GIUSEPPE VERDI AL CONSERVATORIO DI MILANO

di Sollima Novi -

Il futuro compositore aveva una cattiva postura al pianoforte e non fu ammesso al Conservatorio. Una mostra a Milano – “La mano, l’errore, il trionfo” – fa ammenda rendendo omaggio al suo straordinario genio con spartiti e strumenti appartenuti al maestro.

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La lettera del Conservatorio che segnala la cattiva postura delle mani di Verdi sul pianoforte

Giuseppe Verdi non fu ammesso al Conservatorio di Milano – era il 1832 e aveva diciotto anni circa – anche per la sua “non corretta posizione delle mani sul pianoforte”, oltre che per “la non sufficiente cognizione delle regole del contrappunto” e per la scarsa disponibilità di posti nel convitto.
Che è bello e istruttivo, avrebbe scritto Giovannino Guareschi che con Le Roncole e Busseto aveva più di qualche vicinanza, peraltro perpetuata attraverso un ristorante e una fondazione museo voluti dai figli che a Le Roncole hanno dapprima invaso, per poi dimensionarsi, lo spazio vissuto da un Giuseppe Verdi giovanissimo, immagino arrampicato sulla tastiera della spinetta donatagli dal padre, prima, e dell’armonium della Chiesa, poi, intento più che ad eseguire disciplinatamente la musica da Chiesa richiestagli, a cercar di capire cosa lo strumento fosse capace di dargli. Anche perché a Le Roncole era molto ma molto più facile improvvisare alla tastiera che studiare quella lingua difficile che è la musica.
E mi piace pensare che, all’inizio, Giuseppe abbia precorso quella che io rivendo come una mia personale teoria musicale: trovata la prima nota sulla tastiera, le altre sono alla sua destra e alla sua sinistra, con qualche variazione verso l’alto. E, sempre trovata la prima nota, le dita cercano spontaneamente le altre.

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Lo strumento per allenare le dita degli allievi

E se, come Verdi, hai una naturale inclinazione alla musica, qualcosa accade. Il problema, credo, nasce soprattutto quando si vogliano eseguire composizioni di maestri, grandi o piccoli che siano, ma comunque codificate sul pentagramma; oppure, o anche, quando si vuole scrivere ciò che si è improvvisato. E si tratta di problemi non da poco, che vanno dalla disponibilità finanziaria alla necessità di trasferirsi in luoghi nei quali vivono gli insegnanti e sono strutturate e funzionanti le scuole di musica.
Verdi trovò negozianti animati da spirito di mecenatismo: una razza in Italia estinta da tempo, quella dei negozianti sensibili alla cultura in genere e a quella musicale in particolare, ma che fece in tempo a consentire la formazione di una “cultura musicale” elementare, da approfondire e migliorare, e tale da spingere il giovane diciottenne a sperare di poter essere ammesso al Conservatorio di Milano.
Il quale ebbe a stabilire che Giuseppe Verdi non aveva una buona posizione della mano sulla tastiera, appunto.
Che non è poco, essendo un sintomo chiarissimo di un atteggiamento accademico senza troppe eccezioni: la ricerca della perfezione “formale” del corpo di fronte allo strumento quale condizione (una delle condizioni) essenziale per essere un buon pianista.
Con il che, Glen Gould oppure anche Horowitz o molti altri interpreti giudicati eccezionali non sarebbero stati che il frutto di errori di valutazione e di insegnamento commessi dai Conservatori di provenienza.

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Correzioni di Verdi sugli spartiti

E il Conservatorio di Milano, il cui curioso destino ha portato ad intitolarsi proprio a Giuseppe Verdi, assieme a Tomo Quarto di Bologna ha dato vita ad una piccola mostra organizzata nel foyer della Sala Grande sul tema “La mano, l’Errore, il Trionfo”: sintesi estremamente significativa dei rapporti tra Verdi e il Conservatorio stesso. Ho avuto la fortuna di esserci, accompagnato e guidato dal coordinatore, maestro Raffaele Deluca, signore di straordinaria cortesia e preparazione.
Ed ecco, allora, una ricostruzione del dactylion, strumento di “tortura” applicato alla tastiera, composto di dieci anelli destinati ad accogliere le dita, bloccati in alto in modo da obbligare lo studente ad eseguire quanto e come stabilito. Strumento di tortura, ma anche dimostrazione di una creatività senza limiti.
Poi, gli spartiti, da Oberto a Falstaff, e una testimonianza per me assolutamente commovente: gli interventi di Verdi a correzione delle bozze di stampa. Seduto alla Scala, armato di foglietti e di matita, un lavoro da certosino.
E non a caso il Conservatorio ha collaborato con il Centro Studi di Musica Sacra “Tomo Quarto” di Bologna. Padre Gianbattista Martini, musicista e musicologo bolognese, ha lasciato incompiuta la sua grande Storia della Musica, solo abbozzando quel “tomo quarto” che avrebbe narrato della musica sacra e al quale Bologna ha voluto intitolare il suo Centro Studi di musica sacra.
Io vedo in questo anche il significare la musica come linguaggio immortale e realmente universale, in perpetuo divenire sulle solide fondamenta di una storia che comunque affonda le sue radici nella nascita dell’uomo e che, probabilmente, non avrà fine neppure quando il genere umano non ci sarà più. Perché la musica è il linguaggio di Dio.