Editoriale: Un gennaio facile facile
di Paolo Maria di Stefano -
La Repubblica italiana ha il suo nuovo Presidente. Sergio Mattarella è stato eletto con 665 voti. Votanti, 995; quorum, 505; maggioranza qualificata dei due terzi, 663 voti. Dati che si commentano da soli. Da parte mia, un solo dubbio: quel due terzi dei votanti raggiunti dal Presidente non potevano esser decisi due giorni fa? Forse, si sarebbe risparmiata una somma di euro non del tutto trascurabile.
L’on. Sergio Mattarella è persona di assoluto rilievo culturale e morale, di grande dignità e discrezione, degna di svolgere le funzioni che la Costituzione gli affida. Tutti noi gli auguriamo e ci auguriamo un settennato di grande spessore, che in qualche modo segni anche il riscatto della Politica, più che avvilita e immiserita, non ostante gli sforzi di alcuni, soprattutto a causa di una improvvisazione diffusa nell’esercizio di un “mestiere” – quello di politico – che dovrebbe esser professione e frutto di specializzazione inserita in una solida preparazione culturale di stampo umanistico ed economico, oltre che gestionale. E immiserita e distorta anche dalla continua difesa di interessi di parte, di solito in conflitto con quel “bene comune” troppo spesso ridotto a pura e semplice argomentazione di vendita.
Ancora una volta si è assistito al gioco triste dei partiti e dei movimenti, tutti tesi ad assicurarsi quei vantaggi che un Presidente di parte può in qual che modo assicurare. Siamo giunti al punto di riconoscere che Sergio Mattarella è uomo onesto e capace, ma che non poteva esser votato per una pura questione di metodo. Come dire: l’uomo è il migliore di cui disponiamo, ma l’averlo proposto senza aver sentito altre campane è inaccettabile.
Speranza – quella di avere un Presidente complice – che pare non contrastare con l’attuale situazione della politica, della pubblica amministrazione e dell’economia. Speranza, anche, che è apparsa palpabile quando sono state individuate le ragioni della opposizione ad alcuni nomi, ragioni che vanno dalla vendetta per posizioni dal candidato assunte in passato al mancato impegno di cancellare condanne e incompatibilità fino alla non volontà di collaborare ed alla incapacità di farlo alla ricerca ed alla scelta del principale simbolo di unità dello Stato.
La farsa della Politica intesa come “arte del compromesso” si è svolta con una sola nota di dissenso: quella lanciata da un Presidente del Consiglio deciso, oltre che a ricompattare un partito che più di una volta è apparso ondivago, incerto, sbandato, a tranquillizzare sulla natura di un “patto” – quello del Nazareno – da più di qualcuno avversato come indegno.
Io continuo a pensare che la corretta gestione di uno Stato democratico“imponga” le intese più larghe possibili, e dunque che la consultazione elettorale debba avvenire su vere e proprie corrette pianificazioni di gestione.
Le quali, come tutti sanno (o credono di sapere) si realizzano soltanto quando, elaborata una pianificazione “ottimistica” ed una “pessimistica”, attraverso il confronto si giunge ad una pianificazione “realistica”. Nelle imprese, essa diventa “obbligatoria” e necessariamente condivisa e realizzata con l’apporto di tutti. Quando ciò non accade e alla pianificazione di gestione si oppongono interessi di parte e trucchi diversi, l’impresa è destinata al fallimento.
Per lo Stato, la cosa rimane pressoché identica. I Partiti dovrebbero esser chiamati ad elaborare pianificazioni di gestione ed a giungere, se possibile, ad un accordo oppure ad una o due alternative da sottoporre al popolo sovrano nel momento della consultazione elettorale. Il popolo sarebbe chiamato a scegliere, e la pianificazione di gestione scelta diverrebbe obbligatoria: tutti dovrebbero concorrere ad assicurare il risultato voluto.
E il ruolo della “opposizione” dovrebbe essere lo stimolo continuo al miglioramento delle tattiche, almeno.
Tutto questo, forse, è possibile chiamare compromesso, ma che per essere una pianificazione di gestione e per essere stata approvata dal popolo nelle urne innova in assoluto l’essenza della Politica.
La manna per i giornalisti a gennaio è scesa copiosa. In ordine sparso: due ragazze liberate dall’ Isis dietro riscatto; la strage nella redazione di Charlie Hebdo; il pugno evocato dal Papa contro chi offende mia madre e il non obbligo di far figli come i conigli; il franco svizzero sganciato dall’euro; la BCE che decide di immettere sul mercato oltre millecento miliardi di euro; le elezioni in Grecia e la vittoria della sinistra che va al governo con la destra; Obama che annunzia la fine della crisi; l’assistere in TV ad una partita di calcio ragione sufficiente per l’uccisione di alcuni giovani in nome di Allah. Appena una parte degli argomenti che hanno concesso a cronisti e commentatori di riempire le pagine dei quotidiani e le ore di talk show, oltre che di trattare grandi temi, primo tra tutti quello della libertà, un diritto che – almeno a quanto ha affermato un titolo di Repubblica del 16 gennaio – non conosce limiti. Se al tutto si aggiungono i problemi della immigrazione clandestina “a pilota automatico” (e con carburante neppure sufficiente) e i temi della politica italiana, tra i quali ovviamente l’elezione del nuovo Capo dello Stato e la scelta del sistema elettorale, è facile concludere che gennaio è stato fonte infinita di felicità.
La felicità del poter parlare e scrivere senza limiti, che qualcuno afferma essere il cuore di ogni rapporto umano, e dunque anche condizione essenziale di una asserita capacità creativa e costruttiva della nostra gente al gran completo. Il vero sport nazionale, più ancora che il calcio.
Ma dal momento che ogni medaglia ha un rovescio, l’infelicità per alcuni di noi dipende dalla limitazione dello spazio a disposizione e quindi dalla impossibilità di trattare a fondo tutti i temi. Io mi reputo fortunato: ho due spazi – editoriale e cattedra – e cercherò di utilizzarli al meglio.
Due ragazze sono state liberate dai rapitori islamici dietro pagamento (pare) di una dozzina di milioni di riscatto. Sulla materia si è scatenata tutta la capacità dei benpensanti, dei moralisti, dei politici e degli economisti e dei comuni mortali, che da noi di queste discipline sono maestri e delle tesi da ciascuno sostenute sono assertori convinti quanto irriducibili. In testa, ovviamente, la questione se sia giusto o meno pagare il riscatto “concordato” ai rapitori, per i quali finanziarsi è importante per armarsi e combattere contro di noi. E, a cascata, una quantità infinita di corollari e distinguo. Cito a caso: l’uso dei soldi pubblici… l’improvvisazione della partenza dall’Italia…il trattamento durante la prigionia… il valore della vita umana…l’incapacità dei politici…i rapporti con fiancheggiatori delle parti in conflitto…l’esempio da dare…se chiedere o meno in tutto o in parte un rimborso alle famiglie…
Non ho risposte.
Ma un dubbio, sì. Questo: nessuno mi sembra protesti quando si tratta di impegnare risorse anche imponenti per salvare la vita (o anche soltanto recuperare i corpi) di improvvisati alpinisti o di altrettanto improvvisati sciatori fuori pista oppure anche di “coraggiosi” naviganti usciti senza dir nulla a nessuno in un mare proibitivo e proibito. Perché scandalizzarsi se lo Stato si interessa e impegna risorse per salvare due ragazze che hanno ritenuto di poter aiutare qualcuno, a loro giudizio in difficoltà a causa di guerre e guerriglie, e ciò hanno tentato di fare senza autorizzazioni particolari? Se il problema sta nella spesa e nella titolarità delle risorse, non sarebbe il caso di stabilire che anche chi scia fuoripista o scala montagne o sfida le onde o si impegna in viaggi avventurosi (…) risponde in proprio di ciò che può accadere e i soldi pubblici non possono e non devono essere impegnati per soccorrerli?
E se (invece o anche) la questione è che “le istituzioni” non erano state informate, non si può pensare che chiunque intraprenda un qualcosa di rischioso senza farne parte le Autorità non abbia alcun diritto all’intervento salvifico?
Perché l’assumersi rischi e responsabilità delle proprie azioni è uno dei contenuti di quella libertà di cui tutti parliamo e che tutti invochiamo come elemento irrinunciabile della nostra stessa esistenza.
Il 2015 inizia con un mare in tempesta, assolutamente impietoso, e con una novità: gli scafisti abbandonano le carrette stracariche di disperati a circa quaranta-cinquanta miglia dalle coste, dopo aver reso il natante ingovernabile e talvolta privo di carburante. Pare che così riescano tra l’altro ad evitare l’arresto (peraltro già problematico e, quando riuscito, di breve durata) ed a tornare alla base per ripetere l’operazione. E c’è anche chi sostiene che tra i clandestini non pochi siano i militanti dell’Isis e i terroristi: l’Italia anche per questo sarebbe approdo ideale.
Perché, tra l’altro, sembra che non si riesca a identificare chi arriva.
Ho fatto due conti, assolutamente approssimativi e forse anche sbagliati…
Nel 2014 si dice siano stati trasportati in Italia all’incirca centoquarantamila persone le quali, considerando più o meno settecento imbarcati per volta, hanno comportato l’impiego di duecento natanti.
Il costo di ogni natante essendo pari a più o meno duecentomila euro, la spesa totale per gli organizzatori si è aggirata sui quaranta milioni di euro.
Il prezzo pagato per ogni imbarcato pare si aggiri attorno ai seimila euro: il fatturato lordo degli organizzatori è dunque stato attorno agli ottocentoquaranta milioni di euro.
Il profitto, di ottocento milioni. Lordo quanto si vuole, ma di ottocento milioni di euro.
Vogliamo considerare una supervalutazione del prezzo pagato da ogni clandestino ed una sottovalutazione del costo dei natanti? Facciamolo, e consideriamo un profitto lordo attorno ai seicento milioni di euro.
Poi ho dato un’occhiata a quanto propongono le compagnie di navigazione, sia pure a titolo promozionale, per le crociere che coprono (anche) la rotta tra Izmir e Istambul, da un lato, e Bari dall’altro. Ho appreso quanto segue: dodici notti e undici giorni di pensione completa sulla Costa Deliziosa (quattro stelle) possono essere acquistate a partire da novecento euro; sulla MSC Poesia, da 495 euro. Sulla MSC Magnifica, per otto giorni e sette notti si può spendere da un minimo di cinquecentoottantacinque euro (cabina interna) ad un massimo di millecinquecentosettantacinque euro in suite. L’esterna e il balcone possono essere acquistate rispettivamente a settecentoventi e ottocentocinquantacinque euro. Per dodici notti e undici giorni in pensione completa. Fatto, questo, credo non trascurabile: significa l’uno per l’altro che la tratta Izmir – Bari può esser percorsa a quel prezzo almeno dieci volte, ad un prezzo di circa ottantacinque euro a passaggio. Vogliamo fare centocinquanta? No? Facciamo duecento. Ma voglio rovinarmi: calcoliamo mille euro a cranio. Risultato: la compagnia guadagna alla grande; i passeggeri risparmiano circa tra i quattromila ed i cinquemila euro ciascuno.
Con risultati “di contorno” a mio parere tutt’altro che trascurabili. Tra questi:
- identificazione in partenza di ciascun passeggero
- certezza del porto di sbarco e, probabilmente, anche
- indicazione della destinazione finale cercata da ciascuno, in una con la
- certezza della unità dei nuclei familiari e con la
- certezza della disponibilità nei centri di accoglienza. Inoltre
- quasi assoluta mancanza di spese sanitarie all’arrivo,
- disponibilità di un sia pur piccolo “capitale iniziale” da parte dei rifugiati.
Con questo in più:
- sconfitta quasi certa delle mafie che con il viaggio si arricchiscono e
- taglio delle risorse (se non di tutte, di gran parte) alle mafie che gestiscono i centri di raccolta e di accoglienza e gli eventuali viaggi di trasferimento verso altri Stati.
A me già questo sembra sufficiente almeno per approfondire la materia. Se poi aggiungiamo i risparmi realizzati con la quasi assoluta mancanza di necessità dei soccorsi in mare e dei recuperi delle salme…
Dice: si tratta di tariffe in promozione. Rispondo: sì, ma una iniziativa promozionale che rappresenti una perdita secca (costi superiori ai ricavi) è appannaggio degli imprenditori incapaci e disperati. C’è da supporre che una gestione appena oculata, quando decide di attuare una promozione un margine di guadagno lo realizzi, non ostante tutto.
Che significa: l’uno per l’altro a mille euro a persona per il trasporto tra la Turchia e l’Italia qualsiasi compagnia di navigazione dovrebbe starci dentro ampiamente, anche pensando che i servizi a bordo, rispetto a quelli predisposti per una normale crociera, potrebbero esser ridotti e non di poco.
Conseguenza puramente contabile: centoquarantamila persone che pagano un biglietto di mille euro per passare dalla Turchia all’Italia farebbero realizzare alla compagnia di navigazione un fatturato lordo di centoquaranta milioni di euro. La somma tutt’altro che trascurabile risparmiata rimarrebbe nella disponibilità degli immigrati e potrebbe essere usata per vitto e alloggio ed eventuali trasferimenti verso Paesi di destinazione diversi dal nostro.
Infine: pare che il costo dell’operazione “mare nostrum” si sia aggirato attorno ai centoottanta milioni di euro nel 2013: quasi tutti sarebbero stati risparmiati, se ci si fosse preoccupati di organizzare trasferimenti come appena delineato.
Nota a margine: qualcuno ha parlato di “irrealismo”, qualcun altro di “libro dei sogni”, qualcun altro ancora di “impossibilità” e di “estrema complessità” di questa “idea peregrina”. Io continuo a pensare che sia realizzabile, ancorché si tratti di navigare tra ostacoli tutt’altro che facilmente superabili. Perché non pensarci su?
La libertà mai come a gennaio ha tenuto banco in cronaca, e forse mai come a gennaio ha evidenziato i limiti di un “valore” (la Libertà, appunto) in realtà sconosciuto tanto da esser confuso con l’anarchia e il disordine.
E più ancora, forse, con l’ineducazione e l’egoismo.
La conoscenza, la coscienza e il rispetto degli altri sono, in una con il rispetto di sé, l’essenza stessa della educazione, ed ogniqualvolta si manca di rispetto agli altri si da prova di ignoranza crassa di questi elementari principi, da un lato, e, dall’altro, si provoca la reazione dell’interlocutore, non di rado sproporzionata.
Perché l’educazione è anche un problema di misura.
Che è esattamente quanto ha affermato Papa Francesco quando ha ricordato che se offendo la madre di qualcuno, una reazione devo aspettarmela. E devo aspettarmela ogni qualvolta insulto uno qualsiasi degli elementi che costituiscono i valori dell’interlocutore. E se chi reagisce è meno dotato di educazione e di tolleranza di quanto io mi attenda, può accadere di tutto.
Non possiamo ignorarlo, come non dobbiamo ignorare che nella vita di ogni giorno la teoria – sia pur condivisa – non sempre ha riscontro nella pratica, e quando il riscontro c’è, non è detto che il comportamento sia univoco.
Il porgere l’altra guancia è uno di quei principi teorici che invitano certamente tutti noi alla mitezza ed alla moderazione, ma che non significano che io debba lasciare che qualcuno mi insulti, magari invitandolo ad insultarmi ancora. Che potrebbe essere un modo per fargli notare la sua inferiorità, ma non garantisce affatto ch’egli se ne renda conto.
Ammettere di essere “inferiore” è una delle cose più difficili in assoluto e comunque richiede una cultura ed una consapevolezza di livello superiore. Esattamente come solo un vero saggio sa di non sapere ed è disposto ad ammetterlo.
Dal che, l’invito alla prudenza ed alla non provocazione.
Il Presidente Obama (20 gennaio) ha trionfalmente annunziato la fine della recessione e l’inizio della ripresa dell’economia statunitense. Che è bello e istruttivo. Peccato che sia legittimo il dubbio che questo sia avvenuto a spese dei Paesi più deboli, dal momento che il nostro attuale sistema economico è un vero e proprio campo di battaglia sul quale la ricchezza si insegue senza esclusione di colpi.
E sul quale, naturalmente, la vittoria arride al più forte.
Ci siamo occupati più di una volta della crisi economica italiana e globale, e da più di un angolo di visuale. Confesso: tutto assolutamente inutile, dal momento che nessuno sembra aver voglia di prendere atto che il sistema va cambiato dalle radici, e che quello che deve essere perseguito non è il profitto di pochi, bensì il benessere di tutti e dunque una diversa distribuzione della ricchezza prodotta, e forse anche un diverso modo di produrla.
E non mi sembra un caso che qualcuno abbia calcolato che nel mondo l’un per cento si avvia rapidamente a possedere il novanta per cento delle ricchezze.
Altro che il venti-ottanta di quel Pareto che improvvisamente sembra essere stato un ottimista inguaribile!
Eppure, proprio questo ha un fondo di speranza: quel novantanove per cento che in gran parte vive ai margini della sopravvivenza dovrà prima o poi esser preso in considerazione come destinatario di risorse. Non a titolo caritativo e neppure di pura e semplice solidarietà; non soltanto perché possa sopravvivere e neppure per evitare lotte sanguinose, ma proprio perché possa contribuire a produrre quella ricchezza che sarà sempre distribuita in modo sbilanciato (ma in grado molto minore dell’attuale), ma che dovrà comunque esser prodotta.
Dovrebbe, anche, essere il significato da dare ai risultati delle consultazioni politiche in Grecia: non ostante tutto, questa protagonista della cultura occidentale rimarrà in Europa e si avvarrà dell’euro. Solo, occorre che la collaborazione degli altri Paesi sia costruttiva e non meramente speculativa, e che alla Grecia sia dato il modo di individuare e costruire ed utilizzare fonti di reddito soprattutto per le categorie socio-economiche oggi più sacrificate e sfruttate da parte di coloro che si sono impossessati delle ricchezze del Paese e che ne utilizzano le risorse per incrementare i propri guadagni ed i privilegi di cui già godono. Politici in testa. E che coloro che dispongono delle ricchezze greche paghino le tasse dovute e si dispongano a ripartire i redditi prodotti con maggiore giustizia.
Di particolare interesse, a mio parere, il blocco di alcune privatizzazioni, anche iniziate. Un privato che gestisca un porto lo fa per trarre il massimo profitto, anche a scapito di quella “utilità pubblica” alla quale mai si guarda come l’altro lato della medaglia chiamata “utilità”, ma che costituisce la “causa” stessa di uno Stato. In più, essere dei soggetti privati non garantisce affatto una maggiore capacità di gestione ed un più elevato grado di professionalità di quanto non accada “nel pubblico”. Se e quando così fosse, significherebbe soltanto che qualcosa “nel pubblico” non funziona, segnatamente nella formazione professionale.
Che è anche quanto accade in Italia e che bisogna cambi al più presto.
Mi pare il senso più profondo del discorso del Presidente Obama, quando dichiara che occorre occuparsi della “classe media”, della lotta alle diseguaglianze attraverso anche la riforma del sistema fiscale e delle tasse sui più ricchi e sulle banche e – io penso soprattutto – la massima attenzione alla istruzione, alla formazione, alla cultura in genere.
E non credo si possa assistere con ottimismo alla inerzia assoluta che da noi veste l’attività del Ministero della Istruzione Pubblica, anche ammantata dal silenzio più assordante sulla scuola, in particolare su quella pubblica, di ogni ordine e grado.
E credo che quando Obama parla di “classe media” intenda la più gran parte degli americani, quella che “produce” e questo fa “lavorando”. Nella classe media entrano dunque a buon diritto quei “lavoratori” che nel corso di questa crisi sembrano essere stati i maggiori sacrificati anche per l’egoismo di capitalisti abbastanza ottusi per non riuscire a disegnare correttamente la funzione propria e del capitale.
Il rischio per l’Italia e per i Paesi “occidentali” a mio avviso consiste nel cercare di agganciarsi acriticamente al carro americano. Significa che pur di beneficiare della così detta ripresa, si rinunzi a pensare al modo di modificare il sistema economico, a proporne uno nuovo perché in molte parti diverso.
Dalla tavola del ricco nessun dubbio che continueranno a cadere briciole… una sorta di economia caritativa, di quella carità pelosa che chiederà in cambio lavoro e lavoro e ancora lavoro, pagato con le briciole, appunto.
Perché questo richiama alla mia mente lo schiavismo? E perché, anche, una guerra senza quartiere, sanguinosa, condotta seguendo gli istinti peggiori della natura e della ignoranza?
La Banca Centrale Europea getta sul mercato oltre mille miliardi di euro. Lo fa acquistando titoli di Stato e assumendosi in proprio – se ho ben capito – il venti per cento dei rischi. Il resto, a carico delle banche centrali dei singoli Stati.
E lo fa stampando moneta.
Le borse pare approvino.
Certamente, se dobbiamo continuare a vivere dentro il sistema economico che conosciamo, forse una crescita della inflazione allontanerà quel pericolo di deflazione che dai più è ritenuto mortale, e dunque per qualche tempo assisteremo ad una moderata ripresa.
Ma sarà stato come accade per i malati terminali: più che spesso, a un passo dalla morte, si assiste a segni che adombrano una ripresa.
Sono, invece, sintomi premonitori della imminenza della fine, ultimi bagliori di una vita che se ne va.