Editoriale: Marcia funebre per il Paese?

di Paolo Maria di Stefano -

La sera del 27 gennaio, in una piazza della Scala gremita di quella “gente comune” alla quale si fa più che spesso riferimento e che quasi sempre – il quasi è un eufemismo, forse – è utilizzata come alibi sovrano della incapacità dei politici e degli economisti ad indicare una via credibile per l’uscita dalla crisi che attanaglia i due mondi, in un certo senso riavvicinandoli e annodando un comune legame; quella sera, dicevo, la “gente comune” ha creato in piazza il grande silenzio d’omaggio al Beethoven della marcia funebre, diretto da Barenboim nel teatro vuoto e dalle porte aperte,  ma più ancora allo spirito di Claudio Abbado, il musicista dissoltosi nello spazio dal quale sarà per lui più facile  realizzare  quel  disegno che lo ha fatto grande: fare della musica il linguaggio della “gente comune”.
Che vuol dire, donare a tutti la possibilità di accostarsi alla grande musica, di ascoltarla, di comprenderla e, per alcuni più fortunati e dotati e volenterosi, di “fare musica”.
Io credo che il Maestro abbia attuato una pianificazione concretamente attenta: dare a tutti la possibilità di ascoltare la musica colta, in modo che tutti potessero afferrarne il linguaggio ed i significati e dunque beneficiare di un elemento di “alta cultura”, un seme di incremento delle conoscenze di ciascuno e di tutti.

Perché il problema, almeno da noi, appare sempre lo stesso: il livello della cultura in genere è in progressiva diminuzione, e la causa è chiaramente individuabile nel ricorso in ogni campo al “semplice” ad ogni costo e quindi anche al facilmente “vendibile”.
Accade così per la musica e per le arti in genere, poiché appare più semplice improvvisare e più facilmente accettabile da parte del “pubblico” (o della gente, come si usa dire) il risultato di “non conoscenze” gabellato per “novità creativa”, così che un lied di Schumann o di Schubert o una romanza di Tosti o qualcosa di simile di chiunque altro è totalmente ignorato, mentre una qualsiasi canzonetta di livello musicale e poetico infimo, argomentata come “nuova poesia” e sound moderno accende gli animi e riempie gli stadi, spesso dando vita a manifestazioni di puro fanatismo e di altrettanto assoluta isteria.
Accade così anche per discipline diverse dalla musica: per l’Economia, ad esempio, dalla quale sono ormai assenti i maestri, quelli veri, sostituiti da improvvisatori specialisti nella applicazione di pezze a colori ad un vestito logoro, stracciato e sporco.
Allora, forse la lezione di Claudio Abbado ha un significato applicabile anche all’Economia: così come l’ascolto della grande musica “fa” cultura – senza esaurirla, ovviamente – e migliora “la gente comune”, l’insegnamento delle teorie dei grandi maestri nelle nostre università consentirebbe di ridurre il numero degli improvvisati economisti e di aumentare le probabilità di trovare soluzioni e problemi che al momento appaiono insolubili.
Che è lo stesso problema dei nostri politici e della nostra Politica: la mancanza attuale delle conoscenze teoriche della disciplina chiamata “Politica”, e quindi della conoscenza dei “valori” di riferimento e della natura e dei bisogni del “soggetto chiamato gente”, del cui “benessere” la Politica dovrebbe esser chiamata ad occuparsi e della cui pratica a rispondere.
E proprio a quella “gente comune” che “fa” lo Stato e che, secondo la nostra costituzione, é il “popolo sovrano”.

Il vuoto starnazzar dei politici attorno al sistema elettorale (e non solo) non è che uno dei tanti accadimenti del gennaio, a cominciare dagli ultimatum che si sono incrociati e si incrociano senza alcuna reale e concreta “argomentazione” che non sia quella che ciascun Partito nasconde e che consiste nel perseguire il proprio interesse.
C’è chi del cambio dell’attuale sistema – sacrosanto (il cambio) a mio parere – ha fatto il proprio cavallo di battaglia: tutti, a ben vedere. E quindi il proclama unanime secondo il quale “il sistema elettorale va cambiato” è divenuto un puro slogan privo di ogni valore.
Tanto più che lo si sostiene da molti, troppi anni.
E tanto più che quanto al “come” la confusione regna sovrana, non ostante le proposte null’altro siano se non la scopiazzatura di sistemi esistenti e, si dice, nei Paesi di riferimento anche efficaci. Magari con qualche interpolazione di troppo. Come dire: non sappiamo neppure copiare!
E allora, qualcuno cerca di richiamare l’attenzione sul “fare”, tentando di dare una dignità di azione pianificata – soprattutto se al “fare” si unisce il “presto” – ad un altro elemento a sua volta divenuto puro slogan, proclamato da tutti e dunque a sua volta privo di ogni valore pratico.
“Fare presto” è bello ed istruttivo – avrebbe detto Guareschi. Ma che cosa esattamente fare e come rimane un mistero.
Perché “fare presto” non è in sé un piano di gestione affidabile.
Anzi: c’è chi ricorda che “presto e bene raro avviene”.
Adagio vecchio e dunque da rottamare. Con che cosa?
Certe rottamazioni, quando hanno riguardato personaggi “vecchi”, tutto hanno fatto meno che migliorare quella classe dirigente che appare ringiovanita nell’età, ma sembra essere assai più vecchia e meno colta di quella in tutto o in parte rottamata. Non un’idea nuova, non un arricchimento della cultura. Solo parole. E almeno una perdita grave: l’aver relegato nel silenzio una buona parte del patrimonio di quella “pratica della Politica” che della Politica italiana è e rimane forma e sostanza.
Un po’ come se in una impresa fossero messi a tacere la forza di vendita ed i dirigenti che fin’ora l’hanno gestita, senza per questo essere sostituiti da gestori colti e da collaboratori di vendita altrettanto preparati nella gestione degli scambi di competenza.

Ma a ben pensare un’eccezione c’è: il segretario di quello che sembra al momento il maggior Partito italiano ha resuscitato e richiamato al pieno della legittimazione Politica quello che era stato combattuto quale esempio conclamato di tutore di interessi personali e di connivenza con personaggi e strutture quanto meno non commendevoli.
E naturalmente nemico giurato di una Giustizia che, a parere suo e dei clientes, è nemica della libertà e della giustizia e si adopera perché l’Italia sia sempre meno governabile. Non solo, ma anche prontissima a creare problemi se appena si intravede la possibilità di un ritorno: un sistema giudiziario strutturato per fabbricare orologi di precisione, e funzionanti, anche! E che non solo merita insulti, ma va indicato agli italiani come il male oscuro della società. Perché gli italiani vanno “formati”; perché la cultura deve essere attentamente somministrata; perché i mezzi di comunicazione di massa vanno utilizzati per appiattire le menti ed eliminare i rischi di obbiezioni e di opposizioni.
E poiché la cultura impera sovrana, ecco i circenses.
Ed anche il panem non si nega.
Purché sia pane e non molto di più.
Perché l’Economia liberale ha permesso ad un dieci per cento di italiani di appropriarsi del sessanta per cento delle ricchezze, (Wilfredo Pareto disegnava un venti a ottanta).
E se i poveri continuano a chiedere, e le richieste aumentano perché il numero dei poveri cresce, e si incrementa anche il valore di ciò che si chiede, quel dieci per cento potrebbe andare incontro a qualche dispiacere.
Con il che salirebbe il numero degli infelici aggiungendosi, a quello di chi non ha mai avuto o ha avuto troppo poco, quello di coloro che perdono una parte di ciò di cui dispongono.
E non sarebbe giusto.
Ma soprattutto, dicono i politici sostenitori dell’attuale sistema economico, non sarebbe nell’interesse di quegli italiani, per il bene comune dei quali si fa Politica e dunque anche Politica economica e dunque anche “questa” Politica economica, ormai obbligata quanto meno per mancanza di creatività e di alternative praticabili.
Ecco, allora, che appare realistico operare in modo tale da impedire ai poveri di chiedere, invitandoli a “darsi da fare” per guadagnarsi quel di più che occorre per vivere, che dipende da chi attualmente detiene potere e ricchezze.
E che per questo va rispettato e per questo è abilitato a prendere tutti i provvedimenti necessari. Quale, per esempio, quello di obbligare chi lavora a ridurre stipendi e salari e ferie e assistenza acciocché si diventi competitivi con le imprese di chi, in altri Paesi, già si giova di lavoro pagato il minimo indispensabile.
Altrimenti, il trasferimento dell’impresa diventa passo obbligato. Ovviamente, nell’interesse dei posti di lavoro e quindi dei lavoratori tutti.

Alla Electrolux è quanto è sembrato iniziare a gennaio. Proposta alternativa al trasferimento degli stabilimenti nei Paesi a manodopera a costo inferiore e quindi al licenziamento: riduzione degli attuali salari di almeno un terzo, straordinari non retribuiti, ferie e permessi all’osso e quant’altro.
E’ giusto. I lavoratori hanno cercato di strozzare gli imprenditori, i quali notoriamente si sono dissanguati pur di riuscire a dare la giusta mercede agli operai. E’ per questo che la Politica ha permesso che le imprese italiane si servissero della manodopera dei Paesi stranieri; è per questo che la Politica non si è opposta al trasferimento delle imprese in Paesi che garantiscono ai lavoratori appena un minimo per la sopravvivenza; è per questo che non si fa caso al lavoro minorile che in quei Paesi garantisce costi di produzione inferiori; è per questo…
Con ciò rinunziando a combattere affinché anche in quei Paesi i lavoratori ottengano i diritti che i nostri hanno guadagnato spesso con lotte faticose e sanguinose.
Magari esagerando, forse anche più che talvolta.
Ma questo esclude, forse, la possibilità di rivedere il sistema economico in quelle parti “sovra strutturate”, in una con l’attenzione al non-acquisto dei prodotti provenienti dai Paesi che non retribuiscono con giustizia l’operaio e che impiegano il lavoro minorile e che sfruttano le donne?
Il cambiamento del sistema economico attuale è proprio in questo: eliminare tutte le esagerazioni, le esasperazioni di principi e pratiche le quali in sé, quando equilibratamente gestite, potrebbero e possono effettivamente realizzare una ricchezza da distribuire con equità.
E forse il tormentone relativo al sistema elettorale potrebbe acquistare un senso diverso e contribuire almeno alla progettazione di un qualcosa che si ponga in una posizione corretta con l’Economia e il benessere della gente.
Qualcosa di più trovate in “Cattedra”.

Per concludere solo un accenno ad un argomento di grande rilevanza per la carica di oscenità che contiene.
Gli insulti al Capo dello Stato sono manifestazione di ignoranza, di ineducazione, di nessun rispetto per le istituzioni e dunque per i cittadini.
Ancor di più di quelli, di moda da oltre vent’anni, alla Magistratura.
E’ mai possibile che chi dà del “boia” al Presidente della Repubblica non debba essere perseguito? E che non debba essere prevista un aggravante quando l’autore dell’insulto sia un rappresentante eletto al Parlamento?
Non è un caso, secondo me, che il personaggio autore dell’insulto sieda al Parlamento per un “movimento” che ha fatto della scurrilità e della violenza verbale il proprio segno distintivo, anche ricorrendo, quando se ne presenti l’occasione, a comportamenti beceri e proprio nelle aule che accolgono i rappresentanti di un popolo che becero non è. Almeno per due terzi.  E credo che non lo sia neppure quel terzo che ha votato per le 5 stalle. Sono anzi convinto che questo movimento non raccoglierà più i consensi necessari per entrare in Parlamento: l’unica cosa che è riuscito a fare – il movimento cinque stalle – è stato il dar ragione a chi lo disegnava com’è e, forse, anche quella di stancare e disgustare i suoi elettori.
Nota: stalle non è un refuso.