Editoriale: Italian Summer, appunti per una Sinfonia fantastica d’inizio estate

di Paolo M. Di Stefano -

Preludio (Attento variato, quasi una spiegazione)

Perché non “Estate italiana”? Non sarebbe stato più opportuno, dal momento che di Italia si canta e l’Italia si dipinge, titolare “estate italiana” questa composizione che si ispira (senza alcuna pretesa, di nessun genere) per il numero di temi e forse anche per la durata alla Sinfonia Fantastica di Hector Berlioz, poema sinfonico che esplora molti dei temi della fantasia e della vita di un artista?
Non lo so. Ho una certezza soltanto: la lingua italiana, pur insegnata malissimo e in modo assolutamente dilettantistico, si dice sia – dopo l’inglese, lo spagnolo e il portoghese – la più parlata nel mondo. Se si eccettua il cinese, naturalmente, e forse anche l’indiano. Le quali, però, sembrano più essere un insieme problematico di lingue diverse, di dialetti ampiamente frequentati, piuttosto che un modo di esprimersi univoco. O quasi. Importante, se si considera che sembra tutt’altro che raro il caso in cui, a distanza di non tantissimi chilometri, la gente non si capisce. Un po’ come da noi, quando un siciliano nato e cresciuto nel dialetto del suo paese, tenta di comprendere – o di farsi capire – da un napoletano o da un lombardo o da un veneto di stretta osservanza.
La lingua italiana è un fattore di unione, tra l’altro abbastanza riuscito, non ostante i tentativi di coloro che vorrebbero richiamare (o mantenere) in vita dialetti diversi. Lodevole desiderio, se si trattasse di un puro fatto di cultura storica; attentato alla lingua quando diventa il tentativo di farne, dei dialetti o di alcuni di essi, un modo di espressione attuale e, possibilmente, esclusivo. Spesso non per ragioni di cultura, bensì per motivi biecamente e squallidamente politici.
Ciò detto, e ricordato che, con ogni probabilità, per ciò che riguarda i dialetti italiani, la vita più lunga l’avranno il napoletano ed il romanesco – questo grazie soprattutto al teatro ed al folclore – l’italiano, allo stato attuale delle cose, è destinato a seguire le sorti del latino, ed a trasformarsi in qualcosa di diverso, infarcito di vocaboli e fonemi principalmente anglosassoni. E questo anche perché l’italiano è sempre di più lingua sconosciuta a troppi di noi e da troppi anni, ormai, assolutamente indifesa.
Persino nelle istruzioni per l’uso di prodotti sempre più numerosi, l’italiano è del tutto ignorato.
E neppure l’Europa – che sarebbe obbligata a farne un uso identico al tedesco, al francese e all’inglese (almeno) – pare ricordarsene.
Esattamente come accade per le riunioni importanti dei vertici europei, ai quali – sembra – il nostro Paese è chiamato a partecipare sempre meno spesso.
Nulla in contrario, da parte mia, a che l’italiano si fonda in una lingua europea alla cui elaborazione in modo determinante abbia contribuito. Una lingua unica al genere umano è un sogno: sarebbe la ricostruzione di quanto accadeva ai tempi della Torre di Babele. Segno, quest’ ultima, della presunzione umana e come tale punita.
Noi italiani, un tempo, ci siamo andati non lontanissimi. Quando, per esempio, tutti i movimenti musicali e le relative annotazioni interpretative e tecniche in ogni parte del mondo civile erano indicati in italiano (preludio, allegro, vivace, crescendo, lento cantabile e affettuoso, fortissimo, piano e con sentimento, eroico …) e quando il viaggio in Italia era tra le massime aspirazioni di chiunque, almeno nel nostro continente. Che era, poi, il solo a contare, in fondo, l’America essendo ancora bambina.
La conquista toscana del merito della nascita della lingua italiana è frutto della comunicazione e della capacità di “vendersi”, che i toscani sembrano possedere in massimo grado. Secondo me, non è un caso quello della cantante senese (credo) la quale, avendo scritto uno sfondone sintattico gigantesco nel corpo di un articolo per un mensile milanese, si rifiutava di correggerlo affermando testualmente (ed a voce altissima) “sono toscana! Figurati se non conosco l’italiano!”
Tornando a noi: il primo documento scritto in italiano è comunemente ritenuto questo: “Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti” . Siamo in Campania, a Montecassino, nell’anno 960 dopo Cristo. Neppure mi risulta che Dante abbia preceduto San Francesco e il suo cantico delle creature, e San Francesco non era toscano.
Che non vuol,dire che la nostra lingua nulla debba a Dante: significa solo che essa non nasce in Toscana, seppure i toscani abbiano saputo vendersela bene.
Una cosa pare certa: l’italiano nasce dal progressivo imbarbarimento del latino, dalla crescente ignoranza del latino da parte della popolazione, che pure “credeva” di continuare a parlar latino. E questo, non solo per la corruzione della lingua, ma anche per l’innesto di parole provenienti da altre zone e popolazioni, e soprattutto dalla nessuna difesa efficace, a nessun livello.
Esattamente come sta avvenendo per l’italiano di oggi: un imbarbarimento progressivo, l’innesto di parole di origini le più diverse, nessuna difesa efficace.
Ed anche il continuo tentativo di disgregare fisicamente questa Italia faticosamente messa insieme in una con quello di cancellare una Europa Unita prima ancora che veramente esista.
Giugno ha visto la recrudescenza degli egoismi “di area”, a tutti i livelli. Da più parti l’unità d’Italia sembra divenuta un puro slogan fondato sull’individualismo più spinto.
L’Italia è una perché uno è l’individualismo.
Che è segnale di un pericolo imminente, da prevenire e comunque da affrontare tutti insieme.
Ci siamo accorti che proprio coloro che vogliono “l’Italia agli italiani” invocano e pretendono la solidarietà degli altri Paesi per tentar di risolvere il problema dei profughi, clandestini o meno che siano?
Come dire: uniamoci per restare individui.
Anche per questo, per sottolineare la necessità di unità degli individui e degli Stati, ho pensato di unire simbolicamente l’editoriale alla cattedra in un “poema sinfonico” in due parti.

Primo movimento: da mare nostrum a campo di battaglia (largo descrittivo, mosso quasi agitato)

Nel Mediterraneo, navi appartenenti a Paesi Europei diversi (Gran Bretagna, Germania in testa, ma anche Svezia e Spagna) hanno raccolto e sbarcato in territorio Italiano qualche migliaio di migranti raccolti in mare, salvando loro la vita.
Che è cosa giusta: la vita è ritenuto il bene più importante per tutti gli esseri umani, e aiutare chi è in procinto di perderla è opera assolutamente meritoria.
Ben vengano, dunque, le navi di altri Paesi in aiuto a quelle italiane, che da anni ormai fanno l’impossibile.
E per anni l’Unione Europea ha cercato di armonizzare le politiche d’asilo negli Stati membri, senza peraltro trovare un equilibrio tra le diverse legislazioni locali.
Il regolamento di Dublino – sottoscritto anche da Paesi non facenti parte dell’Unione – è la principale fonte in materia e, tra l’altro, prevede che la domanda di asilo la esamini lo Stato dove il richiedente ha fatto ingresso nell’unione.
E qui (almeno per me) nasce un problema.
Quando studiavo alla facoltà di giurisprudenza, mi hanno insegnato che la sovranità di uno Stato si estende anche alle navi che battono la bandiera di quello Stato, e questo sia che la nave sia un mercantile sia che si tratti, invece, di una nave militare.
Il che vuol dire che una nave – per ipotesi tedesca – che raccolga migranti li fa entrare in territorio tedesco, con la conseguenza immediata che la Germania essendo il primo Paese nel quale il migrante ha fatto ingresso, a lei spetta il diritto e il dovere di esaminare la domanda di asilo. E i richiedenti asilo hanno diritto a rimanere nel Paese di arrivo e ad essere assistiti anche se non hanno documenti d’ingresso regolari.
Sbarcare i migranti sul territorio italiano potrebbe significare compiere un illecito o comunque una violazione del trattato di Dublino.
A meno che lo sbarco non significhi l’automatico e immediato trasferimento dei migranti via terra o per via aerea dall’Italia al Paese di cui la nave in questione batte bandiera.
Che in soldoni vuol dire anche che qualsiasi ostacolo frapposto ai confini è violazione ingiustificata del dettato di Dublino.
E che, sempre in soldoni, potrebbe significare un modo per risolvere il problema delle quote, che ha agitato ed agita le acque della immigrazione.
E’ (quasi) certo che le navi che raccolgono i naufraghi debbano raggiungere il porto più vicino e lì sbarcare gli ospiti. E non v’è dubbio alcuno che si tratti di un porto italiano.
Ma il raggiungere il porto più prossimo e provvedere allo sbarco significa proprio che non ha alcun valore la circostanza dell’essere – la nave – il “primo Stato” sul territorio del quali i migranti hanno messo piede?
Se tutto questo è vero, significa anche, purtroppo, che i legislatori di allora hanno operato con una certa leggerezza (almeno).
Mi rendo conto che se la nazionalità della nave avesse il senso del primo suolo toccato dai naufraghi, con buona probabilità tutto il progetto salterebbe: gli Stati contrari ad accogliere i fuggiaschi ritirerebbero le proprie navi, e l’Italia rimarrebbe ancora più sola.

A Ventimiglia, comunque, e ad altri confini l’Europa ha dato e sta dando prova di una impotenza quasi assoluta, ovviamente imputabile agli egoismi nazionali e dunque ad una cultura di un tipo e di un livello che dovrebbero essere stati superati da decenni, ormai. Ma anche imputabile ad una mancanza se non assoluta certamente grave di quella “cultura europea” che dell’Unione dovrebbe essere alla base e che non esiste nella misura in cui è assente la solidarietà tra gli Stati membri. L’Unione in tanto ha senso in quanto tuteli gli interessi comuni e soddisfi i bisogni comuni.
E questo faccia partendo non dal basso (interessi e bisogni dei singoli) bensì dall’alto (interessi e bisogni della comunità umana) e dunque ridisegnando i bisogni dei singoli (Stati e individui) .
Che è un problema di cultura: dell’Europa in sé, e dei singoli Stati membri e dei cittadini di ciascuno di essi.

Rinascono i muri. Uno, di quattro metri per circa centocinquanta chilometri pare in cantiere sul confine tra due Stati, entrambi facenti parte dell’Unione Europea, entrambi reduci da quel comunismo reale divenuto simbolo della esistenza di Satana. Ungheria e Serbia sembrano impegnati nella dimostrazione concreta della decadenza della cultura. Che è forse qualcosa di meglio dei muri creati da altri Stati, non fisici ma non per questo meno avvertibili: almeno, quelli di cemento creano lavoro. Entrambi, però hanno la stessa efficacia: nulla.

Quanto a quel “piano B” che il nostro Governo sarebbe pronto a fare scattare qualora non si riuscisse a far ragionare l’Europa, mi pare regni il mistero più assoluto. Qualcuno sa dirmi in che cosa consiste? A me è sfuggito, chiaramente per mia colpa, non essendo immaginabile che i nostri Politici ed il nostro Governo non siano in grado di presentare proposte e di ”venderle” in maniera acconcia (che vuol dire farle accettare).
Io, se fossi il Governo, almeno una proposta l’avrei. Questa:
-          l’Italia accoglie i profughi e provvede alla soddisfazione dei bisogni di cui sono portatori in quanto esseri umani. Dunque: li sfama, li cura, fornisce un alloggio dignitoso e sicuro;
-          l’Italia provvede anche alla “formazione” attraverso l’istituzione di scuole di lingua, scuole professionali, scuole di specializzazione. I Paesi che ne avessero interesse, potrebbero provvedere a svolgere corsi di lingua specifici e corsi professionali a loro volta di specifico interesse;
-          l’Europa finanzia tutto il progetto (abitazioni, nutrimento, salute , scuole…) e riconosce la validità europea dei saperi e dei titoli di studio conseguiti.

Per ciò che riguarda l’attraversamento del Mediterraneo, il “piano B” potrebbe far propria la proposta da queste pagine più volte abbozzata: raccogliere i “partenti” nei porti concordati con i Paesi dell’altra sponda (Egitto in primis) e provvedere al trasporto a prezzi modici. Con i vantaggi anch’essi più volte indicati: certezza della identità; certezza delle ragioni delle fuga dal Paese di origine; certezza dei punti di arrivo; disponibilità di fondi da parte dei migranti; sconfitta dei trafficanti e delle mafie, ai quali verrebbe anche tolto l’aiuto involontario (spero!) che si dà loro raccogliendo i profughi a quaranta – cinquanta miglia dalla costa libica (…)
Anche perché è abbastanza prevedibile che l’andare in Libia a bombardare ed affondare i barconi non è e non sarà cosa facile, sotto nessun punto di vista.
Ma forse c’è quello che potrebbe essere indicato come il problema dei problemi: perché si possa parlare di un “piano B”, occorrerebbe l’esistenza di un “piano A”!
Che è cosa tutt’altro che certa.

Secondo movimento: la buona scuola e il suo ministro (un ballo. Valzer variato, allegro non troppo, lento)

Tema primo: novelletta. (quasi scherzando)
Volgeva l’anno 1921. In una città dell’Italia centrale, in zona prossima all’Etruria, non lontanissima da Roma, nasceva una scuola per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri. Gli obbiettivi di Astorre Lupattelli, avvocato perugino, erano ambiziosi: far conoscere l’italiano, l’Umbria (e l’Italia) agli stranieri non soltanto attraverso l’insegnamento della lingua, ma anche con la organizzazione di Corsi di Alta Cultura. Grande successo, ovviamente entro qualche anno: a Palazzo Gallenga, quasi subito sede nobile della scuola, arrivò gente da ogni parte del mondo (soprattutto, pare, dal nord Europa) e i temi dei Corsi di Alta Cultura – frequentatissimi – spaziavano anche nel mondo della Etruscologia. Le lezioni del prof. Massimo Pallottino erano tra le più seguite.
Insegnavano, all’epoca, docenti che si impegnavano molte ore al giorno e che davano il meglio di sé. In maggioranza, forse, insegnanti elementari, spesso neppure abilitati e fors’anche privi di diploma di laurea.
Eran tempi diversi: la laurea pare fosse riservata a pochi eletti, anche in possesso di risorse non del tutto trascurabili.
Poi, un giorno del 1992 (il 17 febbraio) la legge n. 204 fece della Stranieri ufficialmente una Università. L’inizio della fine. I malevoli dicono che quei degnissimi maestri elementari che mai si erano risparmiati, dedicandosi anima e corpo all’insegnamento, scoprissero che, in qualità di docenti universitari, potevano far lezione per tre ore alla settimana (al lordo del quarto d’ora accademico) dedicando a se stessi il tempo rimanente.
Effetto immediato: la necessità di ricorrere all’opera di un numero quasi infinito di altri insegnanti.
Ma, soprattutto, il concretarsi delle aspirazioni di cassieri di banca, impiegati amministrativi con difficoltà al conseguimento della laurea, amici, parenti e benefattori. Con questo in più: che la Stranieri aprì le porte al raggiungimento dell’ordinariato a personaggi che in nessun’altra Università sarebbero riusciti a tanto. Salvo eccezioni, naturalmente, anche se (purtroppo) rarissime.
E un ulteriore effetto: lo scatenarsi della concorrenza, non solo a livello di insegnamento della lingua, ma anche alla costruzione di vere e proprie “Università”. Siena, per esempio, e Reggio Calabria.
Di queste, oggi la Stranieri di Perugia, un tempo nota ed apprezzata nel mondo, pare sia al terzo posto su tre nella graduatoria, e al diciassettesimo per qualità tra le Università italiane definite “piccole”.

Tema secondo: tombeau per l’Unistrapg (adagio quasi solenne)
Quello che appare come il sacrificio della Università Stranieri è il seme di una parte importante della Buona Scuola di domani.
E il penultimo Rettore divenuto Ministro può a buon diritto vantare il disinteresse che ha animato la fatica in ogni momento dell’opera sua, unitamente ad una visione internazionale, planetaria, volta all’eternità o quanto meno alla Storia – che è cosa mortale perché umana . E per questo anelito della Storia che l’anima del Docente e del Rettore e del Ministro si finge un giorno – probabilmente meno lontano di quanto non possa immaginarsi – almeno un posto sugli scranni dell’ONU. Nell’interesse di UniversitàPG e non solo, di tutta l’Università italiana e della cultura del nostro grande Paese.
E la Stranieri di Perugia potrà a buon diritto passare ala Grande Storia per essere stata il luogo del successo di una creatura toscana, sì, ma proiettata all’imperituro successo dalle nobili mura di Palazzo Gallenga.
Sarà il tema trionfale dell’epitaffio che all’Ateneo spetta di diritto.

Variazione prima
L’economia è ancora in crisi profonda. Le spese per le vacanze potranno, forse, darle una mano.
Che è già un’ottima ragione per parlare di scuola.
Ma se si aggiunge lo straordinario piano ministeriale chiamato “Buona Scuola” , che il giugno dell’anno di grazia 2015 sia stato “pieno di scuola” è scontato in uno con l’essere segno positivo dell’azione della Politica in favore della Cultura.
Che è un primo indiscutibile punto a favore di un Ministro, indicato come “il più osteggiato d’Italia” dal giornalista Corrado Zunino in un articolo comparso su Repubblica del 3 giugno.
Un punto a favore per almeno due ragioni. La prima, che l’avere molti nemici ancora significa per più di qualcuno un alto livello di onorabilità; la seconda, che il riuscire a far parlare di scuola una intera nazione persino all’inizio delle vacanze (e non per recriminare sulla loro durata) è segno chiarissimo dell’uso pianificato, cosciente, scientifico della comunicazione costruttiva. E chi meglio del Rettore di una Università che ha dato vita ad un corso di laurea in Comunicazione Internazionale con tanto di insegnamento di “comunicazione in situazione di contatto” sarebbe potuto riuscire a tanto?
Da qui, un altro punto a favore: un Ministro che riesce a pianificare in modo così puntuale ed approfondito la gestione della materia affidatagli in tanto riesce in quanto applica alla “cosa pubblica” i principi della corretta gestione che hanno guidato la sua azione in qualità di Rettore.
Principi che hanno portato la Stranieri di Perugia sull’orlo della débacle, ma che proprio per questo si sono dimostrati validissimi.

Variazione seconda
Non è forse vero che “la laurea non assicura più un posto di lavoro”?
E’ vero.
E allora, un Rettore consapevole che altro può fare, se non concorrere per quanto e come può a diminuire il numero dei laureati? Si tratta di una corretta applicazione di quella legge di mercato che va sotto il nome di “domanda e offerta”: dal momento che più alto è il numero dei laureati, minore è il loro valore economico, la soluzione sta proprio nel cercare di produrre il minor numero possibile di laureati.
Il Ministro ha fatto un lavoro eccellente, se è vero, come scrive Zunino, che «Nel 2014 Perugia ha perso il 41 per cento di chi è arrivato a discutere la tesi: 106 in meno. Alla UnistraPg, 35 docenti in servizio, sono arrivati in fondo solo 153 studenti. Nove ordinari, ventisei associati (la Giannini è in aspettativa): ogni “prof” ha laureato quattro ragazzi in un anno, da farsi cadere l’ernia per lo sforzo».
Che è un modo quanto meno curioso per valutare uno sforzo inane condotto anche cercando in ogni possibile modo di indurre gli studenti a decidere in piena autonomia di non laurearsi. La visione globale di un pianificatore assoluto quale era ed è il Ministro ha preso in considerazione ogni aspetto della questione “gestione della Università” e “produzione dei laureati”.
A cominciare dal “Parco docenti”. Tutti sanno che se si sparge la voce che il corpo insegnante è di livello eccellente, il richiamo della scuola e dunque anche della Università sale in modo esponenziale, e il numero degli iscritti aumenta a dismisura. Anche con la possibilità di fissare i costi della iscrizione a livelli soddisfacenti. Si ricorda, al proposito, un anno accademico con millecinquecento iscritti e lezioni svolte in un convento a Monte Morcino (un tempo luogo importante di pomicio alla perugina), in condizioni certamente non ideali. Risultato – questo dell’aumento degli iscritti – in contrasto con la “causa ultima”. E allora, insegnamenti affidati a sconosciuti spesso assolutamente ignari dei contenuti della materia e comunque privi di ogni e qualsiasi titolo accademico, ivi comprese le pubblicazioni sui risultati delle ricerche. Naturalmente, avendo cura di mantenere qualche eccezione, comunque non in grado di inficiare il risultato.
Scrive in proposito Corrado Zunino: «La disastrata Stranieri di Perugia è in fondo – dati ministeriali – anche alla classifica della valutazione della qualità della ricerca. Recenti abilitazioni di insegnanti senza curriculum né pubblicazioni,(…) hanno contribuito a deprimere il livello della “Vqr”. Sulla qualità della ricerca Perugia Stranieri è diciassettesima su 27 “piccoli atenei”. Componenti dell’attuale Consiglio di amministrazione spiegano come la pessima reputazione della ricerca interna sia costata nelle ultime due stagioni 800 mila euro in finanziamenti dal Miur».

Variazione terza
Tutto vero, probabilmente, ma da leggersi in modo positivo. Intanto – e non è cosa trascurabile – sono stati creati posti di lavoro a favore di insegnanti che sarebbero stati probabilmente rifiutati da ogni altra scuola e Università. Così, discipline economiche di livello internazionale sono state affidate a persone che mai avevano incontrato un’impresa, neanche locale e neppure per sentito dire; e cassieri di banche locali si sono visti affidare insegnamenti di gestione d’impresa.
Ma c’è qualcosa di più importante.
Il Rettore cercava il criterio migliore per la valutazione degli insegnanti, in modo da poterlo proporre una volta Ministro.
E lo ha testato, il metodo, e il test è riuscito appieno.
Poiché qualcuno sosteneva che dovessero essere gli studenti – in primis – a giudicare i docenti, l’attualmente Ministro ebbe l’intuizione che portando al livello più basso la qualità dei docenti, il giudizio non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere positivo, non ostante la maggior garanzia di superamento degli esami. E il test ha dato i risultati sperati: il calo esponenziale delle iscrizioni e l’altrettanto esponenziale abbandono da parte degli iscritti hanno dimostrato l’importanza del “fattore qualità dell’insegnamento” gioca un ruolo determinante e che gli studenti nella valutazione dei docenti hanno un ruolo di primo piano.
Ne è scaturita quella che va sotto il nome di “legge UnistraPg”: più basso è il livello dei docenti, minore è il numero degli iscritti.
Confesso di non sapere se l’allora Rettore e attuale Ministro abbia ringraziato i colleghi per la collaborazione, ma ricordo che questi ultimi ce l’hanno messa tutta. Uno di loro si è spinto fino a rispondere, agli studenti che gli chiedevano lumi sulla materia e sulla bibliografia, pressoché testualmente: che volete che vi dica, se non ho ancora neppure finito di leggere il libro?

Variazione quarta
Naturalmente, da perfetto pianificatore e gestore l’allora Rettore conosceva perfettamente gli elementi costitutivi, i costi e gli effetti di quella “immagine” della quale si sentiva a buon diritto al centro e che aveva “il dovere” di costruire. Da gran signore, naturalmente, ed animato quindi da sprezzo per il vil danaro. E dal momento che anche io non trovo elegante parlare di soldi, rimando il lettore (giustamente) curioso alla lettura di Repubblica del 3 giugno.
Con una annotazione a mio parere non del tutto peregrina: l’Università non essendo una pizzeria, perché assimilarla a quel tipo di locale i proprietari e gestori del quale all’ora di chiusura si preoccupano di spegnere le luci e gli impianti di condizionamento e quanto altro generi costi superflui? Se grandi imprese di livello mondiale hanno cura di illuminare al massimo possibile le proprie sedi in modo che brillino nelle notti cittadine, perché una Università, internazionale anch’essa, dovrebbe fare altrimenti?

Variazione quinta
«La fiducia è un elemento imprescindibile nell’offerta formativa di un’università ed essa si acquisisce anche attraverso la chiarezza della sua contabilità»: pare, sempre secondo Zunino, sia stata la conclusione del Collegio dei Revisori dei Conti. Il quale collegio, ovviamente disattento, afferma questo principio quale giudizio negativo dell’operato dell’allora Rettore, dimenticando evidentemente che si tratta, invece, di un netto riconoscimento: l’obbiettivo essendo quello di essere, sì, al centro dell’immagine ma di riservarsene gli effetti “positivi” senza per questo mettere in forse il raggiungimento del fine ultimo – ridimensionare in lungo, in largo, in alto e in basso l’’Università così dando il buon esempio a tante altre – , proprio perché la fiducia è un elemento imprescindibile nell’offerta, è essenziale distruggerla affinché gli aspiranti studenti (e le famiglie, se ancora contano qualcosa) rinunzino al progetto di iscrizione.
E si badi bene: in una civiltà dello spreco e dello sfruttamento delle occasioni a fini personali quale è la nostra, l’aver giocato sulla “chiarezza contabile” per eliminare un fattore di fiducia – e dunque un pericolo – è stato un vero e proprio colpo di genio.

Finale bagattella (accelerando fino a chiusura)
Per abbattere la cultura, ogni mezzo è lecito. Ed ogni ragione è buona. Quale miglior motivo della mancanza di fondi e della necessità del risparmio? E’ proprio questa ultima argomentazione quella a cui sempre più spesso gli enti pubblici fanno ricorso: ha, tra gli altri innegabili vantaggi, l’essere immediatamente vendibile “alla gente”.
Non facciamo perché costa. Rinunziamo, perché c’è qualcosa di più urgente.
E dal momento che “la gente” non va molto per il sottile e cerca di non farsi troppe domande, ecco che, per esempio, la città di Santa Margherita Ligure, in piena stagione turistica, in un mercato tradizionalmente oggetto e luogo di forte concorrenza, quando il vero problema sta nel far arrivare e far restare i visitatori, decide di rinunziare ad uno dei “vantaggi” storici del suo richiamo turistico: quegli incontri in piazza che da sempre hanno portato alla cittadina ligure giornalisti e scrittori e politici e politologi e musicisti e artisti a dialogare con il pubblico, sempre numeroso e attento.