GIUSTINO FORTUNATO E LA CAMORRA

di Michele Strazza -

 

In un paio di corrispondenze per la Rassegna settimanale del 1878 e del 1879, Fortunato – che dopo la laurea in giurisprudenza, e prima di cimentarsi con la politica, stava esplorando il mondo del giornalismo – ebbe modo di commentare alcuni episodi di sangue avvenuti a Napoli. Da qui richiesta di un diverso approccio al problema della camorra: attenzione alla dignità della plebe e tutela delle attività economiche, per combattere con successo il “potere arbitrario e licenzioso” della malavita.  

 

 

Nella Napoli della seconda metà dell’800 la Camorra spadroneggiava ampiamente nei quartieri popolari. Di essa si occupò anche il noto meridionalista Giustino Fortunato in alcune corrispondenze napoletane apparse sulla Rassegna settimanale, poi confluite nel volume Scritti varii, stampato presso il tipografo-editore Vecchi di Trani nella primavera del 1900.
Gli articoli del Fortunato sono datati 10 gennaio 1878 e 18 giugno 1879. In essi egli si sofferma su un sanguinoso episodio di cronaca che aveva scosso non poco la plebe napoletana. Nell’estate del 1877, in una delle strade della vecchia Napoli, era stato ferito mortalmente “un noto confidente di questura”, tale Vincenzo Borrelli, per mano di Raffaele Esposito, giovane operaio “in fama di camorrista”. Il giorno dopo, mentre l’omicida arrestato veniva scortato da un drappello di soldati, “una turba di popolani” lo acclamava freneticamente, seguendolo fino al carcere di Castel Capuano.
Da altra parte della città il cadavere dell’ucciso, invece, portato al cimitero, presso la cella mortuaria, veniva assalito in pieno giorno “e contaminato nel modo più sconcio e disonesto”.
A fronte di tali gravissimi fatti, le autorità di polizia reagirono prontamente con una retata presso i mercati di frutta e di pesce dove vennero tratti in arresto diversi camorristi, nell’atto di riscuotere dai venditori la loro “tassa quotidiana”.
Fu così che i commercianti stessi presero coraggio, opponendosi, nei giorni successivi, a nuove richieste di tangenti da parte degli amici dei camorristi arrestati, denunziandoli alle guardie di sicurezza. Ben quaranta testimoni si fecero avanti presso le autorità, pronti a deporre contro i detenuti.
Ma la lentezza della giustizia fece trascorrere molti mesi, per cui, arrivato il momento della conferma delle deposizioni avanti la magistratura, i testimoni, nel frattempo minacciati, ritrattarono le precedenti versioni. Fu così che la maggior parte degli arrestati venne prosciolta per insufficienza di prove.

Di qui le riflessioni del Fortunato concentrate sulla richiesta di un diverso approccio al problema, non solo di ordine pubblico, pur esso necessario, ma di vera e propria politica sociale, di protezione dei deboli, di tutela delle attività economiche, per combattere con successo il “potere arbitrario e licenzioso” della camorra, capace di vivere “alle spalle de’ timidi” solo con le minacce e con la forza. Necessario, inoltre, agire presto, con ogni mezzo, prima che la camorra possa organizzarsi meglio e penetrare nella politica e negli uffici. Così il grande meridionalista:
«Più che la camorra è vergogna nostra quell’impermalirci per quanti ne facciano motto e ardiscano chiedere un provvedimento. E’ vergogna nascondere, non già mettere a nudo, tutto quel male, tutta la piaga, che rode le misere classi popolari. Vera colpa è la noncuranza e l’oblio, poiché è sacro dovere invocare, in difesa di quelle, il braccio della pubblica autorità. Non c’è, non ci può essere che neghi qui la esistenza della camorra: la esistenza, cioè, di chi si arroga un potere arbitrario e licenzioso, vivendo, con le minacce o con la forza, alle spalle de’ timidi; non può quindi esser questione se non de’ mezzi per domarla, ora che siamo in tempo, anzi che destarci quando sarà stretta in associazione e salita più su e penetrata ne’ comizii e negli ufficii. Per ottenere vie meglio lo scopo, non basta che l’autorità si accontenti, per alcune settimane, di qualche messa in iscena o d’insoliti apparati: bisogna, innanzitutto, che l’amministrazione di sicurezza non sia a ciò spinta dal desiderio di mettersi in comparsa, né sedotta dalla speranza di ricoli; e poi importa, che in cotesta guerra non entri (ché sarebbe l’ultima sciagura) il più piccolo interesse di fazione politica, la benché menoma relazione di clientele partigiane. Bisogna curare il male per se stesso, e curarlo con amore continuo e con pieno disinteresse, con la serena coscienza di un obbligo imposto dalla socievolezza, col sentimento della tutela dei deboli assunta dai forti. Il problema è molto più difficile che non sembri a prima vista. Sollevare il concetto della dignità in una plebe a mezzo avvilita, spensierata, facile ad essere soggiogata, e perseguire i prepotenti senza chiasso ma senza tregua, mese per mese, anno per anno, senza illegalità ma senza debolezze: rendere meno disagiata la esistenza degli uni, e combattere gli altri nell’intimo della vita sociale, sui mercati non solo, ma nei pubblici incanti, nelle agenzie di pegno, alle barriere, nelle confraternite, ne’ chiassuoli, nell’esercizio de’ mestieri, da per tutto: ecco la guerra che bisogna muovere alla camorra. Sapranno, vorranno le autorità e le classi dirigenti dichiararla e proseguirla con animo deliberato?»

Giustino Fortunato ritorna, nel giugno del 1879, su tale episodio di cronaca, in occasione del processo apertosi in Corte di Assise. L’articolo si apre con una breve, ma efficace, raffigurazione del Borgo Loreto, “antico suburbio” di Porta Nolana, uno dei quartieri più caratteristici della vecchia Napoli. Qui spadroneggiava la “bassa camorra”, con le sue prepotenze sui mercati, con le tangenti su artigiani e negozianti, con il lotto clandestino, con la rivendita di oggetti rubati, con le rapine e gli scippi. Era questa la camorra che operava in mezzo alle classi povere, diversa da quella definita “alta camorra”, prosperante, per opera della borghesia, nei commerci e negli appalti, nella politica e nella pubblica amministrazione.
Fortunato ripercorre le diverse vicende che avevano portato Raffaele Esposito a covare profondo odio nei confronti di Vincenzo Borrelli. Il primo, nel dicembre del 1876, era uscito dal carcere dove aveva scontato una condanna per “furto qualificato” e dove era stato iniziato “nei segreti della camorra”.
Grazie all’affiliazione camorristica, si dedicò al “gioco piccolo”, cioè al lotto clandestino. Fu così che si imbatté nel Borrelli, il quale, dopo essere stato anche lui camorrista, era diventato “il confidente maggiore” della polizia, usufruendo dei cospicui sussidi della questura. Su tale confidente, naturalmente, il Fortunato esprime un giudizio poco lusinghiero:
«Io non so immaginare niente di più corrotto, nella società popolare napoletana, di un uomo come il Borrelli; di un camorrista, cui l’autorità, mentre da un lato lo assolve e gli condona il passato, gli offre dall’altro e gli concede il brevetto di camorrista legale: di una spia pubblica, di un palese poliziotto, cui la denunzia è professione e potere e onore: di un ozioso perditempo, cui gli esecutori della legge danno mezzi e sostentamento e amicizia: di un padre di famiglia dalla canizie vituperosa, che fa debiti con le pubbliche meretrici e si permette il lusso di una giovane mantenuta…Che esempi e che ammaestramenti per tutta quella gente già mezzo corrotta dalla miseria, tutta gente senza azzurro di cieli e senza verde di campi!»

Il Borrelli e l’Esposito, dunque, si conoscevano benissimo. Anzi il secondo era stato arrestato proprio su segnalazione del Borrelli. Ora, una nuova occasione li ravvicinò.
La “ganza” del confidente, infatti, aveva perduto al lotto clandestino trentotto soldi ma si rifiutava di pagare per cui una sera venne malmenata da Raffaele Esposito. Su indicazione del Borrelli, la giovane donna denunziò l’aggressione al pretore e l’Esposito venne ammonito, rischiando il domicilio coatto. A questo punto egli pensò bene di fare rabbonire il Borrelli da altre persone, cosa che gli riuscì, perché il confidente intervenne presso le autorità di polizia garantendo per l’Esposito.
Successivamente, però, nel mese di luglio, durante un banchetto di camorristi perseguitati dal Borrelli si decise di dare a quest’ultimo il benservito, scegliendo come esecutore proprio Raffaele Esposito il quale “accettò senza opposizione”. Così, all’imbrunire del 10 agosto, questi esplose un colpo d’arma da fuoco alle spalle del Borrelli, ferendolo mortalmente.
La corrispondenza napoletana di Fortunato si chiude con l’amarezza delle prime udienze del processo alle Assise a carico di Raffaele Esposito e di altri cinque camorristi, accusati di essere i mandanti dell’omicidio. «Gli imputati – scrive Fortunato – si fecero innanzi al banco dell’accusa, tutti ben vestiti e a nuovo, con piglio sicuro e sprezzante. Apparvero ad un pubblico composto in gran parte di gente del loro stampo, che forse sperava, con la presenza, d’impedire il corso della giustizia».
Nonostante la loro origine miserabile, tutti e sei gli accusati avevano, a loro difesa, ben otto avvocati, tra cui il primo dei giovani penalisti del foro napoletano e, addirittura, un deputato al parlamento.
Nelle udienze successive alcuni testimoni ritrattarono paurosi le loro prime deposizioni, a dimostrazione della forza intimidatrice della camorra, quella camorra che si sarebbe dovuta combattere con un’azione efficace della forza pubblica e con l’intervento rigoroso delle classi dirigenti. Ma su questo impegno anche Giustino Fortunato nutriva seri dubbi.

Per saperne di più
Gaetano Cingari, Giustino Fortunato, Roma-Bari, Laterza, 1984.
Gaetano Cingari, Il Mezzogiorno e Giustino Fortunato, Firenze, Parenti, 1954.
Maurizio Griffo, Profilo di Giustino Fortunato: la vita e il pensiero politico, Firenze, Centro editoriale toscano, 2000.