Editoriale: Politica ed economia 2015, punto primo, diradare la nebbia

di Paolo M. di Stefano -

Tempo di bilanci e previsioni, inevitabile atmosfera dell’ultimo scorcio di un dicembre coerente con un anno tutt’altro che sereno. Volano le parole e gli scritti degli astrologi, e sembra si sia moltiplicato il numero di coloro che dedicano attenzione alle elaborazioni dai movimenti degli astri dei segnali che indichino cosa ci attende.
Come al solito, anche gli scettici, gli increduli, gli agnostici uno sguardo allo zodiaco lo riservano. Hai visto mai…
Non credo di fare eccezione, anche perché, convinto come sono che il terreno dell’astrologia sia più che minato e più che altro appannaggio di furbastri cacciaballe, un dubbio l’ho sempre avuto: se l’universo è descrivibile da formule matematiche e da equazioni di ennesimo grado, perché dovrebbe essere impossibile conoscere il futuro?
La risposta è semplice: perché non conosciamo quelle formule e le leggi che descrivono. E dunque, non siamo in grado di trarne gli insegnamenti necessari per immaginare e descrivere cosa ci attende.

Ma esistono pur sempre segni comunque suggestivi.
Quando ho iniziato a scrivere questo editoriale era il 20 dicembre. Alle cinque e dieci del mattino. Era ancora buio. Aperte le imposte, sono stato colto di sorpresa dalla presenza di una nebbia quale da oltre quaranta anni non avevo più visto. Più o meno il tempo trascorso da quando la nebbia è stata cacciata dal centro di Milano. L’ultima volta, la ricordo come fosse oggi: la via Verdi era buia e fredda, vestita di nebbia traslucida. Dal terzo piano, era impossibile vedere il selciato, e il lampione appena sotto la finestra era una sfera dai contorni incerti, subito polvere di luce. La strada viveva del solo rumore degli zoccoli di un cavallo vestito di ombra ed ombra esso stesso, intento a tirare un enorme carro dal pianale piatto, su ruote di gomma. Un momento, e il silenzio e il buio e la nebbia traslucida.
Ho rivisto la nebbia in centro a Milano.
Quasi un presagio. Il 2014 si è chiuso nella nebbia, e probabilmente nella nebbia si aprirà il 2015.
Una nebbia anche tragica.

In Pakistan, più o meno centocinquanta bambini sono stati uccisi dai Talebani nella scuola assalita. Davanti a loro, i maestri sono stati dati alle fiamme. Negli Stati Uniti, la colpa di esser di colore è stata punita da poliziotti armati che hanno sparato perché impauriti da un’arma giocattolo manovrata da un bambino. Poco prima, avevano ucciso perché dal buio era comparsa la sagoma di un nero. Poi è scattata la vendetta, con l’esecuzione di due poliziotti a New York. In Australia, una madre sembra aver ucciso sette dei suoi otto figli. In Centro Africa, e non solo, i bambini sono mandati a fare la guerra, usando fucili più grandi di loro. “Perché – pare aver detto uno di loro – la mia famiglia è stata sterminata, e i soli a interessarsi di me sono stati loro, quelli che mi hanno dato il fucile”. Da noi, in questa Italia dalla vantata civiltà millenaria, sono state massacrate alcune donne e qualche madre ha ucciso il figlio. Si sono salvati i bambini maltrattati dalle maestre dell’asilo cui i genitori li avevano affidati. Di rilievo particolare, in questo ultimo caso la crudeltà.

Tutto avvolto in quella nebbia della cultura che sembra ingoiare tutti noi, impedendoci di vedere i confini di una civiltà – fatta di valori, di principi, di educazione, di consapevolezza – che evidentemente non ci appartiene più. O, peggio, che ci è diventata del tutto estranea.
Perché l’arretramento culturale è palpabile.
In ogni settore e sotto ogni cielo.
Da noi, forse, più che in altri Paesi.
A farne le spese, ovviamente, i più deboli.

In Politica, la nebbia sembra assoluta. Nasce da una palude di parole, di abbozzi di pensieri, di improvvisazioni. E di risse e volgarità secondo tradizione ormai consolidata. E tale sembra rimanere, solo animata da improbabili proposte a fini elettorali e comunque dirette a fare quel rumore che denuncia una presenza altrimenti ignorata.
Come accade quando si promette l’aliquota unica delle tasse al venti o al quindici per cento, anche fingendo di ignorare che arriverà qualcuno a ventilare il dieci per cento: un gioco al ribasso senza senso alcuno.
Esattamente come non avrebbe alcun senso promettere l’abolizione delle tasse e delle imposte. Perché il vero problema sta nella mancanza di una corretta e chiaramente comunicata pianificazione di gestione degli “scambi fiscali” nel mondo di quegli scambi pubblici di cui lo Stato dovrebbe occuparsi e per ciascuno quali dovrebbe disporre di una corretta e chiaramente comunicata pianificazione di gestione.
Che garantirebbe, tra le altre cose, la corretta individuazione delle “cause” di almeno uno Stato, quello italiano, il cui senso sembra essere ormai perduto.
Ed è, poi, questa nebbia che avvolge lo Stato, da un lato la ragione del successo dell’attuale Presidente del Consiglio il quale – fosse anche soltanto armato dell’entusiasmo della gioventù – ha quanto meno costretto il Parlamento a muoversi, a fare qualcosa, ad operar rattoppi.
E a lavorar anche di notte per cercar di rispettare i tempi. Con ciò dimostrando che è possibile pensare ad un Parlamento non composto da nullafacenti incapaci, dediti solo a tutelare interessi di parte ed a farlo ossequienti alla legge del minimo mezzo.
Ma la stessa nebbia sembra essere la ragione delle critiche che al Governo sono da più parti rivolte. Meglio: l’ambiente nel quale le critiche si formano, dal momento che coloro che criticano null’altro fanno se non criticare, aggirandosi nella nebbia più fitta, senza che si intraveda neppure una proposta sensata. Come se la nebbia potesse essere combattuta con altra nebbia.

E nella nebbia nasce e dalla nebbia è avvolta la battaglia contro l’euro, esattamente come quella relativa alla uscita dall’Europa.
Che l’euro abbia facilitato la speculazione e l’arricchimento da parte di più di qualcuno è vero. E neppure possiamo lamentarci: chi ha speculato, ha soltanto obbedito ad una delle leggi che regolano la nostra economia e che raccomanda di cogliere le occasioni.
Ed è anche vero che l’Unione Europea è tutt’altro che perfetta. A parte la riconosciuta improbabilità che qualcosa fatto dagli uomini sia perfetto, non c’è dubbio che l’Europa è nata troppo in fretta, in un ambiente culturalmente non del tutto pronto, e troppo in fretta ha voluto allargarsi. Tra l’altro, la moneta unica è stata una causa dell’unione, mentre avrebbe dovuto esserne un effetto. L’adozione della lira in Italia al posto dei fiorini, degli scudi, dei baiocchi, di un nugolo di monete diverse in uso nei vari Stati italiani ha avuto successo anche perché avvenuta dopo l’unificazione, e il nostro Paese è diventato “uno ed indivisibile” nonostante le sovranità (e gli interessi) degli Stati che occupavano la penisola anche per un ambiente culturale pronto a pensare in termini di unità.
Di certo sembra ci sia che almeno da noi la parola è vincente: un fiume di parole crea la nebbia necessaria a conquistare e mantenere il potere e a conquistare, mantenere ed accrescere la ricchezza.
In questo, un sistema economico di rapina ed egoismo è un aiuto necessario, determinante.
E noi ne disponiamo.
Tanto è vero, che si è dimostrato che uno degli effetti del sistema in atto – il raggrumarsi della ricchezza sempre di più nelle mani di pochi, a scapito della generalità – è in piena realizzazione. Meno del dieci per cento della popolazione dispone di oltre l’ottanta per cento della ricchezza.
E la povertà avanza, in una con la disoccupazione. In particolare, di quella giovanile.

Alla mancanza di lavoro si dice si possa porre rimedio incentivando le assunzioni attraverso sgravi fiscali per le imprese.
Parole. Con i tempi che corrono, è assai probabile che diminuire le tasse sul lavoro non creerà nuove assunzioni. Le imprese allora assumeranno quando ci sarà il lavoro, e il lavoro allora ci sarà quando aumenterà la domanda. Cosa peraltro non certa: all’aumento della domanda è più probabile che aumentino i prezzi di vendita e i profitti. Almeno, che gli incrementi precedano quell’aumento di produzione che potrebbe creare lavoro.
E la domanda certamente non cresce in virtù del diminuire delle tasse che le imprese pagano per disporre della risorsa lavoro.
Anche in questo caso, la nebbia regna sovrana e di essa approfittano i detrattori del Presidente del Consiglio e della azione del suo governo. Sindacati e Partiti e Movimenti hanno in comune proprio la nebbia, appunto, e questa rende sostanzialmente impossibile l’elaborazione di proposte concrete e credibili e praticabili, ed anche inutile l’impegno ad elaborarne: tanto, tra le altre cose non si distinguerebbero.
Forse, una possibile soluzione potrebbe essere una iniziativa dello Stato di “fare impresa” in proprio nei settori di interesse pubblico.
Ma solo diradando la nebbia culturale della politica e dei politicanti in genere si potrebbe ragionare sul perché uno Stato, che è persona giuridica dotata di capacità di agire e di potestà d’imperio, non debba poter fare impresa. Magari ragionando in termini più di creazione di utilità pubblica che di profitto e dunque di utilità privata. E quindi, se necessario ed opportuno, entrare in concorrenza con chi afferma di “fare impresa” e, soprattutto, di saperla fare. Cosa quest’ultima, non vera, almeno nella generalità dei casi.
Non è vero che l’Italia dispone di ottimi imprenditori. Meglio, non è vero che la maggioranza lo sia.
La crisi dell’Italia nasce in gran parte proprio a causa della incapacità degli imprenditori a guardare oltre il profitto a brevissimo e a breve, ed a ragionare in termini di gestione degli scambi e non soltanto in quelli relativi al cambio delle monete. E, in più, del loro guardare alla utilità pubblica non come altro lato della medaglia chiamata utilità, ma come ad un traguardo opposto, ad una sponda nemica.
Il tutto in una con l’incapacità delle scuole e delle Università a preparare economisti e imprenditori in grado di affrontare i mercati e vincere.

Che le Università debbano preparare imprenditori e gestori d’impresa e manager è fonte di nebbia assolutamente impenetrabile. Non esiste e mai esisterà da noi una Università in grado di farlo. Per una serie infinita di ragioni, alle quali non è estranea l’incapacità di molti docenti.
Dice: noi disponiamo di almeno una Università nota nel mondo per la capacità di formare economisti e gestori d’impresa. Non è vero. Quella Università sforna laureati convinti di essere in grado di assumere le cariche di Presidenti e di Amministratori Delegati, e per questo in più di un caso incapaci di fare squadra con le forze di lavoro e dunque (anche) invisi agli imprenditori, i quali non hanno bisogno di sé- credenti geni della gestione, ma di persone capaci di “gestire gli scambi” di riferimento.
Compito delle Università dovrebbe essere il formare soggetti in grado di comprendere a fondo il fenomeno dello scambio in tutte le sue componenti e sfumature, e quindi di soggetti profondamente umanisti capaci di specializzarsi non soltanto nella gestione degli scambi economici, ma in ogni loro particolarità dovuta ai settori di interesse.
Poiché una cosa è gestire lo scambio avente per oggetto un prodotto alimentare, altra e ben diversa cosa è gestire lo scambio relativo ad una nave da crociera o ad un prodotto ad alta tecnologia o anche alla moda o ai servizi di trasporto collettivo, e via dicendo.
Il substrato comune è costituito dall’essere tutto prodotto e tutto destinato allo scambio – e questo è possibile insegnare nelle Università. Tutto il resto è materia di distinzioni e differenze spesso sottilissime relative a ciascuna delle componenti di uno scambio, e che possono essere conosciute soltanto attraverso corsi di specializzazione dedicati allo specifico prodotto ed al suo specifico mercato.

E l’antipolitica – di nuovo alla ribalta – sembra essere parte integrante della cultura del popolo italiano. Tanto da preoccupare il Capo dello Stato e spingerlo ad invitare tutti noi a ripensare al nostro modo di guardare alla Politica.
La mia idea – della quale non riesco a liberarmi, non ostante gli sforzi compiuti – è che quando si parla di “antipolitica” si è vittima di un equivoco. Perché non credo sia corretto pensare che “antipolitica” significhi ignorare la Politica, rigettarla come una sorta di male assoluto, e dunque starne lontano astenendosi dal fare oppure operando in modo diverso.
Io credo che una “non politica” in realtà non esista e non possa esistere.
E dunque, che quando si parla di “antipolitica” si debba intendere una “opposizione al modo di intendere e fare politica” da parte di coloro che svolgono questa attività.
Un’opposizione peraltro in fondo inconsapevole. Chi si professa “di fede antipolitica” sembra utilizzare gli stessi principi dei Politici e della Politica: conquistare quanto più possibile di potere per poter disporre della maggior quantità possibile di ricchezza, e far accettare il gruppo di appartenenza utilizzando argomentazioni di vendita (le promesse politiche) che si avvalgono soltanto della suggestione. “Votami, e aboliremo le tasse” è una di questa; “Votami, e cacceremo lo straniero” un’altra; “Votami, e torneremo a essere ricchi e potenti” un’altra ancora; “Votami, perché votando per me avrai votato per gli onesti e per i capaci” una ulteriore…fino a quel “Votami, e l’Italia cambierà” che allora avrà un significato quando chi chiede il consenso avrà spiegato come l’Italia deve cambiare, perché deve farlo, in quanto tempo sarà fatto, chi saranno i responsabili del cambiamento.
Nebbia.

La corsa all’elezione del nuovo Capo dello Stato è partita. Il Presidente Napolitano è stato un grande Presidente e merita il ringraziamento di tutti gli italiani, oltre a quello dell’Europa tutta. Una delle prove della Sua grandezza è nelle reazioni scomposte e negli insulti che gli sono stati rivolti, il pulpito essendo costituito da improvvisatori ineducati quanto incapaci di fare Politica e soprattutto di avvicinarsi alla gestione della cosa pubblica con la necessaria preparazione culturale.
Che la via dell’inferno sia lastricata di buone intenzioni è cosa nota; che le intenzioni sulla via della Presidenza della Repubblica italiana siano buone è tutto da dimostrare.

Il Presidente del Consiglio ha detto (cito a memoria) che la Magistratura deve parlare con le sentenze e non con i comunicati stampa o con le interviste. Corretto, ovviamente, anche se non mi è del tutto chiaro perché i giudici debbano essere capitis deminuti, al di là del segreto istruttorio al quale sono tenuti e che ne limita la capacità di comunicare.
Ma non è questo l’importante.
Importante sarebbe prendere atto che il problema della Giustizia in Italia dipende soprattutto dalla congerie di leggi spesso contraddittorie, quasi sempre mal fatte, che la Magistratura è chiamata ad applicare, anche seguendo procedure a loro volta farraginose, bisognose perché oscure di interpretazione. E la nebbia delle leggi e delle procedure (che son leggi anch’esse) non si dirada riducendo le ferie oppure imponendo orari di lavoro. Che non è detto che siano cose inutili, ma certamente non sono la ragione prima della “malagiustizia” la quale nasce, invece, proprio dall’incapacità di fare leggi “giuste” e dalla volontà più volte manifestata da parte del legislatore di stabilire vantaggi e privilegi e impunità a scapito di quel “bene comune” che dovrebbe essere la “causa” ultima di ogni attività dello Stato.
E della Politica e dell’Economia.
A tutti i livelli.

Ai treni e alle stazioni alcuni delinquenti sembrano dedicare una cura particolare, soprattutto sotto Natale. Sono stati provocati ritardi e, soprattutto, incertezze e timori. Forse si tratta soltanto di delinquenti idioti. O forse no: potrebbe esser qualcuno che cerca di distrarre l’attenzione dai fatti di mafia, per esempio, e di corruzione. E potrebbe anche essere l’avvisaglia di un terrorismo che si spende in micro attentati.
Nebbia.
La stessa dalla quale traggono giovamento le mafie. E Dicembre è stato anche “il momento della mafia capitale”. In cattedra, qualcosa al riguardo.