FAME USURPATE: IL BLUFF DEI GENERALISSIMI

di Alessandro Frigerio -

Cosa nasconde la fama di Joffre, Foch e Haig, generali pluridecorati della Prima guerra mondiale? La gloria assegnata loro da istituzioni, accademie e biografie fu meritata? E quanti insuccessi sono stati taciuti in favore della ragion di Stato? Già nel 1934 lo storico Alberto Lumbroso aveva cercato di rispondere a queste domande…

 

cop-lumbrosoFame usurpate è il nuovo titolo che si aggiunge alla collana “Grande Guerra” in formato e-book, lanciata da Storia in Network in collaborazione con Booksystem Editore e Amazon. Come nelle uscite precedenti, lo spirito dell’iniziativa resta invariato: riportare all’attenzione dei lettori, in occasione del centenario della Prima guerra mondiale, volumi di grande pregio ma ingiustamente dimenticati dai grandi circuiti editoriali. Da una parte saggi e memoriali per rivivere le vicende belliche e i retroscena politici e diplomatici attraverso gli occhi di chi ne fu testimone e talvolta protagonista. Dall’altra, narrativa e poesia, con alcuni titoli che, al momento della loro uscita, fecero letteralmente scalpore e furono premiati dal pubblico al pari di opere oggi considerate come veri e propri classici.
Già nel titolo,
Fame usurpate si propone di scalfire l’immagine celebrativa, e inevitabilmente retorica, dei grandi condottieri degli eserciti dell’Intesa.  Alberto Lumbroso (1872-1942), erudito ed esperto di storia militare, direttore della Rivista di Roma, volontario durante la Grande guerra, quindi collaboratore di Critica fascista, scrisse nel 1933 questo acuto saggio per sottoporre a vaglio critico l’operato dei Generalissimi  anglo-francesi. Evidenziando glorie immeritate, sottoponendo ad attenta analisi autobiografie eccessivamente encomiastiche se non addirittura truffaldine, portando alla luce inadeguatezze e incapacità a lungo taciute in favore della ragion di Stato.  
Sorretto da una scrittura vivace e da una brillante vena polemica, Lumbroso procede così a una sorta di «revisione dei brevetti d’immortalità troppo presto distribuiti» ai comandanti francesi, inglesi e americani. A partire da Joseph Joffre – “papà Joffre” secondo la propaganda transalpina – Maresciallo di Francia e principale responsabile di quel massacro di Verdun messo in atto applicando testardamente la dottrina dell’assalto a oltranza. Per passare poi a Ferdinand Foch, insediato nell’aprile del 1918 alla guida del Comando Unico alleato per meriti mai completamente chiariti: fu lui, formalmente, l’artefice della vittoria finale, ma di fatto «dovette i suoi successi più al graduale indebolirsi finale del nemico e all’immenso contributo di forze alleate, che non al proprio genio militare». E, ancora, l’inglese Douglas Haig, «il più mediocre dei Generalissimi», e l’americano John Pershing, di cui sono evidenziati i limiti tattici e strategici.
L’edizione proposta da Booksystem, ripresa dalla versione pubblicata da Agnelli nel 1934, è stata integrata da una serie di note che consentono al lettore di seguire più agevolmente i riferimenti a episodi e personaggi. Il volume può essere acquistato cliccando sull’immagine di copertina qui sopra.
In esclusiva per i nostri lettori, offriamo un estratto in cui Lumbroso analizza la figura di Joffre in relazione alla “leggenda” che ne fece Charles Maurras e al controverso ruolo giocato dal generale durante la battaglia di Charleroi (21-23 agosto 1914).

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Haig e Foch a Londra nel luglio 1919 - Rol/Gallica

Haig e Foch a Londra nel luglio 1919 – Rol/Gallica

Strano a dirsi, il più incapace [Joffre] dei tre illustri generali Francesi della Grande Guerra fu anche il più tirannico, quasi che la sua impotenza volesse mascherarsi e trincerarsi dietro ad un carattere di una forza che apparisse sovrumana ai membri del governo e a tutti i dipendenti. Gli imbastitori e tessitori di leggende, più sono celebri come scrittori, e più sono responsabili della difficoltà che la serena critica prova a smantellare posizioni divenute formidabili per l’autorità di chi ha creato con la sola fantasia grandezze inesistenti e geni non mai nati. Fra questi falsari della storia ha un posto eminente uno degli autori francesi che più sono letti non solo in patria ma in tutto il mondo, voglio dire Charles Maurras. Egli, sul finire del 1932, ha pubblicato un libro intitolato, molto malamente, Le Quadrilatère: parola dell’architettura militare e della storia dell’arte della guerra che risponde assai mediocremente al desiderio visibile, nel Maurras, di simboleggiare l’armatura dell’esercito francese nell’ultima guerra, armatura formata da quattro capi, che secondo Maurras furono Gallieni, Mangin, Foch, Joffre. Anteporre i tre ultimi di questi quattro Capi ad un Pétain ed a un Lyautey, mostra in Maurras o ignoranza o malafede; ma siccome tutta l’opera dell’insigne scrittore, ed il fatto che egli studiò giorno per giorno lo svolgersi della guerra da un osservatorio ove le informazioni giungevano di prima mano e attendibilissime, escludono l’ignoranza, non rimane che la spiegazione della malafede, la quale spiegazione, trattandosi di un uomo nato soprattutto per la polemica, e per ciò negato per la storia, è assai umana e rispondente alla buona regola della psicologia. Dunque, secondo Maurras, sono gli sforzi combinati di quei quattro che hanno salvata la patria.
Ma gabellare per «combinati» gli sforzi di uomini che erano «cani e gatti» fra di loro, vuol dire sostituire una leggenda sciovinistica e completamente infondata, alla realistica visione di uno storico obbiettivo. Maurras concede a Gallieni, a Mangin, a Foch, prerogative che i due ultimi non possedettero affatto, e di cui il primo fu orbato, quando giunse al Ministero della Guerra, dalle sofferenze fisiche. Ma dove Maurras esce completamente dal seminato, e altera i tratti più personali dei suoi eroi, è nel capitolo su Joffre.

Un acuto critico francese, Jean Norel, è giustamente rimasto colpito e scandalizzato da questa frase veramente paranoica di Maurras: «La durissima dittatura di Joffre vinse la Repubblica ancor prima di fermare il Tedesco». Una tale affermazione non manca di essere saporosa, direi anzi divertente se la maestà della storia concedesse l’uso di un simile aggettivo quando si tratta della salvezza o della rovina di un esercito detentore di secolari e nobili tradizioni.
Ma dove e quando, e innanzi a quali risoluzioni e a quali gesti, Maurras ha potuto credere di vedere che Joffre, questo generale creato Generalissimo non per i suoi meriti militari ma per i suoi meriti politici, ovvero per la sua ortodossia di fronte alla Costituzione dell’infrollito regime, «abbia vinto la Repubblica»? Diede egli forse questo colpo mortale a una forma degenerata di governo giustamente detestata da Maurras, allorché il Capo di Stato Maggiore consigliò al governo di Viviani e al presidente della Repubblica di abbandonare anzitempo e vilmente la capitale, per «filare» su Bordeaux?
Jean Norel dice con molto buon senso, che il consiglio dato dal Generalissimo a quel gruppo di impotenti politici, ansiosi di andarsi a distrarre nei Cafés-Chantants di Bordeaux, «non era che un consiglio di prudenza, per mettere i suoi amici e protettori al riparo della imminente bufera». E non è neanche vero che Joffre abbia almeno avuto questo merito «di buon amico», poiché da molti anni è risaputo che anzi criticò aspramente quella vilissima fuga del governo, eseguita con una fretta che fece perdere per sempre a Viviani, e per molti anni a Poincaré, la stima e la simpatia del Parlamento e soprattutto dei Parigini. E la criticò precisamente con questa frase che ci mostra come Joffre, noto per parlare pochissimo, quando si decideva ad aprir bocca, parlava come un soldataccio sboccato e non come un generale osservante delle regole stilistiche della più elementare buona educazione: Je leur ai dit de partir, je ne leur ai pas dit de foutre le camp!

Quella di Joffre fu la peggiore delle Dittature militari, poiché il dittatore aveva fatto il sacrificio d’Origene, delegando i propri pieni poteri ai più modesti fra i suoi collaboratori al Quartier generale, sicché il Comando Joffre fu il periodo in cui i colonnelli (basti per tutti l’esempio del colonnello Alexandre che non senza malafede istigò Joffre a silurare un grande soldato e illustre stratega come Lanrezac) mandarono a casa i generali d’Armata e di Corpo d’Armata, e gli Alti Comandi vissero in un perpetuo terrore che ne paralizzava l’azione, a totale danno del bene della Patria, sicché Norel scrive una grande verità quando, alle fantasie storiche di Maurras, contrappone questa energica dichiarazione:
«Storicamente parlando, assai più vero di quanto si legge nel libro di Maurras, è dire che il governo della Repubblica ha, per mezzo di un decreto, posto fine, con un tratto di penna, nel dicembre 1916, alla dittatura di Joffre».
E fu tutto merito non già di Poincaré – quantunque il presidente della Repubblica, come appare dal suo Diario, avesse benissimo compreso le tare e le colpe e la insipienza di Joffre – e nemmeno di Briand, né di altri ministri, ma fu opera specialissima del più ipercritico ma più lungimirante membro dell’opposizione, di un modesto deputato, Giorgio Clemenceau, il quale, alle quotidiane incensature joffriane di Hanotaux o di Reinach o di Barrès, seppe con ferrea fermezza contrapporre ogni mattino un attacco feroce a Joffre nel famoso giornale del Tigre L’Homme libre, divenuto ben presto, per la tirannia della censura poincariana, L’Homme enchaîné.

Nella biografia di Joffre, la pagina che nessun suo laudatore riesce a rendere bella per un capitano, è quella su Charleroi. Questa battaglia per diciotto anni è stata un enigma storico, e le ragioni della disfatta francese accampate or da questo or da quel testimone, or da questo or da quello storico, sono state, eccezionalmente e singolarmente, così diverse le une dalle altre, da aver reso sempre più fitto il mistero. Mistero che solo un generale di grande intelligenza e di ancor più grande carattere, come Rouquerol, poteva diradare; ma per forza di cose e per riguardi umani egli doveva attendere lunghi anni per poterci narrare ciò che aveva sin dal 1915 o intuito o saputo. Ed ha atteso dal 1915 al 1933. Ma quest’anno egli ha finalmente offerto al pubblico uno studio che è definitivo, nel senso che «l’enigma di Charleroi» non esiste più. Non sappiamo i nomi dei colpevoli, all’infuori di quello di Joffre, ma sappiamo almeno che fra questi nomi non va certamente incluso quello di Lanrezac, il disgraziato comandante della 5a Armata, e se ignoriamo i nomi di quasi tutti i colpevoli, la colpa stessa è inondata da viva luce, ad opera del coraggioso generale Rouquerol. Il quale implicitamente ci conferma che Lanrezac nell’agosto del 1914 ha salvata la Francia.

In grazia sua, sappiamo per filo e per segno come si svolsero i fatti. L’ordine del 21 agosto, ore 8, inviato dal comandante della 5a Armata ai comandanti dei suoi Corpi, in cui proibiva loro di scendere nelle bassure della Sambre e prescriveva che si fortificassero sul pianoro di Arsimont, non è mai giunto a destinazione. Un bene informato, Jean Norel, garantisce, per cognizione sua personale, che «quell’ordine venne fermato nel corso della sua trasmissione». Chi lo fermò? Poco monta, ed in ogni modo è facile comprendere che si tratta di un ufficiale del Quartier Generale di Lanrezac. Non avendo i medesimi motivi, per tacere, che hanno fermata la penna di Rouquerol e di Norel, dirò che ho forti presunzioni per formulare l’ipotesi che il colpevole sia stato o il Capo di Stato Maggiore di Lanrezac, cioè il generale Hély d’Oissel o l’ufficiale di collegamento, colonnello Alexandre. Le iniziative prese dai comandanti di Corpo, nella Valle della Sambre, non sono, in linea generale, da condannare, poiché essi, ignorando le intenzioni del Comando d’Armata, si conformavano alle fatalissime idee d’offensiva ad oltranza che avevano inquinata la istruzione del Gran Quartier Generale, in data dell’8 agosto, a firma di Joffre, il quale, essendo per natura sua «l’uomo della difensiva», aveva apaticamente o meglio fatalisticamente firmato ad occhi chiusi ciò che gli sottoponevano i «Giovani Turchi» irresponsabili che lo attorniavano, i quali, come del resto anche Foch, erano tutti scriteriati, squilibrati, ciechi fautori «dell’offensiva ad oltranza in qualunque momento, in qualunque condizione». E questa istruzione dell’8 agosto era la sola che quei comandanti di Corpo avessero letto, poiché, come dicevo, non giunse loro l’ordine firmato da Lanrezac il 21 agosto.

Il generale Rouquerol affronta con libero cuore e con onesta coscienza il doloroso episodio per il quale Joffre, il vero responsabile, per salvare se stesso, silurò un uomo del valore del suo amico, degno di essere suo maestro, Lanrezac. Scrive Rouquerol: «Un’operazione di guerra ammette sempre una divergenza profonda di vedute fra il Capo che la ordina ed il subordinato che la eseguisce. Questo inconveniente si è fatto pesantemente sentire a Charleroi. Sarebbe certamente stato meglio se questa divergenza non fosse esistita, ma a una condizione tuttavia, che è capitale, che cioè la direzione generale delle operazioni (leggi: Joffre) fosse ispirata dalla chiaroveggenza del comandante della 5a Armata (leggi: Lanrezac). L’offensiva, se fosse stata condotta a fondo nelle condizioni che erano state prescritte dall’autorità superiore, sarebbe terminata con un disastro».
Quel che Rouquerol non dice, ma che chiaro appare fra le sue righe, è che Lanrezac ha salvato la Francia a Charleroi, e che Joffre, il quale aveva predisposto ciecamente una catastrofe che fu evitata solo dalla lucida mente del suo subordinato, non è stato soltanto un cattivo Generalissimo, ma è stato anche un uomo senza coscienza, quando ha silurato precisamente quel compagno d’armi che gli aveva evitato di essere la causa diretta della rovina del suo paese!

Che un generale del valore e del carattere di Rouquerol giunga a dire che «fu scientemente falso» il messaggio inviato la mattina del 25 agosto da Joffre dal proprio Quartier Generale, in cui osava, sapendo di mentire, partecipare che l’attacco della 4a Armata si faceva «in buone condizioni» (si noti bene: della 4a, non della 5a Armata), è un fatto che dà il colpo di grazia alla leggendaria grandezza del primo Generalissimo francese, poiché «questo attacco francese era fallito la vigilia su tutta la linea», e il giorno successivo Joffre non poteva certamente ignorare tale sfortunatissimo esito. Eppure, per dirla col generale e storico francese citato, ebbe «la faccia tosta di mandare un simile messaggio, che, se il comandante della 5a Armata, Lanrezac, fosse stato meno intelligente, poteva determinare la perdita completa di tutta la 5a Armata»!
Ma la malafede di Joffre è sistematica, è cronica, poiché egli non ha mai riconosciuto, né nei colloqui che per lunghi anni ebbe dopo la Guerra, né nelle sue memorie postume, ciò che lealmente ammette Rouquerol, cioè l’efficacia della difesa compiuta dall’esercito belga davanti a Liegi e a Namur.
Lunga fu la dittatura militare di Joffre, ma in tutto il corso di essa, il periodo in cui meglio appare quanto quest’uomo sia stato fatale all’Intesa e abbia contribuito a prolungare la sanguinosa lotta, è il periodo dei primissimi scontri, nell’agosto 1914, sui quali, accanto all’opera così imparziale e documentata del generale J. Rouquerol, va posta la serie di monografie di un suo valente collega nella critica militare, il colonnello Alphonse Grasset. È del 1932 un suo volume preziosissimo sopra un episodio secondario, ma che spiega eloquentemente quanto fosse deficiente il Generalissimo francese. L’episodio si svolse a Rossignol-Saint-Vincent il 22 agosto 1914, allorché fu sorpresa e distrutta, proprio per colpa delle sciagurate nomine fatte da Joffre, la 3a Divisione coloniale, la quale, dopo una difesa eroica, fu annientata. Il Grasset non è tenero con Joffre, e dice con ragione che «questi combattimenti dei primi giorni della Campagna non saranno mai abbastanza conosciuti, né abbastanza meditati, poiché essi conservano il valore di un insegnamento unico nel suo genere, specialmente dal punto di vista psicologico».