FILIPPINE 1898, BANCO DI PROVA DELL’IMPERIALISMO YANKEE

di Massimo Iacopi -

Gli Stati Uniti si lanciano in una operazione a 11 mila chilometri dalle coste californiane per strappare gli ultimi brandelli del morente impero spagnolo e posizionarsi in prossimità della Cina. È l’atto di nascita dell’imperialismo americano.

20th_kansas_volunteers_marching_through_caloocan_at_night

Il 20° Kansas Volunteers attraversa Caloocan di notte, di G. W. Peters

Il 1° maggio 1898, all’alba, il conflitto ispano-americano si apre non nelle acque cubane ma molto più lontano, a ovest, a 11 mila chilometri dalle coste californiane, nell’arcipelago delle Filippine, colonia sotto dominio spagnolo da circa tre secoli. Il commodoro Dewey, il comandante della flotta americana del Pacifico, distrugge la squadra navale spagnola posta a difesa della baia di Manila. L’annuncio della vittoria rende euforici gli Americani. Da New York a Los Angeles una febbre patriottica si impadronisce degli Stati Uniti. L’evento, a dire il vero, riveste un alto valore simbolico: segna l’atto di nascita di una politica imperialista. La “splendida piccola guerra” – secondo la celebre formula del segretario di stato John Hay – condotta nel mar delle Antille e nell’oceano Pacifico sulle spoglie del vecchio impero spagnolo, ha ampiamente superato il contesto fissato nel 1823 dal presidente James Monroe, seguendo il quale gli Stati Uniti, nel campo della politica estera, si erano riservati il diritto di reggere gli affari del Nuovo Mondo. L’espansione della potenza, da quel momento ha smesso di essere continentale per diventare mondiale. La nuova nazione è ormai molto lontana da quella prima struttura che si era affrancata dalla tutela britannica nel 1783 e da quel paese, dalle frontiere non ben definite, che era stato sull’orlo di una scissione in due repubbliche rivali in occasione della Guerra di Secessione. Ormai gli Americani, usciti dal loro territorio fanno decisamente irruzione sulla scena mondiale.
Il 10 dicembre 1898, il Trattato di Parigi riconosce l’indipendenza di Cuba, così come la cessione, da parte della Spagna, delle Filippine, di Porto Rico, dell’isola di Guam, in cambio del pagamento di 20 milioni di dollari. Qualche mese prima, gli Stati Uniti avevano conquistato l’isola di Wake e annesso l’arcipelago delle Hawaii. Nella spinta ad ovest, il loro impero si ingrandisce con le isole di Johnston, di Palmyra e di una parte di Samoa, enclavi che organizzeranno come basi navali.
Gli Stati Uniti occupano in particolare le Filippine, una decisione paradossale se pensiamo che l’intervento era stato motivato dalla volontà di fornire appoggio ai ribelli opposti al dominio spagnolo. Così facendo Washington sceglie la via imperiale, perdendo la sua “innocenza”, ammainando per il momento la bandiera della “libertà”. Ed è proprio in questo senso che va interpretato l’invito loro rivolto da Rudyard Kipling ad assumersi, a loro volta, il pesa del “fardello dell’uomo bianco” (Rudyard Kipling, The White Man’s Burden: The United States and The Philippine Islands, “McClure’s Magazine”, febbraio 1899).

Lo slancio verso il Sudest Asiatico

Questa iniziativa americana costituisce una sorpresa solo a metà. Era da decenni che gli Stati Uniti si stavano interessando dell’Asia del sud-est, del mercato cinese, dove avevano cominciato a tessere strette relazioni commerciali. Nell’area, a poco a poco, si era venuto a delineare, con la forza o per via diplomatica, un “sistema americano”. Nel 1854 la squadra del contrammiraglio Perry aveva effettuato una dimostrazione di forza nelle isole Ryukyu e nelle isole Bonin per obbligare il Giappone ad aprire i suoi porti. Nel 1859 l’US Navy va a difendere gli interessi americani davanti a Shanghai e farà la stessa cosa nel 1871 sulle coste della Corea. Undici anni più tardi viene occupata l’isola di Pago Pago, nell’arcipelago delle Samoa. Tutti segni precursori di un sogno imperialista, quello di possedere una catena di appoggi che metterebbe la Cina alla portata degli USA. Nel corso degli anni ’80 del XIX secolo gli Europei si impadroniscono dell’India e dell’Indocina e la “corsa alle colonie” raggiunge il suo culmine in Africa, dopo la Conferenza di Berlino del 1885.
La situazione internazionale risveglia delle inquietudini. A Washington si soppesa la minaccia di un prossimo conflitto di interessi con i paesi europei. Questi si convincono che gli americani non indietreggeranno pur di soddisfare le loro ambizioni e mantenere il potere sullo scacchiere mondiale. Gli investitori britannici rappresentano dei seri concorrenti in America latina. Su tutta la superficie del globo la Royal Navy inglese domina i mari. Dopo il disastro del 1870, la Francia ha ricostituito le sue forze, sia economiche, sia militari e vigila gelosamente sui suoi territori d’oltremare. La Germania unificata, sebbene appaia instabile sul piano politico, ha consolidato la sua potenza industriale nel cuore dell’Europa. La sua politica estera intraprendente dimostra la sua volontà di estendere la sua influenza a livello planetario, anche a rischio di provocare crisi diplomatiche.
Inoltre, l’ambiente degli affari americano cerca di evidenziare la necessità e le ricadute economiche dell’avventura coloniale. In effetti, dopo che dal 1890 le autorità federali hanno annunciato la chiusura ufficiale della frontiera, gli industriali temono una prossima saturazione del mercato interno. Un argomento contestabile, dal momento che le esportazioni non superano il 3-4% del prodotto interno lordo (PIL) e che i consumi interni dimostrano un trend in crescita. Ma il mercato cinese, che conta più di 400 milioni di consumatori potenziali, alimenta i “sogni” degli industriali. Gruppi di pressione come l’American China Development Company fanno immaginare che questo “sbocco miracoloso” potrebbe far marciare a pieno regime le fabbriche americane per dei decenni.

Esportare la democrazia

Il nocciolo del problema si trova altrove: l’imperialismo americano è sostenuto dall’idea del “destino manifesto” della giovane nazione. Gli Stati Uniti sono pronti a prendere il testimone dalla Vecchia Europa. Un crescente numero di Americani pensa che il loro paese sia chiamato a giocare un ruolo fondamentale nella storia dell’umanità e che sia loro dovere occupare il posto che essi meritano nel mondo. La difesa dei valori nazionali, sostenuta dagli ambienti anglo-sassoni e protestanti, provoca una brusca ascesa delle pulsioni xenofobe nelle quali si inscrive il jingoismo, ovvero l’ultranazionalismo con forti venature di razzismo. L’espansionismo americano trova la sua giustificazione morale nella responsabilità di portare agli altri popoli la libertà, la democrazia e il progresso. Henry Cabot Lodge, senatore del Massachusetts, esprime il sentimento che prevale al momento, dichiarando che il suo paese deve figurare nel rango delle “grandi nazioni che stanno assorbendo i territori incolti del globo”.
La corrente evangelizzatrice rappresentata dal missionario Josiah Strong appoggia questa teoria. Nell’Our Country, pubblicato nel 1885, questi fornisce ampie assicurazioni ai suoi concittadini del fatto che il destino eccezionale degli USA fornisce netta testimonianza del successo del più forte, del più adatto ad assumere la direzione degli affari mondiali.
Le considerazioni strategiche non sono di certo assenti. Le tesi dell’ammiraglio Mahan, in special modo, raccolgono un’eco favorevole. L’America, per dotarsi dei mezzi adeguati alle sue ambizioni, deve essere, a suo dire, una potenza navale. Le basi ben difese nel Pacifico serviranno a estendere la sua sfera d’influenza e ad assicurargli il controllo del mercato asiatico. Theodore Roosevelt, segretario di stato alla Marina, gli darà ampiamente ragione.

Una lotta aspra

Nel corso degli avvenimenti del 1898 il “Washington Post” riassumere in termini evocatori la fiammata imperialista che si impadronisce degli Stati Uniti: “Un nuovo sentimento sembra abitare dentro di noi: la coscienza della nostra propria forza. E, con essa, un nuovo appetito: il desiderio di darne dimostrazione. Ambizione, interesse, appetiti fondiari, fierezza o semplice desiderio di risolvere il problema… Noi siamo di fronte a uno strano destino. Il gusto dell’impero regna in ciascuno di noi come il gusto del sangue regna nella giungla” (12 giugno 1898).
Ecco dunque l’occasione delle Filippine. Un eccellente porta di ingresso verso la Cina. Una terra ricca e fertile per le colture tropicali, specie per il tabacco, la banana, l’ananas, il riso, la canna da zucchero e il caffè. Gli Americani non ignorano anche l’esistenza di ricchezze minerarie, oro, rame e ferro. Per giustificare il ricorso alle armi nel lontano Pacifico il presidente McKinley, che per l’occasione ha sacrificato le sue tendenze pacifiste in nome dell’interesse nazionale, evoca l’ingiustizia fatta al popolo filippino e il dovere morale che impone agli Stati Uniti di andare in soccorso, mentre, in privato, più di qualcuno parla di un “regalo degli Dei”. Il governo federale, all’indomani della vittoria e in nome di principi morali, pretende anche di voler educare civilizzare e cristianizzare le Filippine, che nel frattempo sono state giudicate decisamente poco preparate per l’indipendenza. I pregiudizi razzisti si frammischiano ad argomenti di buona coscienza. Circa un milione e mezzo di “indigeni”, convertiti in parte al cattolicesimo, vengono descritti come degli esseri inferiori, inselvatichiti e incapaci di progresso.
In tale contesto, i soldati americani diventano da liberatori a invasori. Nel febbraio 1899 i ribelli, guidati dal nazionalista Emilio Aguinaldo, si sollevano contro i “liberatori”. La guerra che ne segue è implacabile. «Le Filippine saranno nostre per sempre», così si esprimerà il senatore Beveridge nel gennaio 1900. Da Manila alla catena di Cebu, passando per le pianure di Luzon, gli insorti verranno inseguiti senza tregua. Dopo qualche mese di combattimenti di tipo convenzionale, ha inizio una guerriglia feroce. Il generale Arthur MacArthur Junior, che esercita le funzioni di governatore generale, opta per la maniera forte: confische, requisizioni, saccheggio dei raccolti, distruzione delle proprietà, torture ed esecuzioni sommarie di prigionieri, non risparmiando neanche i civili. Si parla di 100-200 mila vittime filippine. L’US Army, che ha schierato 70 mila uomini, conta 4.165 morti, la maggioranza dei quali a causa di malattie.
L’entusiasmo iniziale, alimentato dai giornali come il “New York World” di Joseph Pulitzer e il “New York Journal” di William Randolph Hearst, scema col passare dei mesi. La Lega anti imperialista, fondata a Boston nel 1898 e che riunisce democratici del Nord, repubblicani progressisti e sindacalisti, denuncia la guerra e la perversione dello spirito americano. Figure come quelle di William Jennings Bryan, sfortunato candidato alle presidenziale del 1900, di Andrew Carnegie e di Mark Twain, richiamano gli Americani al ritorno alle tradizioni isolazioniste. Perché, sostengono, il loro paese dovrebbe avvilirsi a imitare le potenze coloniali, dal momento che rappresenta, secondo le parole di Thomas Jefferson, la «migliore speranza del mondo»? In definitiva esiste una flagrante contraddizione con gli ideali che hanno presieduto alla nascita della nazione americana. A poco a poco gli oppositori della politica ufficiale guadagnano terreno e la loro influenza diventa tale che l’annessione delle Filippine non viene ratificata dal Senato per pochi voti il 6 febbraio 1899.
Nella Filippine, le ostilità si concludono nel luglio 1902 con un cessate il fuoco. Theodore Roosevelt, da poco eletto, se consente qualche concessione in materia di amministrazione, non molla la presa americana, che giudica indispensabile per condurre al meglio la politica della “porta aperta” (open door policy) con la Cina. In tal modo nelle zone meno accessibili dell’arcipelago la guerriglia perdura fino al 1913. Il periodo di dominio USA sulle Filippine si estenderà per circa mezzo secolo e, nel 1935, verrà accordato al “Commonwealth delle Filippine” uno statuto di semi autonomia, che comporta delle relazioni di vassallaggio con gli Stati Uniti.
Il paese diventerà indipendente solamente nel 1946, al termine della Seconda Guerra Mondiale, nel contesto del processo mondiale di decolonizzazione. Per ironia della storia, l’indipendenza verrà proclamata il 4 luglio, il giorno della festa nazionale americana.

 

 

Per saperne di più
S. Harris, God’s Arbiters: Americans and the Philippines, 1898-1902 – Oxford University Press, 2011
D. Schirmer, Republic or Empire: American Resistance to the Philippine War - Schenkman e Co., Cambridge, 1972.
H. W. Brands, Bound to Empire: The United States and the Philippines – Oxford University Press, 1992.