Editoriale: Principio primo del viver civile, chi fa da sé fa per tre
di Paolo Maria Di Stefano -
Forse siamo vicini al fondo. Che è una bella notizia, visti i tempi, sempre che sia vero che, raggiunto il fondo, è possibile iniziare la risalita. Verso che cosa, non mi sembra chiarissimo, dato che nessuno sembra avere proposte concrete e pianificazioni per il futuro e, soprattutto, considerato che da nessuna parte compare un qualche accenno serio, al di là delle parole (che sempre son tante) raccolte, in genere, in fumosi e talvolta anche fantasiosi programmi di utilizzo di pezze a colori per le situazioni più varie. Fatti salvi, naturalmente, gli egoismi personali, a proposito dei quali almeno una cosa è chiara: ognuno per sé e, se si ha ancora un po’ di fede, Dio per tutti. La qual cosa ci porta direttamente a quella che appare come una delle colonne portanti della disfatta culturale in corso: l’assunzione di vecchi adagi a valori universali e guida dei destini e delle azioni degli individui, dei popoli, delle nazioni e degli Stati.
Chi fa da sé fa per tre – credo sia incontestabile – è uno di questi. La vittima, quella a noi più vicina, di questa magica pozione di assoluta credenza, è stata la Catalogna la quale sembra credere fermamente che dichiarare la propria indipendenza dalla Spagna e proclamarsi repubblica sovrana porti benefici importanti. Per qualcuno e nel breve periodo certamente sarà così (altrimenti, a che servirebbe la politica?), ma il cancellare la conquista culturale della “unità”, del “fare insieme per risultati migliori” è certamente un passo indietro. E altrettanto certamente, gli Stati Europei, che a fatica stanno costruendo quella Europa Unita della quale fa parte fondante la Spagna, dovrebbero non riconoscere e non accogliere la nuova Repubblica Catalana. Anche perché le pulsioni indipendentiste, più o meno fondate sulla storia e la cultura, che serpeggiano in tutto il mondo, da un riconoscimento quale che sia e da parte di chicchessia (anche trascurabile al momento) trarrebbero conseguenze dagli effetti disastrosi. E dichiarare l’indipendenza della provincia catalana poterebbe costituire un’esca appetibile per chi ha interesse a mestare nel torbido ed a creare caos. Tra l’altro, i catalani che applaudono alla dichiarazione di indipendenza non si sono forse resi conto appieno di aver messo la Spagna con le spalle al muro, in pratica costringendola ad applicare – prima volta nella storia – l’articolo 155 della Costituzione – con gli effetti previsti a carico delle istituzioni e delle persone. E quindi, di essere – quei catalani – in partenza perdenti.
Le ombre dell’effetto domino si allungano anche su di noi italiani, pur se, con molta probabilità, tutto quello che accadrà sarà soltanto un livello ulteriore di disordine e di incertezza. I referendum consultivi di novembre in Veneto ed in Lombardia a mio parere non vanno sottovalutati, non fosse altro che perché la assoluta maggioranza dei votanti ha espresso parere positivo. Il che significa comunque che una buona parte degli abitanti delle due regioni guida d’Italia si è lasciata sedurre dalla proposta di trattenere il novantasei per cento delle “tasse” perché sia amministrato in loco, anziché concorrere come oggi accade (o dovrebbe accadere) alla gestione dell’intero Paese: prova di un crescente egoismo personale e di gruppo, e per questo, anche strumentalizzabile da parte di chi ha il solo obbiettivo di conquistare il potere per interessi non necessariamente loschi, ma certamente di parte. Il tutto, nelle presunzione di poter fare da sé e dunque di fare per tre. Illusione neppure tanto pia, anche visto che gli amministratori dello Stato nel suo insieme provengono dalle Regioni: se si sono dimostrati incapaci a livello nazionale, perché dovrebbero rivelarsi geniali professionisti dell’economia e della politica una volta ricondotti nell’ambito dei territori di provenienza?
La campagna elettorale per le politiche del 2018 è in pieno svolgimento, e da tempo. Checché se ne dica. Ed anche i Politici sembrano contagiati alla grande dal chi fa da sé fa per tre. Soprattutto quel PD che si pone come la più importante tra le compagini che van sotto la nomea di partiti politici. Ultimo in ordine di tempo, il Presidente Grasso lo ha lasciato, non riconoscendosi più in esso. Renzi spera di esser vissuto dagli elettori come il salvatore di un PD esploso e il continuatore della sua azione quando era ancora intero, almeno formalmente. Con solo un problema: che mentre “salvatore” sembra significare il mantenere unito quello che del partito resta, l’essere continuatore della sua politica appare molto ma molto più problematico. E per una sola ragione: non sembra esistere una politica del PD o, quanto meno, tutto è meno che chiaro e chiaramente comunicato. Che è esattamente quanto accade per le così dette opposizioni, le quali tutte hanno però almeno un obbiettivo assolutamente chiaro: schiacciare quel che resta del PD. Per il resto, nessuna chiarezza o, meglio, una chiarezza sola: la confusione, la incertezza, la parzialità, l’incompletezza e l’incoerenza (spesso) di quelli che chiamano “programmi”. Nemmeno sul nome del leader e soprattutto di un leader affidabile si può far conto.
Tutto questo, e quanto neppure accennato, sopra tutto perché si è smarrito il senso dell’insieme e quindi della discussione e del confronto e della ricerca e dell’accordo migliore possibile. E lo si è smarrito anche per la mancanza di una “cornice” che racconti il fine ultimo di ogni partito. Che è una ulteriore conferma che quel “chi fa da sé fa per tre” forse risolve qualche piccolo problema del momento, relativo a piccoli interessi di piccole persone, ma nessuna efficacia ha quando l’orizzonte si allarga. Anzi: più il campo è vasto e complesso, più cresce l’essere soli accresce le probabilità di creare danni tanto gravi da diventare probabilmente irreversibili.
Novembre è stato anche il mese della legge elettorale, tormentone assoluto che ha consentito ai parlamentari di trascurare molti tra gli altri problemi, forse più seri ed importanti. La legge elettorale è passata a colpi di fiducia. Che quando si pensi che l’eventuale rigetto avrebbe rischiato di mandare tutti a casa, la dice lunga comunque sui veri interessi di buona parte dei deputati e dei senatori. Ma, non ostante tutto, questo Rosatellum ormai legge funzionerà. In qualche modo, ma funzionerà. In fondo, è da sempre che i sistemi di elezione alle Camere si rivelano compromessi che innescano complicatissimi conteggi per la assegnazione dei ministeri, dei sottosegretariati, dei componenti le commissioni, degli addetti ai servizi vari, commessi e uscieri compresi. Un tempo, ai conteggi provvedeva quel Manuale Cencelli oggi da più di qualcuno ricordato e forse invocato e, credo, ancora ritenuto in pratica insostituibile. Il manuale interveniva, comunque, in un secondo momento, ad elezioni avvenute, anche se in più di un caso tenuto presente dai Partiti al momento di indicare i candidati.
Per una legge elettorale accettabile è stato ritenuto assolutamente necessario e dunque prioritario eleggere con le stesse modalità sia i senatori che i deputati. Garanzia di governabilità, si è detto, e di coerenza. Che sembra vero, almeno detto così. Solo un dubbio, peraltro minuscolo: se la Camera e il Senato devono rispondere nello stesso identico modo, perché doppiare, a parte le considerazioni di garanzia di una doppia lettura? Non sarebbe stata sufficiente una sola Camera, magari con un’attenzione maggiore alla professionalità dei candidati e quindi degli eletti? E poi, la questione del potere – del dovere? della violenza? – dei Partiti che scelgono i candidati, con ciò limitando o condizionando la libertà di scelta, diritto degli elettori, di ogni elettore. Possiamo riparlarne in Cattedra?
I quattordicenni e la scuola: all’uscita, occorre che qualcuno li attenda per accompagnarli a casa. Pare lo stabilisca la legge, ed alle leggi si obbedisce. Lo ha proclamato anche il ministro, fatto questo raro quanto commendevole: i politici in genere da noi sembrano tesi soprattutto ad ignorare le leggi e, quando le conoscono, ad aggirarle, magari in favore di un amico. E magari perché venga cancellata una contravvenzione per violazione di una norma del codice della strada. E che il Ministro abbia espresso un parere è comunque sintomo di una vitalità generalmente nascosta con la massima accuratezza quando si tratti di scuola e di istruzione pubblica, ambito esclusivo del silenzio e del “non fare”.
Cito testualmente dall’articolo di Andrea Carlino concernente la relazione tecnica dell’onorevole Simona Malpezzi: “(omissis) Come è noto, una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (“ordinanza” 19 settembre 2017 n. 21593) ha stabilito che la verificazione di un incidente (nota mia personale: avrei scritto “il verificarsi”) ad un minore fuori dal perimetro scolastico non esclude la responsabilità della scuola. Nel caso di specie, un bambino di 11 anni era stato investito dall’autobus di linea sulla strada pubblica all’uscita di scuola. La Cassazione ha testualmente affermato che l’obbligo di vigilanza in capo all’amministrazione scolastica con conseguente responsabilità ministeriale discendeva da una precisa disposizione del regolamento d’istituto, che poneva a carico del personale scolastico l’obbligo di far salire e scendere dai mezzi di trasporto davanti al portone della scuola gli alunni, compresi quelli delle scuole medie, e demandava al personale medesimo la vigilanza nel caso in cui i mezzi di trasporto ritardassero. Pertanto l’attività di sorveglianza della quale l’amministrazione scolastica era onerata non avrebbe dovuto arrestarsi fino a quando gli alunni dell’istituto non venivano presi in consegna da altri soggetti e dunque sottoposti ad altra vigilanza, nella specie quella del personale addetto al trasporto. (omissis)” Seguono più o meno colte e fondate considerazioni di ordine giuridico e sociologico.
Al proposito, io posso solo aggiungere un ricordo personale: a quattordici anni non compiuti, io frequentavo quella che allora si chiamava quarta ginnasio e costituiva, assieme, alla quinta, il biennio propedeutico al liceo classico. Per andare e tornare da scuola, attraversavo a piedi mezza città, e portavo i calzoni corti. Mi sarei vergognato come un ladro se qualcuno della mia famiglia o per sua delega mi avesse accompagnato al portone o, peggio, fosse venuto a prendermi all’uscita. Indovinate un po’ il perché. I tredici- quattordicenni di oggi sono enormemente più svegli di quelli di allora…
Una cosa, comunque, il Ministro ha messo in evidenza: alle leggi si obbedisce.