GENESI DELL’ANTIAMERICANISMO IN ITALIA

di Simone Barcelli -

Sia esso di matrice fascista, cattolica o comunista, l’antiamericanismo nostrano ha una tradizione ormai quasi secolare. Iniziò a manifestarsi nei confronti del sistema economico (capitalistico) statunitense per abbracciare poi la politica, la cultura e lo stile di vita americani dopo il secondo conflitto mondiale.  

 

Romano Vulpitta, professore emerito all’Università Sangyo di Kyoto in Giappone, è convinto che l’evolversi dell’americanismo e dell’antiamericanismo in Italia nel secondo dopoguerra sia stato condizionato più dagli eventi di politica interna rispetto a quelli di politica estera. Inoltre, e questo vale anche per altri Paesi, il sentimento di rigetto nei confronti degli USA è determinato anche dalle condizioni socio-culturali, economiche e politiche in cui essi versavano. È per queste ragioni che le forme concrete in cui si è espresso di volta in volta l’antiamericanismo presentano manifestazioni sempre differenti. Se la dissidenza è culturale, si manifesta propriamente come difesa della propria identità nazionale rispetto al modello americano, mentre sul piano politico, essa poggia sulla violazione della sovranità nazionale.
È possibile distinguere, per le diversità di fondo, le principali correnti dell’antiamericanismo individuate dagli storici e che si svilupparono in Italia fin dagli anni Venti del Novecento. Infatti, se da una parte la frangia di destra e quella cattolica focalizzarono sempre la loro reazione ponendo in risalto la questione politica, la sinistra concentrò piuttosto il suo dissenso sull’aspetto economico.

L’antiamericanismo di destra, essendo ideologico, trovava le sue radici profonde nel nazionalismo del primo dopoguerra, poi confluito nel fascismo, in contrapposizione agli umilianti trattati di pace firmati a Parigi. Gli intellettuali di questa parte politica denunciarono un’America priva di valori, senza un retroterra culturale e storico paragonabile a quello che aveva animato i Paesi europei. In più, con l’avvento del regime fascista, subentrò anche una strenua difesa della ‘terza via’, quella del corporativismo, in aperta contrapposizione al capitalismo e al socialismo.
Le sanzioni comminate all’Italia fascista dopo le conquiste coloniali, esasperarono ancor più l’ostilità verso gli USA, con l’opinione pubblica.
Questo retroterra culturale, esasperato durante gli anni della Repubblica di Salò, rappresentò il bagaglio dei nostalgici di destra e del Movimento Sociale Italiano, il partito nato dalle ceneri della Repubblica Sociale Italiana, in un misto di rancore e rivincita nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati occidentali. Un collante, quello dell’antiamericanismo estremo, che dette forza e tenne in vita gli sparuti gruppi neofascisti che cercarono di riorganizzarsi dopo la disfatta dell’ideologia originale.

La contrarietà espressa dal mondo cattolico già alla fine dell’Ottocento, verteva soprattutto sul rifiuto della modernità e del liberismo provenienti dagli Stati Uniti, poiché costituivano una seria minaccia al modello cristiano europeo. L’antiamericanismo dei cattolici prendeva naturalmente spunto dall’enciclica Longinqua oceani emanata dal papa Leone XIII nel 1895, che si rifaceva in buona sostanza al pensiero già espresso sulle pagine della Civiltà Cattolica, l’organo di punta dei gesuiti, che per primi avevano intuito i pericoli provenienti dagli Stati Uniti e che potevano mettere in difficoltà la Chiesa.
L’avversione per lo stile di vita americano, invece, divenne dominante nel secondo dopoguerra, quando quel modello rischiava seriamente di attecchire anche in Italia, mettendo a rischio i pilastri della Chiesa, cioè la famiglia e l’educazione. In particolare, come osserva Massimo Teodori, già professore ordinario di Storia e istituzioni degli Stati Uniti’ dell’Università di Perugia, appariva preoccupante la dissoluzione dei costumi e il pericolo rappresentato dal divorzio. La Democrazia Cristiana, perlomeno l’ala sinistra del partito, si fece carico dei timori provenienti dal mondo cattolico, anche se ciò appariva in netto contrasto con gli interessi politici nazionali.
Il Vaticano, infine, nonostante tutto, fu persuaso a una scelta di campo ben definita: l’alleanza dell’Italia con gli USA, tramite gli uomini della DC, si rendeva necessaria per combattere il nemico comune, l’ideologia comunista dell’URSS che si stava propagando velocemente anche nella penisola. Ma questo non significò l’abbandono delle forti contrarietà espresse nei confronti della società americana, che proseguirono sulle pagine degli organi di stampa clericali: Politica Sociale e Cronache Sociali (entrambe nella sfera d’influenza delle sinistre democristiane, riconducibili rispettivamente alle correnti di Giovanni Gronchi e Giuseppe Dossetti), Civiltà Cattolica, L’Osservatore Romano, Il Popolo e Avvenire.

Ecco perché il Piano Marshall veniva considerato dai cattolici del tutto strumentale all’industria statunitense, che aveva la necessità di funzionare a pieno ritmo e d’individuare nuovi sbocchi commerciali sui mercati esteri. Il protestantesimo, le libertà individuali e l’economia di mercato costituivano per la Chiesa cattolica un serio pericolo, non solo per i dettami del Vaticano, ma anche per il futuro assetto sociale dell’Italia, in quel momento particolarmente fragile.
L’antiamericanismo cattolico, per certi versi sovrapponibile a quello delle destre e delle sinistre, poneva l’accento anche sulle conseguenze provocate dal sistema capitalistico, confermato dal crollo di Wall Street del 1929, che aveva asservito l’uomo alle ragioni economiche e al profitto. Anche l’Italia fascista scoprì che l’America tanto sognata in realtà era pura illusione, poiché quella società covava in sé gli elementi di una disgregazione distruttiva, con un modello di sviluppo non più perseguibile.
Più recentemente questo tipo di pregiudizio antiamericano in Italia è stato sostenuto da Comunione e Liberazione, l’organizzazione dei giovani cattolici, che durante i suoi meeting e sulle pagine della rivista Sabato, ha ripreso con forza l’opposizione al modello economico americano, facendo leva sui vecchi pregiudizi del mondo cattolico già in voga nel secondo dopoguerra. In più, CL sposò il teorema dell’esistenza di una cospirazione che gli Stati Uniti avrebbero realizzato con la P2 di Licio Gelli, la loggia di garanzia degli interessi americani in Italia.

Il pensiero antiamericano coltivato dalle sinistre socialiste, comuniste e marxiste, nei primi decenni del Novecento non era ancora ben radicato, poiché la società americana, per il suo dinamismo e la rapida trasformazione industriale, appariva, nonostante l’avversione nei confronti della borghesia occidentale, come un modello ammirevole, anche per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.
Nel secondo dopoguerra, quando la comunione d’intenti degli Alleati venne meno per il mutamento radicale degli equilibri internazionali, l’atteggiamento della sinistra cambiò radicalmente in conseguenza delle direttive imposte dall’Unione Sovietica, che costrinse i partiti e i movimenti comunisti, compresi quelli dell’Europa occidentale, ad allinearsi alla politica estera della casa madre in aperto contrasto agli Stati Uniti.
L’inversione di tendenza avvenne in conseguenza del discorso in cui il presidente americano Harry Truman, il 12 marzo 1947, annunciò al mondo la “dottrina” per impedire l’espansione dell’URSS e del comunismo e l’attuazione del Piano Marshall.
Sei mesi dopo, nella prima riunione del Cominform, l’organismo che riuniva e coordinava partiti e movimenti comunisti, Andrej Aleksandrovič Ždanov, ideologo di punta della Segreteria del Comitato centrale del PCUS, diramò la direttiva cui dovevano attenersi i comunisti nel mondo. In sostanza, come ricorda Teodori, le istruzioni furono «lotta dura contro i partiti borghesi, scontro frontale tra comunismo e capitalismo, quindi, attacco al nemico principale individuato negli Stati Uniti e nei loro alleati politici e statuali».

Tra i principali compiti strategici del movimento internazionale comunista, come ricordava lo storico Victor Zaslavsky, c’era la creazione nei paesi occidentali di una vasta coalizione di forze sociali sulla base della difesa della pace: un movimento di massa che avrebbe proclamato obiettivi patriottici e antimilitaristi. Da quel momento, tutte le sinistre europee, compreso il PCI, si adeguarono a queste norme. Il Piano Marshall, il Patto Atlantico e la nascita della NATO, contribuirono per molti anni, in modo virulento, ad alimentare il sentimento antiamericano in tutta Europa.
La propaganda comunista in Italia, tra il 1945 e il 1953, che faceva leva su un pugno di riviste e giornali (Rinascita, Società, Il Risorgimento, Il Politecnico e L’Unità), secondo gli storici Elena Aga-Rossi e Giovanni Orsina raggiunse l’obiettivo di convincere i lettori sulla bontà di quella divulgazione, tanto che oggi si può dire che essa fu di grande efficacia per la causa dell’antiamericanismo. Indubbiamente il successo fu propiziato da un terreno già reso fertile dagli intellettuali fascisti e cattolici. Grazie anche alla scarsa conoscenza della realtà americana e all’ignoranza delle condizioni sovietiche da parte dell’opinione pubblica, «il marxismo-leninismo spiegava ogni evento o fenomeno del mondo reale, mentre i fenomeni e gli eventi rinforzavano l’ideologia – in un cerchio logico che appariva inattaccabile». Utilizzando tutte le risorse disponibili, «la propaganda comunista poté presentare un’interpretazione coerente e convincente degli eventi storici recenti».
Andrea Guiso, professore ordinario di Storia contemporanea dell’Università “La Sapienza” di Roma, suggerisce che fu decisivo per la causa, in quel periodo, «l’incremento dell’editoria comunista e delle collane economiche, a sua volta collegato alla creazione di una larga rete di biblioteche e di università popolari». I pregiudizi antiamericani diminuirono d’intensità solo dal 1956, dopo che il presidente Nikita Chruscev, al XX Congresso del PCUS, denunciò pubblicamente i crimini commessi dal predecessore Stalin.

Nella decade successiva i comunisti italiani alzarono di nuovo i toni della protesta contro gli USA, accodandosi alle contestazioni che stavano dilaniando dall’interno quel paese, convinti che fossero opera di un movimento rivoluzionario d’ispirazione marxista.
In realtà, come arguisce Teodori, i “compagni” non avevano capito nulla, perché gli americani, per lo più studenti, erano scesi in piazza per il riconoscimento dei diritti civili, per lottare contro la povertà e per opporsi alla guerra del Vietnam. Eppure, proprio il coinvolgimento armato degli Stati Uniti nel Sudest asiatico fu la molla che, anche in Italia, permise la rinascita, dopo quasi vent’anni dalla guerra di Corea, di un movimento pacifista, sostenuto per larga parte dalle sinistre, che diede nuova linfa all’antiamericanismo.
Dagli anni Settanta il sentimento antiamericano della sinistra italiana spostò l’attenzione dell’opinione pubblica sul probabile coinvolgimento dell’intelligence americana, se non della NATO stessa, nella cosiddetta ‘strategia della tensione’, come parevano dimostrare le inchieste giudiziarie e le conclusioni raggiunte dalle commissioni parlamentari sul fenomeno del terrorismo e delle stragi. Secondo Teodori, però, la tesi del presunto intervento cospirativo americano contro la democrazia italiana, presentata in quei consessi con una visione schematica e distorta, appare bizzarra, denotando un antiamericanismo becero ancora ben radicato anche tra i postcomunisti.
Tuttavia, negli anni precedenti, quelli del possibile ‘compromesso storico’, che per una volta trovarono d’accordo Berlinguer e Moro, il PCI ebbe l’esigenza di ridimensionare bruscamente il suo antiamericanismo, anche se in realtà le critiche nei confronti degli USA, sempre e comunque sollecitate dall’URSS, proseguirono senza sosta nelle piazze, anche per appagare la base elettorale. Teodori non fatica a riconoscere che in questo ‘doppio binario’ comunista coesistevano atteggiamenti contraddittori e incompatibili. Fin dal 1974 il PCI aveva, infatti, modificato radicalmente la propria posizione internazionale, accettando l’esistenza della NATO, non solo in ossequio alle leggi, ma riconoscendone la funzione in un necessario equilibrio fra i due schieramenti.
Due anni dopo Berlinguer dichiarò, in un intervento al comitato centrale del PCI, che «non fa parte della nostra politica e dei nostri obiettivi alterare i rapporti di equilibrio tra i due blocchi, far uscire unilateralmente l’Italia dalla NATO, turbare i rapporti di amicizia tra la Repubblica Italiana e gli USA». Uno strappo, quello di Berlinguer, che fu confermato in una dichiarazione resa a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera del 15 giugno 1976, senza peraltro coinvolgere nella questione i vertici del partito.
Il 1° dicembre 1977 il Partito comunista firmò con gli altri partiti dell’arco costituzionale anche la risoluzione di «apprezzamento per gli indirizzi e l’opera del governo italiano in campo internazionale e nel quadro dell’alleanza atlantica», in cui il Patto Atlantico veniva definito “termine fondamentale di riferimento” della politica estera italiana, come annotò Giulio Andreotti nei suoi diari.

 

Per saperne di più

Simone Barcelli, Yankee go home! Il sentimento antiamericano in Italia, Idrovolante Edizioni, 2024.