Editoriale: Un maggio d’eccezione, dall’urlo becero della politica al silenzio della casa del Papa

di Paolo M. di Stefano -

Un’idea a cinque stelle ha caratterizzato il Maggio appena concluso. Un’idea che “ha fatto notizia” – come dicono i giornalisti – ma della quale si sono subito perse le tracce. Quanto meno, da parte mia. Questa: nelle scuole della cittadina laziale della quale è sindaco, un saggio amministratore ha proposto – per la mensa scolastica – di riservare il dolce alla fine del pasto a quei bambini i cui genitori lo avessero pagato con un’aggiunta, peraltro modesta, alla retta comune.
E subito è scattata l’indignazione: un’idea orrenda che può saltare in mente soltanto a chi non ha la minima nozione di cosa significhi educare, insegnare, trasmettere valori, preoccuparsi della serenità e dell’armonia e delle basi dell’eguaglianza e della equità nella società di domani. La quale è ovviamente preparata dai bambini di oggi.

Un’idea a cinque stelle!

Il sindaco ha certamente pensato, innanzitutto, alla questione economica: buono o cattivo che sia, il dolce un suo costo lo ha, e dunque limitare il numero dei consumatori e quindi la quantità significa anche risparmiare a beneficio delle finanze del comune. E tutti sanno la fatica dei Comuni a far quadrare i conti.
Poi, il sindaco, uomo di vasta cultura, ha ricordato la scala dei bisogni elaborata da Maslow ed ha collocato il dolce di fine pasto a livello dell’autorealizzazione. Come dire: il bisogno del dolce scatta soltanto dopo che siano stati soddisfatti (nell’ordine) i bisogni di sopravvivenza, di sicurezza, di accettazione, di affermazione. Pur con qualche dubbio circa la natura della fetta di panettone come simbolo di stato – e quindi forse più propriamente come rispondente ad uno dei bisogni di affermazione – il sindaco lo ha indicato come “bene di autorealizzazione” anche perché questa collocazione ne avrebbe comunque incrementato il valore.
Ed ha fatto di più, il sindaco: ha ricordato che la soddisfazione dei bisogni di riconoscimento e di autorealizzazione sembra siano più diffusi nelle categorie socio-economiche superiori le quali, da sempre e per unanime riconoscimento, sono quelle che dispongono di maggiori risorse finanziarie. E possono quindi permettersi quel qualcosa di più, senza per questo avvertire in modo drammatico il sacrificio del pagamento.
Ma soprattutto, il sindaco ha avuto presente l’opportunità, la necessità addirittura, di preparare le giovani generazioni alla realtà alla quale vanno incontro: lo scontro con quelle differenze sociali che, deve aver pensato il sindaco, sarà più efficacemente affrontato se conosciute fin da piccoli e che non mancheranno di disegnare, anche, i traguardi che ciascun individuo deve raggiungere se vuole migliorare se stesso e la società.
Al sindaco si è posto anche un dilemma di non facilissima soluzione: i bambini che non hanno diritto al dolce è opportuno rimangano a tavola mentre gli altri consumano? Oppure è meglio che siano allontanati prima che alla mensa giunga la marmellata? O non sarebbe forse meglio lasciare in sala mensa i bambini non paganti e trasferire in apposito appartato salottino quelli i cui genitori hanno, invece, sostenuto la spesa aggiuntiva? Ma il dividere in due gruppi non avrebbe indebolito l’insegnamento di fondo “c’è chi c’à e c’è pure chi non c’à” (come cantava Frassica, un attor comico serio, di quando i comici non andavano sulle piazze a gabellar le battute per politica)? Con un ulteriore problema: la frutta va portata in tavola prima o dopo il dolce? Perché se la si porta prima, è facile ragionare in termini di “trasferimento” per gli aventi diritto al dolce. Nel caso contrario, la frutta dopo il dolce, occorrerebbe pensare ad una ricostituzione del gruppo di commensali dopo la separazione imposta dalla pasticceria.
A questo punto, la questione per il sindaco pensoso e colto e attento è divenuta un’altra: non di un dilemma si tratta, bensì di un trilemma suscettibile di degenerare fino almeno ad un quinquilemma. Se tutto va bene.
Allora, meglio non parlarne.

E i risultati delle europee forse non a caso hanno segnato la sconfitta, seppur ancora troppo poco netta, di un movimento che nulla ha dato al Paese se non la certezza di cavalcare lo scontento, la protesta, l’egoismo. E il rumore. Soprattutto il rumore.
Forse c’è un legame, neppure nascosto più che tanto, tra il classificare i bambini in ricchi e poveri e la proposta di “riconoscere” i primi e di premiarli con un dolcetto (da un lato) e il giudizio espresso dai chiamati alle urne, dall’altro.
I quali ultimi sono stati immediatamente classificati come “pensionati refrattari ad ogni cambiamento” da parte di uno che, urlando, aveva promesso l’abbandono della politica in caso di sconfitta. Promessa immediatamente rientrata, probabilmente perché la sconfitta non è sembrata sonora abbastanza ma, forse, anche perché l’abbandono della politica (o della non politica) avrebbe riportato l’ex comico nell’oblio. Come dire: se cambio, corro un rischio che è meglio non correre. Esattamente lo stesso pensiero di noi pensionati refrattari al cambiamento. Secondo lui.

In realtà, alle cinque del mattino del 26 maggio, le prime luci dell’alba hanno lasciato intravedere la grandezza di un popolo, gli italiani, che è riuscito a scuotersi dal giogo pesantissimo delle urla, degli insulti, degli interessi personali, delle pezze a colori gabellate per programmi, delle vivisezioni, delle comunicazioni di delinquenza, del razzismo, dell’ignoranza, dell’assenza di ogni valore e di quant’altro di incivile, di incolto, e anche di stupido lo abbia bombardato da anni, ormai, con crescendo viscerale e incontrollato in questo ultimo mese.
Ai capelloni bercianti, magari anche truccati da seriosi e silenziosi manager di qualcosa non bene identificato; agli interessati miliardari ondivaghi (almeno in politica), forti di un successo anche basato sull’egoismo e sull’utilizzo personale delle leggi, come i primi impresentabili in Europa e non solo, è stato inviato un segnale a mio parere più che preciso: gli italiani non sono quegli stupidi creduloni ignoranti ai quali molti si sono rivolti ed ai quali molti continueranno a rivolgersi.
Forse veramente esiste quella “maggioranza silenziosa” che riesce a reggere un Paese difendendolo dalla incoscienza e dalla onestà quanto meno relativa di tutti coloro che inseguono il potere per il potere e quindi per se stessi e per i sodali, e che si costruiscono partiti e movimenti su misura.
Magari anche riuscendo a conquistare una poltrona da ministro.
Il quaranta per cento degli italiani manda al vincitore di queste europee un messaggio altrettanto chiaro: vogliamo premiare chi, finalmente e dopo lustri perduti, ha dimostrato di “ voler fare” e di volerlo rapidamente. E chi crede nell’Europa. In estrema sintesi, chi pensa che se le cose vadano male o non così bene come si vorrebbe, il sistema migliore non è distruggerle, non è cancellarle, ma lavorare per cambiarle.
Ed è qui che nasce il problema.
Solo un accenno, il resto in “cattedra”: andare di corsa e fare qualcosa ha dimostrato che l’abbandonare “il non fare” è una forte argomentazione per ottenere il consenso. Ora è a mio parere assolutamente necessario che si pianifichi con estrema attenzione il “che cosa”, il “quando”, il “come”, il “perché”, “il dove” bisogna cambiare ed ovviamente “il chi” deve provvedere.
E altrettanto ovviamente, “quanto costa” e “dove si reperiscono” le risorse necessarie.
Questo è il compito che Renzi e il Governo hanno dinanzi a sé. Un compito immane, anche perché forse le risorse culturali a disposizione sono più limitate del sopportabile.
E oltre a dover “pianificare”, occorre che il Governo comunichi correttamente e compiutamente ai cittadini. Si tratta di portare a conoscenza della comunità ciascuna pianificazione di gestione. E farlo nei dettagli. E farla accettare.
Che mi pare sia proprio quanto è sempre mancato, in Italia certamente, in Europa forse: la pianificazione e la gestione degli “scambi politici”.

Naturalmente l’Euro è stato al centro del mondo politico, di quello italiano senza dubbio, ma anche degli altri Stati facenti parte dell’unione. C’è chi continua a propugnarne l’abolizione e il ritorno alle monete nazionali. Dal momento che non può essere che si tratti di una comunità di cretini assoluti, mi vien da pensare che chi vuole uscire dalla moneta comune persegua interessi di parte, riservando a sé ed ai sodali i guadagni che scaturirebbero, ovviamente solo per pochi. E’ a mio parere evidente che occorre rigettare ogni e qualsiasi proposta in materia. Seppur sia vero che l’euro è nato male e frettolosamente, la soluzione non è quella di uscirne o di abolirlo, bensì di ricostruirne o costruirne le basi in modo corretto. Che vuol dire rivedere a fondo “le ragioni” dell’Unione la quale, a sua volta, è certamente nata affetta da più di una malformazione, ma non per questo deve essere uccisa. E forse la prima e più importante cosa da fare è “educare” alla unità, che significa anche l’abbandono di gran parte degli egoismi così delle persone come degli Stati. La nuova Unione Europea deve esser dotata di sovranità sovranazionale, che significa non l’esercizio di una sovranità che continua a far capo agli Stati, bensì la cessione di tutta o parte la sovranità di ogni Stato in capo ad una entità, l’Unione, che è sovrana in sé ed esercita una sovranità “propria”.
Nel senso che l’articolo primo di una ipotetica carta costituzionale europea dovrebbe recitare: L’Europa è una unità democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo europeo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione.”

Ebbene sì, sono andato a rileggere la costituzione italiana, e mi sono accorto che se alla parola “Repubblica” sostituiamo “unità democratica” oppure “unione” o comunque qualsiasi altra parola che indichi l’insieme degli Stati che la costituiscono, quanto in essa stabilito risolverebbe la gran parte dei problemi dell’Europa.
Suggerisco di farlo come un gioco.
Oltre a ripassare la Costituzione, ci renderemmo conto che non c’è alcuna ragione al mondo per molti dei cambiamenti e degli aggiornamenti oggi da qualche parte proposti e che basterebbe attuarla per risolvere la grande maggioranza dei nostri problemi.
E di quelli Europei.

Maggio è stato il mese di Francesco: talmente importante, incisiva, credibile, ecumenica eppur semplicemente elementare l’azione del Papa da non richiedere (e forse neppure consentire) commenti.
Bellissima e commovente l’offerta di “casa mia” per un “incontro di preghiera” tra i Presidenti di Israele e Palestina.