Editoriale: L’esondazione chiassosa di novembre

di Paolo M. Di Stefano -

Novembre è stato il mese della più devastante esondazione di parole della quale tutti siamo stati protagonisti e vittime, conseguenza immediata degli eventi parigini del 13 (e non solo di essi e non solo di quelli avvenuti in Francia). Una esondazioni infarcita della retorica più rutilante, ridondante di concetti scontati tanto quanto in gran parte gratuiti, e dunque anche caratterizzata da una utilità quanto meno precaria ed eventuale. Un infinito bla bla arricchito da gesti di singoli e da manifestazioni di gruppo, la cui reale utilità sembra essere limitata al compiacimento di chi li compie, in nome di quell’“io c’ero” gratificante in sé.
E soprattutto giustificatorio della successiva inerzia, perché dimostrazione dell’altrettanto assolutoria certezza di “aver fatto ciò che potevo”.
Che è la parte più facile del “dopo”, assieme alla ricerca delle ragioni degli accadimenti in una storia in più di un caso non ancora “oggettivamente scritta”, perché ancora cronaca, e soprattutto per questo, perché cronaca ancora, oggetto di interpretazioni abbastanza ondivaghe.
E di proposte sul cosa fare che somigliano più a colpi di vento, a foglie ondeggianti di questo autunno non tradizionale che a concrete pianificazioni di gestione degli eventi e dunque di ciascuno degli scambi, dei rapporti, delle relazioni costitutivi gli eventi stessi.
Anche perché basate su di una cultura che sembra aver perso ogni benché minimo barlume di razionalità, di creatività e di innovazione, probabilmente perché nella fase discendente del proprio ciclo di vita, come da sempre accade e per sempre accadrà per ogni e qualsiasi prodotto.
E proprio per lo stato precario della nostra cultura che mi sono lasciato convincere ad entrare consapevolmente a far parte di questa rumorosa reazione, ovviamente nella speranza di poter contribuire ad un risanamento certamente difficile, forse addirittura impossibile, fosse anche soltanto denunziando questa fase preagonica che, anche per l’insita debolezza, consente che altre culture attacchino e cerchino di avere il sopravvento.
Io continuo ad esser convinto che molte componenti della cultura occidentale debbano considerarsi obsolete, e che per questo “risanare” la cultura significa apportare cambiamenti significativi in più di una di esse. E che questo sia possibile soltanto se si modifica l’angolo dal quale da sempre guardiamo alla cultura ed agli accadimenti nella società.

Papa Francesco conforta la mia opinione. È partito per la prima visita in Africa cercando di affermare con le proprie azioni la priorità della attenzione alla gente umile, ai poveri, a coloro che sono da sempre considerati gli ultimi e la cui unica distrazione è “guardare come vivono i ricchi”. E l’eccezionalità dell’evento non sta tanto nell’essere andato in quel continente, quanto nell’aver voluto sottolineare una caratteristica della Chiesa Cattolica da troppi e da troppo tempo dimenticata: quella di rivolgersi innanzitutto agli ultimi. E di non essere fonte di ricchezza e di potere per privilegiati. Ha sempre affermato, Francesco, di sognare una Chiesa povera, e si è trovato a guidare una istituzione nella quale i simboli di stato prodotti dall’uso ostentato della ricchezza e del potere sembrano da sempre divenuti essenza stessa dell’essere parte della struttura. Cardinali e non solo armati di crocefisso pettorale d’oro massiccio e di anelli in stile si sono attribuiti abitazioni degne di potentati ai massimi livelli, e lo Stato – espressione di un potere temporale che ha qualche problema a giustificare se stesso dopo le parole del fondatore della Chiesa “il mio regno non è di questo mondo” Giov. 18,37) – non ha disdegnato l’utilizzo di tutti i mezzi possibili orientati a produrre ricchezza, a rinsaldare il potere ed a rendere entrambi visibili e riconoscibili. Con tutte le giustificazioni storiche e morali del caso. Anche razionalmente fondate, ovviamente.
Forse, una delle manifestazioni di quella propensione all’eccesso che sembra propria della attività umana e che – a mio avviso – è divenuta il cancro della economia e della politica, e che non a caso affondano le radici nel considerare gli altri come asserviti ai nostri personali interessi.
Ed è da segnalare l’onestà intellettuale di Papa Francesco il quale – forse unico Papa nella storia della Chiesa – ed unico Capo di Stato nella storia politica della umanità, ha pubblicamente ammesso che il Vaticano e la Chiesa non sono esenti dalla corruzione.
Anche per l’eccezionalità del momento, il coraggio di Papa Francesco merita un cenno particolare: Egli sapeva di rischiare la vita, ma era consapevole che testimoniare la Fede ed i suoi contenuti anche temporali e guidare la Chiesa tutta in questa missione era ed é la sola giustificazione di tutta la sua azione e del suo stesso modo di essere Papa.
Il viaggio si è svolto senza problemi particolari, almeno in apparenza. Un po’, perché accuratamente preparato, un po’ anche perché probabilmente i rischi di attentato sono stati in qualche modo sopravvalutati. Chi organizza e guida gli attentatori sapeva che attentare alla vita del Capo della maggiore tra le religioni monoteiste sarebbe stato il peggiore tra gli errori possibili. Un evento del genere avrebbe inevitabilmente compattato tutti i Cristiani e la gran parte di coloro che Cristiani non sono, ma che vivono dell’apporto del Cristianesimo alla civiltà e della fede in un unico Dio. E una ricreata unità avrebbe clamorosamente invalidato ogni e qualsiasi tentativo di distruggerla, questa civiltà. E dunque è assai probabile che anche i capi del terrorismo si siano attivati per impedire che questo potesse accadere. E anche per loro, come per le forze dell’ordine legale preposte alla sicurezza, il problema più difficile da risolvere è stato – se lo hanno fatto – l’impedire azioni “individuali” da parte di quelli che alcuni chiamano “cani sciolti”. È possibile pensare che in merito l’attentato a Giovanni Paolo II qualcosa abbia insegnato.
In tutti i suoi discorsi, Papa Francesco con la semplicità e la chiarezza che lo distinguono ha confermato la affidabilità teorica e pratica dell’enciclica “Laudato Sii” e la propria coerenza.
In tutti i Paesi visitati, la gente di tutte le fedi ha testimoniato non solo e non tanto affetto e stima, quanto soprattutto fiducia nella capacità di Francesco di provocare quei cambiamenti nella Politica e nell’Economia in grado di colorare di Etica entrambe le discipline e consentir loro di realizzare azioni concretamente capaci di migliorare la qualità di vita di popolazioni fino ad ora oggetto prevalentemente di sfruttamento, prima da parte dei colonizzatori europei e poi dai propri “capi”. Non a caso Francesco ha senza eccezioni reclamato la trasparenza e l’onestà delle attività in Politica come in Economia, evidenziando la funzione distruttiva della corruzione e della corsa al potere ed alla ricchezza da parte dei singoli.
Che significa proporre una nuova cultura. E non soltanto alle popolazioni “emergenti”.

E la cultura è indiscutibilmente un prodotto, e prodotto strumentale, frutto della vita di una società intera e di ogni suo singolo componente. Credo che poche affermazioni possano essere così condivisibili come questa, in una con quella, più generale, che recita “tutto è prodotto e tutti i prodotti sono destinati allo scambio”.
Ed è partendo da questa premessa che mi sono chiesto: che tipo di prodotto sono quelli che noi chiamiamo “atti terroristici”?
Il tema tento di svolgerlo in Cattedra, partendo dagli eventi di Parigi.

In questa sede, una sosta a Rozzano, piccolo comune ai bordi di Milano, gran parte degli abitanti del quale sostiene di abitare in città e di potersi fregiare a buon diritto della qualifica di “milanese”. Ariosi quanto si vuole, ma milanesi. Che sarebbe bello ed istruttivo, se non disponesse, il comune di Rozzano, di un responsabile scolastico che ha deciso di eliminare dal concerto natalizio ogni e qualsiasi riferimento al Cristianesimo, e di inventarsi una festa d’inverno per Gennaio “per non urtare la suscettibilità dei non cristiani”. Trovando, mi pare di aver capito, la solidarietà di qualcuno del Provveditorato il quale ha sostenuto che, non avendo a disposizione Crocefissi sufficienti per tutte le aule della scuola, è stato giocoforza abolirli. Nessun commento da parte mia. Solo qualche domanda. Milano è città europea, forse la sola in Italia, Paese del quale si afferma essere, Milano, la capitale morale. Perché si permette di avvilire l’immagine della città di fronte all’Italia e all’Europa? Perché non si prendono provvedimenti adeguati e immediati? Come si concilia la necessità e l’opportunità di difendere ed affermare i nostri valori e la nostra cultura con le decisioni prese a Rozzano? Quale formazione culturale, sociale, etica stiamo dando ai ragazzi?
Sembra che siano state comunicate le dimissioni dall’incarico da parte del soggetto in questione, il quale, però, sembra si sia detto convinto di aver ragione.

I Politici (e la Politica) italiani hanno confermato in questo novembre il peggio di sé. La campagna elettorale per il rinnovo dei sindaci di Roma, di Milano, di Napoli e di altre città italiane,emersa dagli anfratti oscuri dei sottoboschi, è appena iniziata ed ha immediatamente denunziato la presenza di gente che cavalca le tragedie individuali e sociali per assumere il potere, e questo fa senza scrupolo né vergogna. Il piano è lo stesso di quello sul quale operano i terroristi: l’insicurezza e la paura della gente, per creare e mantenere le quali ogni mezzo è buono.
Ecco allora il ribadire che le responsabilità di tutti i mali della nostra società sono da ricercarsi nella accoglienza dei profughi ed il proporre il loro respingimento in mare, anche a costo di atti di guerra e di conseguenti omicidi.
Ed ecco, anche, il sostenere che qualsiasi cosa il “Governo Centrale” proponga, sia da respingersi. E il farlo guardandosi bene dal proporre soluzioni alternative e praticabili. Non c’è partito o movimento aspirante alla guida delle città italiane che proponga una qualsiasi “pianificazione di gestione”. Ci si limita ad accennare a “pezze a colori” – quando va bene – o, il più delle volte, alla mera esistenza del problema.
E, grazie a quello che si dice essere stato un successo (EXPO), proporre alla guida della amministrazione delle città coloro che di quel successo sono considerati gli artefici.
Occorrerebbe, forse, ricordare che una cosa è il realizzare un evento, importante quanto si vuole, monotematico e destinato a durare qualche mese, altra e ben diversa cosa è l’amministrare una città. Anche perché una città è in sé un prodotto oggetto di scambi numerosi e diversificati, in una con l’essere soggetto vivo portatore di bisogni e prodotto strumentale alla produzione e lo scambio dei beni e dei servizi destinati a soddisfare i bisogni dei cittadini (e di coloro che comunque entrano in contatto con la città).
Amministrare una città significa dunque essere in grado di “gestire gli scambi dei quali la città è a un tempo luogo e protagonista”. Se qualcuno avesse interesse ad approfondire, nel mio Product Management: dalla gestione del prodotto alla gestione dello scambio (Franco Angeli 2010) potrà trovare più di un elemento di meditazione.
A qualcuno di noi risulta che una qualsiasi parte Politica si sia posto il problema della “capacità di gestire gli scambi” quale elemento essenziale della “professionalità” degli amministratori e dei sindaci?
Qualcuno si spinge fino a parlare di “marketing territoriale”, e in materia evoluisce fino allo stordimento. E questo fa senza accorgersi che parla di qualcosa che non conosce e della quale ha una immagine distorta e quindi erronea.
Tanto da preoccuparsi – forse – dell’ammontare delle spese di pubblicità, di promozione e in qualche caso anche di sondaggi, le materie che per lui esauriscono il mondo del marketing così come egli lo conosce: in modo sbagliato.
Guardiamoci tutti da coloro che pontificano di marketing, soprattutto quando si riferiscono alla città e lo fanno per essere eletti: non sanno di cosa parlano. Vogliamo eleggerli?
Ma cosa vieta loro di presentare una corretta pianificazione di gestione della città? O, almeno, di alcuni dei fenomeni più rilevanti?

Spending review: un sostanziale nulla di fatto, come qualcuno ha messo in evidenza sul finire del mese. A mio parere, una denunzia gravissima. Se vera, significa che il Governo si è dimostrato incapace a mantenere un impegno preso in modo solenne e, soprattutto, obbligato perché una qualsiasi gestione amministrativa e contabile potesse essere ritenuta corretta. E, più ancora che incapacità di gestione, significa che il Governo ha perduto la battaglia contro la burocrazia. Una battaglia già tragica in sé, perché lottare contro la burocrazia significa combattere contro se stessi, contro il proprio corpo, contro il proprio modo di essere: riconoscere che la burocrazia è corrotta ed incapace è come per una persona qualsiasi riconoscere di avere il corpo infestato da tumori allo stato terminale. Ma, a differenza del cancro, la burocrazia malata è facilmente curabile in poche e rapide mosse: revisione delle competenze e dunque degli uffici e dei procedimenti; controllo della professionalità e della onestà degli addetti; controllo dei costi di funzionamento. A tutti i livelli. Inutile ricorrere ad interventi anche draconiani su individui isolati, i quali vanno puniti, se del caso, ma la cui punizione non risolve il problema.
Occorre occuparsi a fondo della struttura dello Stato e del suo funzionamento.
E dunque anche della formazione dei funzionari. Radicalmente.

Guerra, seppure con sfumature diverse, è stata una delle componenti della esondazione novembrina, seppure usata con sfumature diverse.
In questa sede, credo opportuno soltanto ricordare due cose alle quali non mi pare si pensi più che tanto.
La prima: la guerra per definizione (e in fondo anche per tradizione millenaria) esclude di per sé ogni limitazione e la gran parte delle regolamentazioni immaginabili. E questo perché la guerra la si fa per vincere, e ogni mezzo è buono se giova alla vittoria finale. Che non significa che non serva il dialogo. Vuol dire soltanto che il dialogo tende a dimostrarsi inefficace, salvo quando le parti ritengano di non essere in grado di vincere con le armi. Allora, le parole, la diplomazia, il compromesso, le promesse, gli impegni, le regole acquistano qualche importanza. Ma se appena una delle parti è convinta di poter annientare l’avversario, tenterà di farlo. Con tutti i mezzi.
La seconda: la guerra è manifestazione di cultura “inferiore”, oltre che diversa. È una manifestazione di primitività, di spinta da parte di un istinto animalesco non governato da quella intelligenza di cui noi umani ci vantiamo. La pace, invece, è manifestazione di cultura evoluta, di capacità di dialogo e di convincimento, di rispetto di se stessi, delle altre persone, della società. Ed è quindi più difficile “costruire ed usare la pace” di quanto non lo sia il far ricorso alla guerra.
Poi, forse, è opportuno ricordare un ulteriore elemento, oggi almeno in apparenza più presente che mai: la parte che oggi con il proprio comportamento mette in forse la convivenza pacifica tra persone, popoli, nazioni e culture, guarda alla morte come causa ultima, come obbiettivo primario, come ragione e premio dell’operare di ciascun individuo e del gruppo sociale nel suo insieme. Morire per la causa comporta il Paradiso ed i suoi privilegi. La nostra cultura, invece, condiziona in pratica ogni azione alla difesa ed alla valorizzazione della vita.
Conseguenza immediata: la debolezza della cultura e dell’educazione di fronte all’ istinto bruto ed allo sprezzo della vita.
E forse anche alla furbizia di chi approfitta delle circostanze per fini a me ignoti ma certamente particolari.

La Turchia ha pensato bene di abbattere un aereo russo e di rifiutarsi di chiedere scusa. Non discuto le ragioni dell’evento, che può avere giustificazioni importanti. Credo solo che un Paese come la Turchia non si possa permettere di provocare e sbeffeggiare la Russia, ben più forte e meglio armata. Lo fa, la Turchia, probabilmente contando sull’impegno dell’Europa a soccorrerla se in pericolo, impegno che ben difficilmente potrà essere onorato in caso di una guerra tra i due Paesi; e lo fa, anche, perché conscia della importanza della sua azione nel fenomeno della immigrazione: quasi un ricatto all’Europa, la quale ha promesso milioni di euro.

È proprio vero: abbiamo un bisogno assoluto di auguri! Auguri per le feste imminenti, ma anche auguri di diventare sempre più convinti della necessità che i valori fondanti della nostra civiltà vadano difesi contro aggressioni provenienti da un Evo vecchio primitivo, ancora più ingiusto di quanto non lo sia l’aspetto peggiore della nostra cultura.