Editoriale: Il fiore della cultura questa primavera sembra stentare a rinascere

di Paolo M. Di Stefano -

La sola verità del mese della primavera l’ha detta, forse, il Ministro del lavoro: “meglio giocare a calcetto piuttosto che inviare curriculum”. E di fronte alla levata di scudi dei colti, benpensanti, educati, scandalizzati politici (!) ha specificato “Vale molto il sapere, ma vale molto l’essere. Vale molto studiare, imparare e conoscere, ma vale altrettanto avere una buona relazione con la collettività. (…) Io incontro molte persone che si occupano di reclutamento nelle imprese e dicono che cercano di capire chi sono questi ragazzi. Dopo chiedono cosa sanno. Questi due elementi devono essere tenuti insieme: il calcetto è, se volete, la metafora delle relazioni sociali.”
Che è tutto sacrosantamente vero. E forse non è un caso che le imprese pubbliche e private, senza distinzioni di dimensioni e di area geografica e di settore merceologico, molto difficilmente rispondano ai mittenti. Che è anche – il non rispondere – una questione di educazione e di immagine.
La verità sembra essere che, almeno da noi, il lavoro (quando c’è) viene in genere assegnato sulla base della conoscenza personale, meglio se accompagnata da qualche relazione di parentela o di amicizia.
Che potrebbe anche essere uno spunto per proporre una legge che impedisca di assegnare un qualsiasi posto di lavoro a chi ha agganci più o meno laschi con dirigenti, funzionari, impiegati della struttura di riferimento e di quelle collegate.

La procedura per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea ha avuto il suo inizio formale negli ultimissimi giorni di un mese, il marzo appena concluso, denso di segnali negativi sotto ogni punto di vista.
Per ciò che riguarda la così detta brexit, ci si attende un paio di anni di negoziati difficili, dall’esito incerto anche perché basato su di un’unica apparente certezza: la Gran Bretagna vuol fare da sola. Cosa esattamente non è del tutto chiaro, al di là delle generiche affermazioni di principio riguardanti la sovranità, la difesa dei confini, gli interessi economici… Tutte dichiarazioni di intenti in realtà privi di contenuti, tanto questi appaiono vaghi.
L’aspetto – forse – positivo è che l’Unione si eserciterà a parlare con una voce sola, a difesa degli interessi della comunità. Almeno, si spera.
Dal mio personale punto di vista, mi riesce difficile immaginare un organismo – diviso al suo interno tanto da non esser riuscito a fare dell’Europa una entità unita e coerente – capace di difendere efficacemente interessi comuni non soltanto non bene identificati, ma anche solo formalmente condivisi volutamente in modo indefinito.
Il Regno Unito dovrà trattare su due fronti: all’esterno, verso l’Europa e, all’ interno, verso una Scozia che manifesta la volontà di dissociarsi e di rimanere invece in quella Europa la quale è certamente debole e colma di difetti ed incongruenze, ma certamente è vissuta come espressione di una possibilità futura: quella di fare insieme quanto da soli, se non impossibile, è quanto meno più difficile.
Con in più l’evidenziazione di un problema: può, il Regno Unito che persegue l’indipendenza dall’Europa anche in nome di una democrazia antica, opporsi ad una Scozia anch’essa tesa a perseguire una indipendenza che le consenta, tra l’altro, di agganciarsi ad una entità diversa e più grande, l’Europa, appunto? Ha senso, per il Regno Unito, che ha preso questa decisione attraverso un referendum, rifiutarsi di permettere ad una Nazione componente di indire a sua volta un referendum diretto ad esprimere una decisione analoga, solo limitata alle isole britanniche?
Due pesi e due misure…?

Il Presidente degli Stati Uniti, l’America per antonomasia, ha firmato il decreto che cancella quanto stabilito dal suo predecessore a difesa del clima dell’intero pianeta. E questo in nome della sua personale opinione che tra l’estrazione del carbone e il suo uso nelle centrali (da un lato) e inquinamento (dall’altro) non esistano collegamenti, con questo anche affermando implicitamente che gli scienziati che sostengono il contrario sono meno preparati di un imprenditore, sì, di successo (non so se proprio, certamente dei suoi ascendenti), ma pur sempre non uno scienziato o uno studioso o un esperto della materia.
E’ il trionfo della economia (non ostante tutto, spicciola) sulla scienza e del primato della economia (sempre quella spicciola) sulla politica. E non a caso una delle motivazioni è quella che la riapertura delle miniere e delle centrali a carbone creerà posti di lavoro e comunque contribuirà a riportare gli Stati Uniti ai livelli di ricchezza antecedenti alla crisi ed al primato economico nel mondo.
A mio parere, la conferma che il sistema economico attuale è un sistema di rapina e di amoralità dovuta all’egoismo ed al disinteresse per gli altri.
Ignoro se è pensabile che anche questa decisione possa essere impugnata dalla Giustizia americana: al momento, non posso che augurarmelo.
Così parlò a suo tempo il Presidente: “Mio compito è pensare agli Stati Uniti, non al mondo”. Forse non sono esattamente le parole usate, ma è il loro significato. Del resto, è in linea con un comportamento coerente con le promesse fatte in campagna elettorale ad un popolo che si è espresso in maggioranza a suo favore e che, pare, in più di una occasione si è professato ancora d’accordo.
Il che potrebbe anche indurre ad una considerazione, di carattere assolutamente generale: il Presidente mantiene fede alle sue promesse, alla luce del sole, con questo anche creando un abisso tra il suo comportamento e quello di quasi tutti gli altri Politici che infestano i Paesi del mondo. Che è cosa positiva.
Di non altrettanto positivo, probabilmente il livello della cultura della maggioranza.

La creazione di posti di lavoro sembra anche la ragione della costruzione del muro ai confini con il Messico: un colpo gravissimo all’immagine del Paese. per antonomasia difensore della libertà e capace di accogliere e di dare a tutti una opportunità. Qualcuno dovrebbe, forse, spiegare al Presidente che per costruire una immagine occorrono anni di durissimo lavoro; per distruggerla, l’immagine, bastano pochi minuti; per ricostruirla, occorre moltissimo tempo e non è detto che si riesca.
E che l’immagine è anche e soprattutto espressione della cultura e dunque della civiltà di un popolo, e quanto sta accadendo negli Stati Uniti denuncia una stato preagonico dell’intera civiltà del nostro mondo. Forse, siamo ancora in tempo per correre ai ripari, ma occorre non dimenticare che più tempo passa più è difficile riparare i guasti.

La via della inciviltà da noi in Italia sembra esprimersi con l’aumento del numero dei comportamenti violenti dalle cause immediate più diverse, tutte a mio avviso riconducibili comunque alla decadenza della cultura “generale”, alla perdita generalizzata dei nostri valori, alla crescente convinzione che la ragion fattasi sia vincente.
Si uccide per una disputa in discoteca, per incapacità di gestione della economia familiare, per un malinteso senso di difesa dell’amore, per l’affermazione del proprio potere, per paura del futuro, per la pesantezza del presente…
Nel caso di quanto accaduto in un paese del padovano, dove un padre ha ucciso in modo particolarmente orripilante i due più piccoli dei suoi tre figli, sembra venire in rilievo la voglia di apparire acquistando quei “simboli di stato” che esprimono il successo: l’appartamento di lusso, la villa in campagna o anche l’automobile grande e potente, scoprendo solo a posteriori l’impegno finanziario cui non si riesce a far fronte. Che mi pare sia un problema culturale, prima ancora che strettamente economico, drammaticamente confermatosi in una società che spinge ad apparire e per questo a spendere anche quanto non si ha, senza neppure avere la certezza di risorse future.
Come un problema di cultura è quanto accaduto in Lazio: il giovane aggredito e ucciso da un gruppo nella piazza del paese di fronte alla discoteca, sembra con la complicità di un paio di buttafuori, in fondo aveva impegnato il proprio tempo libero nel solo modo conosciuto. Nulla di male, se non fosse che in troppi locali si coagulano interessi che vanno dallo spaccio alla prostituzione al desiderio di veder riconosciuto il proprio potere e ad altri commendevoli fattori di una cultura in progressiva decadenza.
Poi, si scopre anche che giovani minorenni approfittano per anni di un coetaneo incapace di difendersi, forti di una educazione che appunto si appella all’esercizio di un potere di non importa quale natura e per il quale l’importante è sapere che si dispone di uno schiavo non in grado di ribellarsi. Che è una volta ancora una faccenda di cultura e di incapacità dei genitori di insegnamento e di formazione.
E nel genovese un gruppo di cinque coetanei, compagni di scuola, hanno sottoposto un giovane ad umiliazioni e violenze di ogni tipo. Figli di famiglie particolarmente agiate, sembra, conosciute ed importanti: avvocati, medici, docenti, industriali, che frequentavano una scuola privata da settemila euro l’anno. Così “l’Avvenire” del 26 marzo. Che naturalmente significa che questa cultura di bassissimo livello prescinde non solo dalle aree geografiche, ma anche dalle disponibilità finanziarie.
E ciò a conferma che di un problema di cultura si tratta, lo stesso, in fondo, che ha guidato nel padovano un giovane sedicenne ad uccidere il padre con un colpo di fucile e subito dopo a cercare di nascondere l’arma e ad inventarsi una rapina. Ed anche lo stesso che ha spinto fidanzati, mariti, amanti, compagni gelosi ad aggredire le proprie donne, anche ricorrendo a metodi fantasiosi e complessi, quasi certamente non frutto della propria creatività.
Non sarebbe il caso di cominciare a pensare a come questa cultura si sia formata ed a come e dove si sviluppi?
E non sarebbe il caso di interrogarsi sul perché quelle “comunicazioni di violenza e di arroganza” da sempre mirino dei benpensanti sembrino oggi riscuotere un successo mai così vasto? Non potrebbe trattarsi di una aumentata debolezza critica del pubblico di riferimento, più ancora che di una maggiore virulenza dei temi e dei modi della comunicazione?

Di inflazione a metà marzo si è parlato come del concretizzarsi di una speranza. E’ aumentata, l’inflazione, anche se – si dice – non ancora abbastanza per una certezza di ripresa dell’economia, ma per una speranza, sì. E’ un classico del pensiero degli economisti tradizionali: la deflazione è un danno e un pericolo da evitarsi in tutti i modi, l’inflazione un segnale positivo: se i prezzi aumentano, vuol dire che l’economia funziona o comincia a farlo.
Ma è possibile che le cose non stiano così. O almeno, non del tutto. I prezzi possono aumentare per ragioni diverse, ma per il nostro tipo di economia è pensabile che l’aumento sia positivo solo nell’ipotesi che sia il risultato di un incremento della domanda.
Vogliamo meditarci appena un poco di più in cattedra?

Papa Francesco ha visitato Milano per la prima volta. Al di là di ogni altra possibile considerazione, sembra che il Pontefice abbia tratto l’impressione che la città sia ancora la capitale economica e forse anche morale di questa nostra disastrata Italia. Ha detto il Papa a Monza, di fronte ad un milione di fedeli presenti fisicamente alla Messa celebrata al parco: “Si specula sui poveri e sui migranti; si specula sui giovani e sul loro futuro. Se continuano ad essere possibili la gioia e la speranza cristiana non possiamo, non vogliamo rimanere davanti a tante situazioni dolorose come meri spettatori che guardano il cielo aspettando che smetta di piovere. Tutto ciò che accade esige da noi che guardiamo al presente con audacia, con l’audacia di chi sa che la gioia della salvezza prende forma nella vita quotidiana della casa di una giovane di Nazareth.”
E’ forse il fiore della speranza?