Editoriale: Se non pazzo, marzo è stato almeno strano. E se non strano, certo complesso
di Paolo Maria di Stefano -
L’omicidio stradale ha svolto un ruolo di primo piano, a marzo, risvegliando l’interesse un po’ di tutti, giuristi e non.
Soprattutto “non”, e dunque persone comuni, non dotate di preparazione giuridica, soltanto animate da un confuso senso di rigetto non solo e non tanto dell’evento chiamato “omicidio”, ma anche e forse soprattutto della “quasi” impunità che segue alla morte di una persona provocata sulla strada dal comportamento di altra persona alla guida di un mezzo.
E dunque, almeno a sentire gli interpreti della opinione pubblica, si chiede in sostanza la promulgazione di una legge ad hoc che crei una figura nuova di reato – l’omicidio stradale – da punirsi con pene quanto più possibile pesanti.
E qui si innesta una serie di considerazioni non peregrine, forse, ma complicate certamente per cui, detto che la mia personale opinione è che non c’è bisogno di alcunché di particolarmente complicato per risolvere i “problemi” che nascono dai comportamenti delittuosi attuati quando si è alla guida di un autoveicolo; detto questo, ritengo sia più opportuna rimandare ad altra occasione una trattazione appena più completa.
Salvo accennare qui che, forse, basterebbe rivisitare le norme che riguardano l’omicidio, le lesioni e l’omissione di soccorso in merito alla applicabilità di tutte o di alcune delle attenuanti, nonché quelle in materia di rito abbreviato quando l’evento si verifica a causa del comportamento di chi è alla guida di un mezzo, su di una strada pubblica o privata che sia e provochi la morte o il ferimento o altra lesione a terzi. In buona sostanza: l’essere alla guida di un veicolo su di una strada potrebbe essere considerato una aggravante “oggettiva”, cioè sottratta alla interpretazione del giudice e ad ogni altra valutazione, e aggiunta ad ulteriori aggravanti eventualmente individuate. Per cui, potrebbe bastare una norma che recitasse più o meno: “Quando l’evento si verifica a seguito di incidente stradale, non è applicabile nessuna attenuante, generica o specifica che sia. Rimane l’applicabilità delle aggravanti indicate per le singole fattispecie. L’essere alla guida di un veicolo costituisce aggravante specifica oggettiva e va applicata in ogni caso. La pena prevista si somma a quella di cui alla fattispecie di reato nella misura del doppio del minimo stabilito. E’ esclusa ogni e qualsiasi forma di discrezionalità del giudice in materia di aggravante stradale.”
Il testo della norma andrebbe completato con un codicillo che dovrebbe suonare più o meno così: “Interpretazione autentica. Ai fini della aggravante stradale non rilevano la natura della strada e quella del veicolo; neppure rileva la ragione per la quale il veicolo era in circolazione al momento del verificarsi dell’evento.”
Per il femminicidio, di cui anche si è parlato e non poco nel mese appena concluso, a mio parere si potrebbe seguire lo stesso ragionamento, sostanzialmente stabilendo due o tre cose. Queste: di fronte alla uccisione, al tentativo di omicidio, al ferimento e agli eventi lesivi diversi, quando la vittima è una donna si è di fronte a quella che poco più sopra ho chiamato “aggravante oggettiva”. Questa comporta una pena, a sua volta “oggettiva” , sottratta ad ogni forma di discrezionalità e non valutabile “quantitativamente” da parte del giudice, che va aggiunta alla pena prevista per il “delitto di base”. In più, quando la vittima è una donna, si esclude la possibilità di ricorrere al rito abbreviato.
Appare ovvio che il concetto di “femminicidio” dovrebbe esser rivisitato, estendendone il significato al tentativo di omicidio, al reato di lesioni, alla violenza, al maltrattamento, alle percosse, fino allo stalking. In pratica, l’essere la vittima una donna comporterebbe sempre e in ogni caso in automatico l’applicazione della pena prevista dall’aggravante, in aggiunta obbligata alla pena di base ed alle aggravanti previste per ciascuna delle altre fattispecie.
E tanto per parare almeno uno dei tanti “distinguo” di cui già avverto l’eco: per “donna” si intende l’essere umano di sesso femminile dal momento della nascita e per tutto il corso della vita. Io sono convinto che l’aborto sia un omicidio, e dunque estenderei il “tempo” al momento del concepimento, ma…
La norma relativa al femminicidio suonerebbe pressappoco così: “ Sempre, quando l’evento si è verificato a danno di una donna, non sono applicabili le attenuanti generiche e specifiche previste per la fattispecie di reato. Resta valida l’applicabilità delle aggravanti. Per l’aggravante costituita dall’essere destinataria e vittima una donna, il giudice deve irrogare una pena pari al doppio del minimo previsto dalle norme che regolano ogni singole fattispecie. Interpretazione autentica: la norma si applica quale che sia il genere di appartenenza dell’autore del reato”.
E comunque, il resto a me sembra fattibile senza problemi particolari, una volta superato il vezzo tutto italiano di spaccare il capello in quarantaquattro e – cosa più grave dello stesso bizantinismo – di affidare l’elaborazione delle norme ad un Parlamento composto in gran parte da improvvisatori e praticoni e mestieranti della politica, privi non tanto e non solo di preparazione giuridica, quanto soprattutto di “professionalità politica”.
Che non è – la professionalità politica – rappresentata dal tempo trascorso a “fare politica”, così come non è, la progettazione architettonica, sinonimo dell’aver per anni tirato su muri divisori o baracche abusive, e così come non è, la gestione d’impresa, esaurita dall’essere stati venditori, anche di successo ed anche per molti anni.
La mancanza di professionalità politica è possibile sia uno degli elementi che accomunano i gruppi che perseguono il potere attraverso l’uso indiscriminato della violenza contro gli uomini, le cose e la storia. Se “fare Politica” significa in tutto o in parte adoperarsi per il benessere delle popolazioni cui quei gruppi fanno riferimento, se anche questo obbiettivo – a partire dalla definizione e dai contenuti di “benessere” – scaturisse da una volontà divina comunicata attraverso i testi sacri, confesso di non riuscire a trovare alcuna logica in quella che appare pura e cieca violenza che, come tutto ciò che alla violenza attiene, presto o tardi si rivolterà contro coloro che l’hanno messa in atto. Neppure mi sembra esista una logica nel perseguire la distruzione della memoria storica delle popolazioni.
È certamente inquietante immaginare che il terrorismo affondi le proprie radici nella ricerca della felicità in un mondo diverso da quello fisicamente frequentato da ciascuno di noi, un mondo trascendente, descritto di solito utilizzando contenuti propri di questo forse non felice ma concreto “aldiquà”.
Se quanto detto ha anche soltanto un barlume di senso, è possibile pensare che i morti nell’attentato al museo più antico del mondo arabo, organizzato ed attuato proprio da fedeli in nome del loro Dio e dei Suoi Profeti sono il frutto di una totale ignoranza dei testi sacri, tale da rasentare la pura follia. E di una altrettanto crassa ignoranza di cosa la Politica sia, sempre che non si voglia accettare che il “fare Politica nell’interesse della gente” significhi accelerare il processo di fine della vita terrena del maggior numero possibile di persone, al fine di consentire loro di liberarsi dal bisogno quanto prima possibile e così guadagnare la felicità nell’altra vita. Che potrebbe esser tutto vero. Non a caso, mi pare che ai kamikaze di ogni tipo il Paradiso sia assicurato assieme ad un certo numero di vergini di grande valore, datane la scarsità crescente in questo mondo.
E non a caso sempre più spesso si imbottiscono di esplosivo i bambini: quale destino migliore per un ragazzino dell’essere liberato da ogni problema prima ancora che ne acquisti nozione? Se è vero che “muor giovane colui che al cielo è caro”, quale missione più nobile di quella di ucciderli, i giovani?
Solo mi chiedo, e la domanda è forse banale: ma perché se di là tutto è perfetto (esistono anche le vergini distribuite a man bassa, settantadue a cranio, sembra), perché gli organizzatori e i capi non sono in testa alla fila dinanzi alle porte del Paradiso?
Domanda banale, e risposta ovvia: hanno una missione da compiere, i capi, e si sacrificano fino a nascondersi sotto terra pur di prolungare il tempo a disposizione per creare la felicità degli altri. Oppure (o anche) non sono uomini di fede: se è vero che si avranno a disposizione “settantadue donne ed una erezione perenne”, forse i capi terroristi hanno… il terrore di vivere per l’eternità in erezione, cosa certamente scomoda e alla lunga non piacevolissima.
Oppure ancora (risposta colta): se invece che di vergini si trattasse di chicchi d’uva – come più di un esegeta afferma – ma credete proprio che ne valga la pena?
Qui da noi, almeno, una cosa è quasi certa: il potere è a portata di mano e concreto, e cumannari è megghiu ca futtiri.
E a me pare che altre due cose siano se non certe almeno probabili. La prima: l’aiuto e la connivenza (magari inconsapevole e involontaria) con i terroristi scaturisce anche dalla progressiva perdita dei valori sui quali è stata costruita la nostra civiltà, dovuta – la perdita dei valori – anche alla carenza di educazione e di istruzione; la seconda: l’aiuto che i mezzi di comunicazione danno ai terroristi occupandosene reiteratamente e a fondo, spesso anche, in omaggio ad una delle leggi del giornalismo nostrano, montando la notizia.
La Pirelli è divenuta cinese. Per chi, come me, ha svolto il primo impiego proprio in Pirelli, alla agenzia Centro che all’epoca era tra le prime del mondo cosiddetto civile, una punta di rammarico ed un po’ di tristezza. Eravamo considerati, noi Account, la punta di diamante di una impresa internazionale, importante, prestigiosa. E ce ne vantavamo. E Milano ci accoglieva come ospiti di riguardo. Stupidaggini.
Ora so che ancora una volta coloro che inneggiano alla superiorità degli imprenditori italiani sono stati smentiti, come sono stati smentiti tutti i teorici e parolai della funzione sociale delle imprese.
La realtà è che almeno in Italia non esistono più (e forse non sono mai esistiti) imprenditori degni di questo nome e, soprattutto, credo mai siano esistiti imprenditori che abbiano saputo coniugare il proprio interesse al profitto con l’utilità della compagine sociale, del Paese. Salvo, naturalmente, qualche rara eccezione.
Naturalmente, i mezzi di comunicazione si sono riempiti dei soliti richiami alla libertà d’impresa, al libero mercato, alla globalizzazione, al bla bla economico, sociologico e filosofico.
Io mi chiedo soltanto come si possa fare a fidarsi dei cinesi, la cui filosofia economica (e politica) appare tale da lasciare immaginare un cambiamento radicale nelle condizioni dei lavoratori e nel numero degli addetti. Che la testa rimanga in Italia è possibile, anche se non sono sicuro che sia cosa buona. Ma che i posti di lavoro non siano presto o tardi sottratti ai lavoratori italiani… è questione diversa. Proprio per le caratteristiche del nostro sistema economico, perché i cinesi non dovrebbero utilizzare la manodopera fornita da qualche centinaia di milioni di persone disposte (e costrette) a prestare lavoro in cambio del minor salario e delle minori garanzie possibile? Non è forse la legge della domanda e dell’offerta a dirlo?
E mi chiedo anche perché si continui a sostenere che lo Stato non debba intervenire, neppure quando si tratta di imprese che “sono” il made in Italy e concretano l’immagine del nostro Paese.
Forse perché il concetto stesso di “made in Italy” è stato svuotato di ogni significato?
Un pilota si è suicidato scagliando il proprio aereo contro le montagne innevate della Provenza. Da quanto è possibile capire, lo ha fatto perché si parlasse di lui ed a lungo. Sembra che non avrebbe mai potuto divenire comandante e per questa e per altre ragioni fosse andato in depressione, comunque conservando la capacità di pianificare i mezzi per rimanere in qualche modo nella memoria della gente.
Ha portato con sé quasi duecento persone, consapevoli di quanto stava succedendo.
Un comportamento da terrorista, forse più ancora che da uomo gravemente ammalato.
E provocando, anche, un danno d’immagine al suo Paese, dimostrandone la vulnerabilità almeno nel garantire la sicurezza dei voli.
E qui un dubbio: ma non sarà che l’affidare ad una sola persona un aereo risponda a precise esigenze di economia di gestione? Perché le compagnie low cost in tanto sono possibili in quanto riescano a risparmiare sui costi. In testa, quelli della sicurezza. Commenti?
Pare che qualcuno sia già corso ai ripari, ripristinando l’obbligo della presenza di almeno due persone in cabina.
La buona scuola a marzo ha fatto capolino dalla cortina di silenzio del Ministro. Che la qualifica di “buona” la meriti proprio per il ricordo sommesso di un Ministro che dovrebbe occuparsene e che questo fa con discrezione infinita, fino al quasi mutismo, e di un Presidente del Consiglio dalle promesse rutilanti?
Certo è che voci di diversa provenienza si sono levate nel lodevole intento di contribuire alla definizione di “buona scuola”, ed hanno ragionato in termini di proposte assolutamente e concretamente determinanti.
In testa, la riduzione degli attuali tre mesi di vacanza. Una proposta di cui i docenti dovrebbero essere orgogliosi: li assimila, sia pure piuttosto vagamente, a quei Magistrati che da più di qualcuno sono considerati privilegiati anche per la durata delle ferie.
Naturalmente, solo qualcuno si è ricordato che, forse, quelle vacanze sono un tempo da più di qualche docente dedicato all’aggiornamento, oltre che al riposo.
Nessuno sembra ricordare che un buon docente prepara le lezioni, ogni lezione, per ogni classe e per ogni giorno di scuola, e che quindi una buona parte della giornata è impegnata in un lavoro che si aggiunge all’insegnamento e alla correzione dei compiti, così raggiungendo le mitiche otto ore lavorative, che diventano molte di più – almeno in Italia – se si considera che le donne sembrano costituire la maggioranza degli insegnanti (almeno nelle scuole elementari, medie e medie superiori) e non possono rinunziare alla gestione della famiglia, cosa della quale il maschietto italiano tende a disinteressarsi “perché lavora”.
A distanza ravvicinata dalla demonizzazione delle vacanze, ecco la proposta vincente: mettere i ragazzi a contatto diretto con il mondo del lavoro, in modo da accelerarne l’eventuale assunzione presso le imprese.
A parte ogni altra considerazione circa il diritto dai giovani non tanto e non solo al riposo, quanto anche ad utilizzare il tempo libero dalla scuola per viaggiare, conoscere, sperimentare mondi e situazioni diverse; a parte la difficoltà di “concretare” il rapporto studente-impresa, cosa tra l’altro delicatissima non fosse altro che per il rischio di scivolare nello sfruttamento di minori; a parte questo e quanto neppure accennato, è mai possibile che nessuno – dico, nessuno – sia stato sfiorato dal dubbio che fine ultimo (“causa”) della scuola non sia preparare al lavoro, bensì preparare i giovani ad acquisire la specializzazione necessaria per il lavoro che vorranno, dovranno, potranno svolgere?
Con una conseguenza quasi obbligata: almeno tutta la scuola di ogni ordine e grado, quella che precede l’Università, dovrebbe formare umanisti dotati della cultura e della maturità necessaria per approfondire gli elementi costitutivi della professione di specifico interesse. Ciò potrebbe comportare la pianificazione di una serie di scuole di specializzazione e di “master” in tutto o in parte partecipati dalle imprese private come dallo Stato. Un canale di formazione in qualche modo parallelo alle università, il cui compito diverrebbe quello di “produrre le eccellenze della professione”.
Infine il delitto Meredith: assolti definitivamente i due supposti assassini. Le motivazioni della sentenza della Cassazione non sono ancora note, ma l’effetto è che i due giovani accusati sono stati dichiarati innocenti. Rimane a scontare la pena quel Ghedé che ha patteggiato diciotto anni per aver ucciso “in concorso con altri” la studentessa inglese a Perugia.
“In concorso con altri” dovrebbe significare quanto meno che li ha visti e che avrebbe potuto aiutare a capire di chi si trattava. Perché non ha parlato? E perché continua a tacere?
E se coprisse qualcuno che gli ha promesso, per questo, un congruo risarcimento per gli anni di carcere evitati grazie al silenzio?
O forse ha ragione chi ritiene che tace soltanto perché era solo.