GIUGURTA, RE RIBELLE CONTRO ROMA

di Max Trimurti –

I Romani, dopo aver vinto Cartagine, pensavano di aver regolato tutti i problemi africani. Ma avevano dimenticato Giugurta, re di Numida animato da grandi ambizioni. Fu lui a scatenare una nuova guerra con Roma, che segnerà però la fine del suo regno.

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Tre sconfitte traumatiche hanno punteggiato l’irresistibile slancio ed espansione della repubblica romana: la presa di Roma da parte dei Galli Senoni, guidati da Brenno (390 a.C.), il disastro inflitto da Annibale a Canne (216 a.C.) ma anche e soprattutto la sconfitta inflitta dai Sanniti (321 a.C.), che forzeranno i vinti a sfilare come bestiame sotto il giogo delle Forche Caudine. Quando nell’inverno del 110 a.C. Giugurta riscopre per i Romani l’umiliazione della Forche Caudine, facendo nuovamente curvare la schiena ai 40 mila legionari, il suo gesto assume un grande valore simbolico: egli ha combattuto nei ranghi dell’esercito romano, conosce le sue abitudini e conta amici fra gli stessi Romani, persino sui banchi del Senato. Si tratta, dunque, di una sfida mortale che farà cadere nuovamente l’Africa del Nord in un interminabile inferno che l’esercito romano non si aspettava di dover rivivere.
Quando nel 146 a.C. si era conclusa la terza guerra punica, Roma sembrava effettivamente onnipotente. Aveva trasformato in province la Grecia e la Macedonia, annesso una gran parte dell’Asia minore, consolidato il suo dominio sulla Spagna e le sue miniere d’oro, e fondato in Gallia le colonie di Aix e di Narbona.
Ma i suoi guerrieri non ebbero il tempo di riposarsi, in quanto sorsero nuove minacce da ogni direzione. Dal nord, si infransero contro le frontiere alcune tribù che devastarono le province alpine. Al Sud, gli schiavi siciliani si sollevarono nel 140 a.C., iniziando le guerre servili che dureranno ben otto anni. Ad est, Pergamo si ribellò nel 130 a.C. Ma sarà dai territori costieri dell’attuale Algeria che arriverà nel 112 a.C. il colpo più inatteso: la rivolta della Numidia.

Numidia, creatura romana

Per i Romani, l’evento suona come un tradimento, anche se, per certi aspetti, se lo erano andati a cercare. Il regno di Numidia, fino a quel momento, alleato indefettibile, esiste per grazia del Senato e degli Scipioni [1], che l’hanno favorito a svantaggio di Cartagine dopo la sconfitta di Annibale. Fra il 174 e il 171 a.C. il re Massinissa ha potuto, in tale contesto, mettere le mani su 70 città puniche, senza che Cartagine avesse la possibilità di reagire. Alla sua morte, il suo regno va dalle frontiere con il Marocco attuale fino ai confini della Libia: i Romani arrivano a constatare – troppo tardi – che hanno, con il loro consenso, creato un mostro, ma non possono fare nulla.
Tuttavia, nel 146 aC. finiscono per agire. Essi dichiarano guerra a Cartagine, per impedire alla Numidia di impadronirsene, anche se la città, ormai ombra di sé stessa, non ha infranto alcun trattato. I Numidi, che si considerano spogliati di una dominio loro dovuto, non nascondono la collera. La seconda azione del Senato segue la canonica regola del divide et impera. Alla morte di Massinissa, nel 148 a.C., Scipione l’Emiliano, con il pretesto di arbitrare le dispute di successione, suddivide il regno fra i tre figli de re defunto. Nel 140 a.C. Mastanabal muore in circostanze oscure, seguito, in circostanze altrettanto misteriose, da suo fratello Gulussa, lasciando solo al potere l’ultimo fratello, Micipsa.

Ribelle per interesse

Quando Micipsa muore nel 118 a.C., i Romani non si allarmano. I tre figli – i due legittimi, Adherbale e Hiempsale, e suo nipote, adottato, Giugurta – hanno giurato di andare d’accordo per governare la Numidia. Ma Giugurta non ha alcuna intenzione di mantenere la parola. Egli fa giustiziare Hiempsale e mette le mani sul tesoro della stato. E quindi lancia il suo esercito contro Adherbale. Quest’ultimo, sconfitto, riesce comunque a rifugiarsi a Roma, dove presenta il suo caso davanti al Senato. Per Giugurta si tratta di un duro colpo: lui che sperava di mettere Roma di fronte al fatto compiuto, ora viene a trovarsi di fronte al rischio di essere deposto da una decisione assunta sulle rive del Tevere.
Tuttavia, il re numide, a differenza dei precedenti avversari di Roma, viene a disporre di notevoli opportunità. A differenza di Filippo V di Macedonia, Perseo, Pirro, Annibale, che non parlavano il latino, non conoscevano i meccanismi della politica e dell’esercito romano, e, soprattutto, non disponevano di amici all’interno del Senato, Giugurta ha maggiori possibilità, a cominciare dal fatto che è quasi romano. Nel 134 a.C., quando era ancora giovane, Micipsa l’aveva inviato – probabilmente per sbarazzarsene – con alcuni cavalieri e qualche elefante, a sostenere Scipione l’Emiliano, invischiato nell’assedio di Numanzia, in Iberia. Laggiù, il giovane principe aveva appreso le tattiche della legione e fatto amicizia con una parte dell’aristocrazia romana, poiché a quell’epoca, tutti gli uomini che volevano intraprendere la carriera politica dovevano fare un certo numero di anni di servizio militare, come tribuno. Il numide, ardito in combattimento e ponderato nei consigli, attira l’attenzione dei Romani e viene ammesso nello stato maggiore di Scipione. Secondo Gaio Sallustio Crispo, il generale romano scrive a Micipsa: “Il vostro Giugurta è caro al nostro cuore per i servizi che ci ha resi e noi useremo tutta la nostra influenza per farlo amare dal Senato e dal popolo di Roma”.

Adherbale messo alle strette

Giugurta pensa di utilizzare bene questi appoggi, prendendo anche la precauzione di inviare ambasciatori a “lubrificare” le mani dei senatori importanti. E viene ascoltato. Il Senato, invece di condannare il fratricida usurpatore, gli attribuisce l’Ovest della Numidia, popolato, ma povero, mentre l’Est, più prospero, ma con minore densità di abitanti viene assegnato ad Adherbale. Beninteso, Giugurta non ha alcuna intenzione di rispettare l’arbitrato. Tuttavia, per evitare di essere accusato di aver scatenato le ostilità contro il fratellastro, si contenta di piccole incursioni nelle sue terre, fino a quando Adherbale, stanco delle provocazioni, perde le staffe e dichiara guerra. Giugurta, maestro di tattica e di manovre militari e combattente esperimentato, sorprende il nemico in piena notte alla testa di un piccolo esercito. Adherbale è costretto alla fuga e si rifugia nella città di Cirta, dopo aver inviato una nuova richiesta di aiuto a Roma.
Gli inquisitori romani, inviati sul luogo dal Senato, vengono accolti da Giugurta con grande disponibilità. Li copre di regali e assicura che toglierà l’assedio e risparmierà Adherbale. La commissione romana, rassicurata, riparte per l’Urbe, ma l’assedio non viene tolto. Quando una seconda commissione romana ritorna sul posto e lo minaccia di rappresaglie, a Giugurta non rimangono che due opzioni: scegliere fra il resistere, scommettendo sul fatto che Roma ha ben altre gatte da pelare (specialmente in Illiria e in Macedonia, che sono insorte), oppure rientrare nella sua mezza Numidia. Sarà la città di Cirta che decide per Giugurta: convinta che la minaccia romana sia adeguata, gli assediati decidono di arrendersi. Giugurta, di fronte a questo inatteso regalo, cattura immediatamente Adherbale e lo fa giustiziare.
L’ormai unico re di Numidia, pensa, a ragione, che tutte queste dispute di successione africane non costituiscono più un motivo sufficiente perché Roma entri in guerra e che basti solo attendere che le cose si mettano a tacere. Ma i suoi soldati (o forse alcuni abitanti di Cirta) massacrano i numerosi commercianti romani della città, che hanno partecipato attivamente alla sua difesa. Per il Senato di Roma si tratta di una gravissima provocazione e se esso esita ancora a intervenire contro il vecchio alleato numide, i tribuni del popolo [2] e l’ordine equestre contribuiranno a spingerlo alla guerra. I primi, perché uno dei loro campioni, Caio Memmius Mordace, utilizza l’evento per denunciare la corruzione dei senatori. Il secondo, perché la nobiltà, alla guida del commercio, ha perduto diversi agenti in questo affare e vuole proteggere i suoi lucrosi interessi africani.

I Numidi sfuggono come sabbia fra le dita

Un corpo di spedizione romano, comandato da Lucio Calpurnio Bestia (console nel 111 a.C.), sbarca dunque a Cartagine, dove si impadronisce di alcune città. Giugurta evita lo scontro diretto, quindi negozia una tregua, offre grano, bestiame e 30 elefanti e certamente qualche “mazzetta”. Sta di fatto che i Romani, alla fine, si reimbarcano per l’Italia. Sarà il successore di Bestia, Aulo Postumio Albino (console nel 99 a.C.), a tornare alla carica. Le legioni, questa volta, cercano lo scontro decisivo per mettere le mani sul tesoro del re numide. Ma Giugurta scivola come la sabbia fra le dita di Postumio, mentre i temibili cavalieri numidi moltiplicano sanguinose incursioni prima di svanire nella macchia. La macchina da guerra romana, messa di fronte alla guerriglia numide s’inceppa.
Nel 109 a.C. Giugurta sorprende l’esercito (40 mila uomini, secondo Paolo Orosio [3], ma la stima sembra esagerata) di Spurio Postumio Albino, fratello di Aulo, nelle colline di Suthul (una località non lontana da Guelma, nell’est algerino). Sarà un massacro e il giorno dopo, il generale e i soldati vinti vengono costretti a passare sotto il giogo. L’offesa subìta dai Romani non passa però inosservata. E merita una punizione mortale. Quinto Cecilio Metello Numidico (console nel 109 a.C.), lancia l’anno seguente una terza campagna. Generale esperto, egli ha ottenuto di prolungare il suo mandato per tutta la durata della guerra e si è circondato di militari veterani, come Caio Mario e Publius Rutilius Rufo.
Giugurta, questa volta, accetta la battaglia campale, ma sceglie il terreno dello scontro: le colline che costeggiano il fiume Muthul (il sito rimane ancora oggi incerto). Dispone il suo esercito sulle quote lungo il percorso che deve effettuare l’esercito romano. Metello, con prudenza, copre i suoi fianchi di arcieri e frombolieri. Quindi invia la cavalleria a individuare un campo nei pressi dell’acqua, per fortificarvisi.
A quel punto, l’esercito numida attacca. Le frecce, le pietre e i giavellotti crivellano i legionari romani, ma questi non cedono. Va peggio per Giugurta: l’attacco lanciato contro l’avanguardia di Rutilius da parte di Bomilcare, il suo aiutante, fallisce quando 40 elefanti, disturbati dagli alberi, seminano il disordine fra la fanteria. I Romani contrattaccano e mettono in fuga i Numidi, prima che questi possano raggiungere Metello, che, nel frattempo, ha formato un quadrato nei pressi del fiume. Il romano, pur con una impostazione certamente difensiva, ma, in ogni caso, idonea a evitare la sconfitta, ha vinto la battaglia. Altri due successivi scontri si risolvono in altrettante sconfitte per i Numidi, senza peraltro mettere fine alla guerra.

Legionari nel Djebel

Incapaci di incastrare il nemico, i Romani devono fronteggiare, a partire dal 109 aC., la guerriglia su grande scala messa in atto da Giugurta.
Il re dei Numidi è riuscito a conciliarsi la tribù meridionale dei Getuli [4] e dei Mauri del re Bocchus o Bocco I, che regna sul Marocco e la Mauritania attuali. Le carte vengono ridistribuite anche dalla parte dei Romani. Caio Maio, ex fedele luogotenente di Metello, è rientrato a Roma per farsi eleggere console, quindi torna in Africa con nuove truppe per sostituire il vecchio comandante. Egli dà inizio a una azione metodica di eliminazione dei forti numidi. Nell’anno 106 a.C. il comandante romano riesce ad arrivare davanti all’ultimo rifugio di Giugurta, un luogo apparentemente imprendibile: un fortino a dominio del corso del fiume Muluccha, accessibile attraverso un unico e stretto sentiero. Ma un soldato ligure suggerisce al suo capo un abile stratagemma: una decina di cornicen (trombette romane) scalano la parete a picco, mentre Mario lancia un assalto frontale. Quindi, una volta sulla falesia, essi suonano la carica. I Numidi, convinti di essere stati aggirati da un importante contingente, rifluiscono in massa nel forte, inseguiti dai Romani, che riescono quindi a conquistare la piazza. La vittoria, ancora una volta, non è totale: Giugurta non si trova nel forte e risulta introvabile.

Roma consegue la vittoria

Giugurta in catene condotto davanti a Caio Mario.

Giugurta in catene condotto davanti a Caio Mario.

Intorno a Cirta, la loro base militare, i Romani subiscono due attacchi importanti da parte dell’esercito coalizzato dei Numidi, dei Getuli e dei Mauri. Nonostante le forti perdite e una netta inferiorità numerica (circa 90 mila uomini, secondo Orosio, contro certamente due volte meno dei Romani), le legioni riescono a ottenere il successo. Alla fine, il re Bocchus, che ha perduto la maggior parte del suo esercito, decide di parlamentare con i Romani. Questo è proprio quello che si aspettava il Senato romano, che gli promette un trattato di amicizia “nel momento in cui avrà vinto“, riporta Sallustio [5]. Segnale ben ricevuto: nel momento in cui anche Giugurta tenta di negoziare, egli viene catturato dal suo ex alleato e consegnato ai Romani. La guerra è finita. Nel 46 a.C., la Numidia viene annessa a Roma, venendo integrata nella provincia d’Africa. Resterà per circa 5 secoli sotto il dominio romano, fino all’arrivo dei Vandali nel 435.
Per quanto riguarda Giugurta, il re decaduto viene trasferito a Roma nel 104 a.C., per sfilare in catene dietro il generale romano Caio Mario, che si appresta a trarre i benefici politici del suo trionfo. La fine sarà triste: per Plutarco, Giugurta muore di fame nella sua prigione. Per Orosio, invece, il re numida viene più prosaicamente strangolato.

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Note
[1] La famiglia degli Scipioni ha dato una decina di grandi generali alla repubblica, fra i quali Lucio Cornelio Scipione (che toglie la Corsica e la Sardegna a Cartagine) e Publio Cornelio Scipione (che ha combattuto contro Annibale e suo fratello Asdrubale). Il figlio del secondo Scipione l’Africano, è il vincitore di Zama nel 202 a.C. Il nipote adottivo dell’Africano, Publio Cornelio Scipione Africano Emiliano (detto Scipione Emiliano 185-129 a.C.) distrugge Cartagine nel 146 aC.
[2] Tribuni del popolo o della Plebe: sono magistrati che agiscono in parallelo ai poteri giudiziari e legislativi classici; eletti per un anno dai cittadini romani non patrizi, difendono quelli che condannati, fanno appello a loro e dispongono di un diritto di veto (ostruzione); diventano la punta di lancia dei populares, i fautori di una ridistribuzione delle terre e delle ricchezze della conquista, contro gli optimates, i conservatori.
[3] Paolo Orosio: presbitero spagnolo, attivo fra il 390 e il 418, discepolo di Sant’Agostino, redasse gli Historiarum adversus paganos libri septem (“Sette libri delle storie contro i pagani”).
[4] Getuli: tribù che viveva a sud del Massiccio dell’Atlante. Sallustio li considera selvaggi, ma Tito Livio li registra come mercenari di Annibale, fatto che dimostra che essi non dovevano essere né selvaggi, né ignoranti delle pratiche militari romane.
[5] Sallustio: storico romano contemporaneo della guerra civile del I secolo a.C. Nominato Governatore dell’Africa Nova (Numidia annessa) nel 46 a.C. da Cesare, vi scrive la Guerra contro Giugurta, a partire dalle fonti locali o romane come Silla e Rufus. Sallustio ha la tendenza a spiegare gli avvenimenti con la corruzione della sua epoca.